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I temi più rilevanti per:
Aspetti generali
1. Il problema
dell’invecchiamento della
popolazione sarà risolto solo
da: commercio internazionale
e immigrazione
2. Prima della fine del 2030
l’economia Cinese sarà più
grande degli USA e quella
indiana sarà al terzo posto
3. I nazionalpopulisti non saranno
disposti a cedere il potere
2
SINTESI
Russia
L’instabilità nell’Unione Sovietica, dove la Perestrojka di Gorbaciov aveva incoraggiato le forze tendenti alle
divisioni senza stimolare la crescita economica, dava un’indicazione su ciò che non bisognava fare.
Deng respinse l’idea di una liberalizzazione politica radicale in modo da poter orchestrare riforme economiche
graduali. Sarebbe stato il governo a dare vita al mercato in Cina, invece di consentire che emergesse in modo spontaneo
e imprevedibile dalle ceneri di un’economia socialista.
Forse è stata la scelta giusta per la crescita dell’economia, ma ha rimandato a un futuro parecchio lontano la libertà
politica per i cinesi.
Spostando l’ago della bilancia, probabilmente ha reso più difficile allontanare il Paese dalla possibilità di un
governo autocratico, uno degli obiettivi di Deng.
È stata presumibilmente una delle decisioni più importanti nella storia recente del mondo.
Cina
Il Partito comunista assunseil controllo dopo la seconda guerra mondiale
Nella gara economica vincesull’India democratica
Sta cercando di lasciarepiù libertà al mercato
Nelle campagne rimaseun po’ di proprietà privata cheaumentò la produttività agricola
La comunità ruraledivenne il centro della rinascita economica chedi uno spirito democratico
Deng nel 1992 portò la liberalizzazionenella Cinameridionaleele comunità dei piccoli villaggi negli anni 90 furono
privatedei piccoli poteri
La Cina si spostò verso un capitalismo governato dallo stato nellecittà
Le aziende statali poterono licenziareil personalein eccesso
Soluzione: investimenti diretti esteri che portano anche know how e pochi rischi politici evantaggi:
- Aliquota fiscale
- Valuta bloccata cheaiuta leesportazioni
- Cessionedi terreni con compensi anche ai funzionari locali (iniziala corruzione)
Politica del figlio unico,inquinamento,ecc.
Ceto medio per milioni di persone
Ruolo fondamentale del capo del partito che era più potente dell’amministratoredelegato dell’impresa.
Partito comunista:forte per l’economia ma debole per la corruzione(orologi costosi)
E’ molto più avanti dei paesi sviluppati in intelligenza artificialeemachine learning.
Il partito inserisceuna propria cellula nelleaziendesia pubblichecheprivate
Le famigliehanno molti risparmi cheinvestono nei mercati finanziari chesono controllati dallo stato.
PUNTEGGIO SOCIALE: condiziona il futuro dei giovani con accesso allascuolaeal lavoro
India
dopo la seconda guerra mondialedivenne indipendente dall’impero britannico
Più possibilità di separarestato e mercati
Molte regole burocratichema pochi impiegati statali
Democrazia vivacema caotica
Stato e mercati sono una cosa sola
Crisi nel 2000
Discrezionalità burocraticaepotere del burocrate
Corruzione2000-2010 nella cessionedegli sfruttamenti minerari
Solo l’ediliziapuò portaresviluppo per impiego di manodopera che esce dall’agricoltura
Una buona strada che connette alla città porta progresso
Sia Cina che India vedono il pericolo del NAZIONALPOPULISMO
3
PER CHI VUOLE APPROFONDIRE
Capitolo 8
L’ALTRA METÀ DEL MONDO
Ci siamo occupati finora principalmente di Europa e America. Prima di parlare delle soluzioni dovremmo esaminare i
Paesi destinatia crescere in futuro,compresi quelli che oggivengono chiamati «mercati emergenti» - Brasile, Cina, India,
Messico,Arabia Saudita, Sudafrica, Turchia, Vietnam e altri - e quelli africani e asiatici in via di sviluppo,come l’Etiopia
e il Myanmar. Qualunque policymaker di un Paese sviluppato deve essere consapevole diuna cosa:malgrado oggi possa
sembrare che il commercio internazionale e l’immigrazione siano temi controversi, rappresenteranno la soluzione al
problema dell’invecchiamento della popolazione, con il quale quasi ogni Paese sviluppato dovrà presto fare i conti. I
futuri mercati dei beni dei Paesi sviluppati, la destinazione dei risparmi in eccesso accumulati dai loro cittadini in
preparazione alla terza età e la fonte della manodopera di cui avranno bisogno perdare supporto a una società più anziana
risiederanno nei mercati emergenti e nei Paesi in via di sviluppo, che saranno ancora giovani e in crescita.
È per questo motivo che sarebbe miope per il mondo sviluppato innalzare barriere elevate per separarsi dal resto del
pianeta mentre fa fronte ai suoi attuali problemi politici. Inoltre i problemi che necessitano di soluzioni globali, come il
cambiamento climatico, che minaccia la nostra qualità di vita, e la volatilità dei flussi globali dei capitali, che danno luogo
a crisi periodiche, richiedono una partecipazione globale.
Le strutture che abbiamo a disposizione per la governance globale sono datate. I Paesi sviluppati rappresentano una
percentuale sempre più bassa dell’economia mondiale, eppure hanno ancora in mano tutte le redini rilevanti all’interno
delle istituzioni incaricate della governance globale. Prima della fine del prossimo decennio, a meno di una qualche grave
calamità, l’economia cinese sarà più grande di quella degli Stati Uniti, mentre quella indiana - che ha già superato quella
francese - sarà al terzo posto nel mondo. In passato, convinti che i grandi Paesi sviluppati fossero i custodi dell’ordine
globale basato su norme pattuite creato dagli Stati Uniti dopo la seconda guerra mondiale, gli altri Stati sono statititubanti
nell'avanzare la richiesta di una più equa spartizione del potere. Sebbene il sistema fosse configurato in modo che gli Stati
Uniti fossero liberi di violare le regole, si comportarono perlopiù come se fossero obbligati a rispettarle. Adesso che
hanno dimostrato di poter eleggere amministrazioni che non rispettano le norme, il mondo può accettare un Paese,
qualunque esso sia, al di sopra delle regole?
Tuttavia, malgrado i nazionalpopulisti non abbiano alcun rispetto per le istituzioni globali, non saranno disposti a
cedere il potere.Tale impasse non è positivo.O gli altri Paesi smetteranno di rispettare le istituzioni globali e ne creeranno
di proprie, o ci sarà un vuoto nella governance globale finché questiPaesi non diventeranno sufficientemente potenti da
assumere direttamente il controllo delle istituzioni globali. In questo caso i mercati emergenti più grandi erediteranno la
distribuzione sbilanciata del potere che oggi favorisce i Paesi sviluppati. Questi ultimi si pentiranno della loro riluttanza
a operare riforme, se i mercati emergenti imporranno loro la stessa struttura di potere che oggi subiscono.
Esiste sempre la possibilità che abbandoniamo quell’ordine internazionale basato su norme, che ha aiutato il mondo
a concentrarsi sugli interessi collettivi reciprocamente vantaggiosi invece che su quelli egoistici.
Quando ogni Paese vorrà rendersi great again, le macchinazioni economiche a somma zero del mondo pre seconda
guerra mondiale torneranno in scena.Per comprendere questiproblemi è opportuno fornire al lettore un punto di vista dal
mondo emergente e in via di sviluppo.
Ci concentreremo sui due mercati emergenti più grandi, Cina e India, in parte per capire alcune sfide affrontate da
questi Paesi - compresa quella di riequilibrare i pilastri al loro interno - e in parte per renderci conto di quanto sia
importante per il mondo coinvolgerli come membri responsabili della comunità delle nazioni.
La Cina e l’India presentano similitudini?
Il Partito comunista assunse il controllo della Cina dopo la seconda guerra mondiale. Più o meno nello stesso periodo
l’India divenne un Paese democratico e indipendente dall’Impero britannico. In India ogni governo deve lottare
periodicamente perottenere un nuovo mandato,il che significa che i governisono più limitati nella loro capacità di azione,
non solo dalla forza delle proteste democratiche e dalle numerose organizzazioni della società civile ma anche da
istituzioni come la magistratura e l’opposizione. Figure critiche come Lee Kuan Yew, che ha creato la Singapore moderna,
hanno sostenuto che i Paesi poveri non possano permettersi la democrazia. In effetti, nella gara tra Cina e India a chi
cresce di più si ha l’impressione che la Cina autoritaria stravinca sull’India democratica. Se ci si basasse semplicemente
sui dati, probabilmente non bisognerebbe mai citare l’India accanto alla Cina: l’economia di quest’ultima e il suo reddito
pro capite (considerando che i due Paesi hanno all’incirca la stessa popolazione), ai tassi di cambio di mercato,
ammontano quasi al quintuplo di quelli indiani.
Eppure esistono più somiglianze di quante siamo dispostiad ammettere nei percorsi di crescita dei due Paesi. Sia la
Cina sia l’India all’inizio dei rispettivi processi di riforma erano sistemi dominati dallo Stato con un mercato debole. Il
governo cinese, sotto il controllo centralizzato del Partito comunista, se la cavava meglio con l’esecuzione, mentre in
India i mercati e il settore privato inizialmente avevano un po’ più peso.Le prime liberalizzazioni, sollecitate dalla fine
del maoismo in Cina e da una crisi finanziaria in India e influenzate dalla corruzione perché entrambi i sistemi erano
ancora affetti da un eccesso di regolamentazioni, generarono una forte crescita. La Cina fu più in grado di sopprimere i
4
mercati, e di reprimere le famiglie, perché non doveva fare i conti con la democrazia. Questo le consentìdi dar luogo a
una crescita più rapida, ma la sua crescita fu più sbilanciata - a favore delle grandi società statali e a spese delle famiglie,
a favore di risparmi e investimenti e a spese dei consumi, e a favore degli investitori esteri a spese dei cittadini.
In quel Paese si sono creati vari disequilibri: un eccesso di capacità in vari settoridell’economia dovuto all’eccesso
di investimenti, che ha portato a un indebitamento eccessivo delle grandi società e delle amministrazioni locali nonché a
una dipendenza eccessiva dagli investimenti e dall’export ai fini della crescita. Inoltre, la Cina è ormai prossima alla
frontiera globale della produttività in diversi settori.Lo Stato avrà difficoltà a continuare a prendere decisioni economiche
all’interno di un’economia complessa così moderna, perché sono decisioni che è meglio lasciare al mercato; la Cina sta
cercando di lasciare più libertà al mercato di stabilire le allocazioni e di premiare o punire i partecipanti. Dovrà passare a
uno Stato più limitato dalla Costituzione, se vuole che il settore privato si senta sufficientemente sicuro per realizzare
investimenti. Ma il Partito comunista vuole mantenere il proprio monopolio sul potere politico e ci sono segnali di un
indebolimento della democrazia anche al suo interno.
La Cina può farcela davvero?
L’India, con il suo sistema politico più pluralistico e più aperto, si trova in una posizione migliore affinché la
comunità possa instaurare una maggiore separazione fra Stato e mercati. Il suo pilastro più debole è lo Stato1.
Per eguagliare efficacemente quello che la Cina ha già fatto, l’India dovrà migliorare significativamente le facoltà dello
Stato - un’affermazione che potrebbe sorprendere chi pensa che abbia già una burocrazia eccessiva. A dire il vero ha
un’infinità di regole e di norme burocratiche, ma relativamente pochi impiegati statali in rapporto alla popolazione (uno
dei motivi per cui ci vuole così tanto a smaltire qualunque richiesta). Gli impiegati pubblici sono troppo spesso poco
formati e poco motivati, mentre quelli in gamba vengono sovraccaricati. Gran parte delle cose che uno Stato efficace
dovrebbe fare, come fornire infrastrutture e servizi pubblici, verificare il rispetto delle norme o chiudere i casi giudiziari
con una sentenza, vengono disattese perché lo Stato cerca di fare troppe altre cose con troppo poche risorse.
L’India ha anche un settore privato che dipende ancora dallo Stato e che di conseguenza gli pone dei limiti molto
tenui. Sperimenta dunque il paradosso di avere uno Stato inefficace, ma solo moderatamente limitato.
La sfida che dovrà superare negli anni a venire non riguarda la sua democrazia - che probabilmente è l’unico sistema che
possa tenere unito un Paese con comunità così eterogenee - bensì la necessità di rafforzare sia le facoltà dello Stato sia
l’indipendenza del settore privato. Riuscirà l’India a compiere il passaggio a una democrazia liberale di mercato?
Cerchiamo una risposta a questa domanda e a quella sulla Cina.
Cina: liberalizzazione di mercato sotto il controllo di un partito politico
Il presidente cinese Mao Tze Tung negli ultimi vent’annidella sua vita divenne sempre più incostante.Il suo grande balzo
in avanti (nel quale milioni di cinesi morirono di fame, nei primi anni Sessanta del secolo scorso,mentre Mao cercava di
far passare le zone rurali dalla produzione di generi alimentari all’industria) e la sua rivoluzione culturale proletaria (nella
quale molti intellettuali furono perseguitati, umiliati, incarcerati e uccisi allo scopo di purificare il movimento comunista
e liberarlo da ogni tendenza capitalistica) lasciarono traumatizzato il Paese. Il leader successivo, Deng Xiaoping, era
determinato a fare in modo che il Paese non fosse mai più dominato da una sola persona. Deng, che era stato vittima di
due purghe del Partito comunista e il cui figlio era stato reso zoppo dalle Guardie rosse durante la rivoluzione culturale,
diede un graduale impulso al cambiamento a partire dal 1978.
La strada che non fu seguita
Le prime riforme furono spesso implicite; per esempio, le autorità chiusero un occhio nei confronti delle attività
commerciali private, malgrado fossero tecnicamente illegali in base al regime comunista. La crescita prese avvio nelle
zone rurali, lontane dalla portata della burocrazia centrale, perché era proprio lì che il partito non aveva eliminato del
tutto la nozione della proprietà privata. In base al Sistema di Responsabilità Familiare, le famiglie rurali ottenevano
l’usufrutto di terreni e macchinari dai collettivi di agricoltori e tenevano persé l’eventuale surplus generato oltre la quota
richiesta. Fu un passo importante verso una maggiore produttività agricola.
Nacquero anche delle imprese private, sotto le mentite spoglie di collettivi detti Imprese Cittadine e di Borgata2. Gli
ideologi marxisti avevano determinato che tali entità si sarebbero macchiate di sfruttamento qualora avessero superato i
sette membri, ma la norma era applicata raramente. Queste imprese producevano beni di vario tipo, dalle radio ai
frigoriferi, e permisero a molti coltivatori di arricchirsi. Le riforme interessarono perfino le imprese statali, dato che quelle
con le performance migliori furono autorizzate a tenersi i profitti e a pagare di più i dipendenti. La crescita andò a gonfie
vele e fu accompagnata da una certa liberalizzazione politica, a mano a mano che la corrente liberale del Partito comunista
acquisiva credibilità. Fu concesso agli abitanti dei villaggi di eleggere i propri rappresentanti. Grazie alla crescente
prosperità, le relative amministrazioni ottennero i fondi per svolgere attività importanti3. La comunità rurale divenne il
centro sia della rinascita economica sia di uno spirito democratico sempre più marcato. La stampa godette diuna maggiore
accessibilità, tanto che nel1987 perfino alcuni giornalisti stranieri furono invitati a socializzare con i membri del Politburo
alla fine del congresso del partito4. Riformatori come Zhao Ziyang, segretario generale del partito e protetto di Deng,
sottolinearono la necessità di distanziare il partito dal governo - un primo passo indispensabile verso un sistema
multipartitico.
Tuttavia si stavano addensando delle nuvole all’orizzonte. In un’economia socialista molti prezzi sono fissi e beni
essenziali come il grano sono ripartiti attraverso il sistema pubblico di distribuzione. Mentre cercavano di imbrigliare le
forze di mercato, le autorità cinesi permisero ai prezzi di alcuni beni di fluttuare. Gli speculatori dirottarono i beni sul
mercato aperto, dove i prezzi erano ai livelli più alti. Si vennero così a creare situazioni di scarsa disponibilità nel sistema
pubblico di distribuzione, in cui i prezzi erano fissi e a livelli accessibili, soprattutto a mano a mano che i cittadini, in
5
previsione di un aumento dei prezzi, acquistavano grosse scorte di prodotti. L’inflazione salì considerevolmente. I
lavoratori impiegati in stabilimenti dalle performance limitate o nei settorisalariati dell’economia cominciarono a trovarsi
con l’acqua alla gola, oltre a temere di rimanere disoccupati a causa di ulteriori riforme. Prova-
vano poi risentimento per il fatto che l’élite del partito potesse accedere ai beni scarsamente disponibili. Il crescente
corpus di evidenze sulla corruzione nel partito, dato che le autorità locali accettavano tangentiper ignorare le violazioni
delle normative da parte di nuove imprese, accentuò la loro rabbia.
Le riforme suscitavano aspettative, ma il mercato prende mentre dà.
Invece di ottenere i buoni impieghi a cui gli studentidi università d’élite come quella di Pechino credevano di essere
destinati, molti si trovarono senza lavoro mentre le aziende di proprietà statale, affette da un eccesso dipersonale e ormai
consapevolmente orientate al profitto, riducevano le nuove assunzioni. Inoltre gli studenti erano consapevoli delle
crescenti proteste contro i governi socialisti nell’Europa orientale, così come delle crepe che si stavano aprendo
nell’impero sovietico. In modo piuttosto ottimistico, erano convinti che i riformatori della Cina, che sembravano così
aperti al cambiamento economico, potessero sostenere anche una liberalizzazione politica più ampia. La morte di Hu
Yaobang, riformatore di primo piano che era stato costretto a dimettersi per le sue posizioni troppo liberali, fu la miccia
che fece esplodere le proteste in piazza Tienanmen a Pechino nella primavera del 1989, in cui agli studentisi unirono i
lavoratori scontenti.
Per un certo periodo sembrò che i manifestanti potessero costringere il partito a cedere. Gli studentidell’Accademia
di Belle Arti eressero la statua della «dea della democrazia» nella piazza, di fronte alla gigantografia di Mao Tze Tung.
Ma quando Deng fu costretto a scegliere fra la liberalizzazione politica e il mantenimento del controllo sul Partito
comunista, l’uomo che aveva subito due purghe scelse il partito. Fu chiamato l’esercito, che nella sanguinosa giornata del
4 giugno 1989 fece sgombrare la piazza. Molti studenti,lavoratori e sostenitoridella protesta morirono dentro e intorno
a piazza Tienanmen. I liberali nel partito, come il segretario generale Zhao Ziyang, furono epurati e i fautori della linea
dura ottennero più influenza. Non si parlò più di distanziare il partito dal governo.
Sarebbe stato il partito a governare.
Deng fu costretto a compiere scelte terribilmente difficili, anche se le decisioni che prese seguirono una logica
stabilita a sangue freddo. La Cina aveva sofferto enormemente per il caos interno in passato,quando il centro del sistema
era debole. L’instabilità nell’Unione Sovietica, dove la Perestrojka di Gorbaciov aveva incoraggiato le forze tendentialle
divisioni senza stimolare la crescita economica, dava un’indicazione su ciò che non bisognava fare. Deng respinse l’idea
di una liberalizzazione politica radicale in modo da poter orchestrare riforme economiche graduali. Sarebbe stato il
governo a dare vita al mercato in Cina, invece di consentire che emergesse in modo spontaneo e imprevedibile dalle
ceneri di un’economia socialista. Forse è stata la scelta giusta per la crescita dell’economia, ma ha rimandato a un futuro
parecchio lontano la libertà politica per i cinesi. Spostando l’ago della bilancia, probabilmente ha reso più difficile
allontanare il Paese dalla possibilità di un governo autocratico, uno degli obiettivi di Deng. È stata presumibilmente una
delle decisioni più importanti nella storia recente del mondo.
Per un certo periodo l’idea di procedere a ulteriori riforme economiche fu riposta nel cassetto. Tuttavia nel 1992
Deng effettuò un ampio giro della Cina meridionale, sfruttando quelviaggio per riaffermare la necessità di procedere con
la liberalizzazione. Pare che abbia dichiarato «Arricchirsi è una cosa magnifica» e abbia affermato che gli elementi
conservatori della società cinese fossero più pericolosi di quelli orientati alla liberalizzazione. Le riforme ripresero vita,
ma ebbero un carattere profondamente diverso, come sostiene l’economista del MIT Yasheng Huang.
Nel decennio successivo, sotto la leadership del presidente Jiang Zemin, che era stato a capo del Partito comunista a
Shanghai, l’epicentro dell’attività economica e l’attenzione del governo si spostarono su grandi città e cittadine situate
nelle zone costiere, sulle imprese di proprietà statale e sull’obiettivo di stimolare gli investimenti esteri diretti5.
Nello stesso tempo le comunità dei piccoli villaggi, che negli anni Ottanta avevano sperimentato una breve ondata di
liberalizzazione politica e di democrazia, negli anni Novanta si videro private dei propri poteri, compreso q uello di
definire il proprio budget, da parte dei capi del partito che operavano nelle municipalità6. Capi del partito che erano
nominati, non eletti; si trattò dunque di una centralizzazione del potere, il quale fu sottratto alle comunità dei villaggi,
troppo numerose e diffìcili da controllare.
Dal capitalismo imprenditoriale a quello statale
Dalla comparsa incontrollata e quasi spontanea di attività imprenditoriali nelle zone più povere, rurali e interne, la Cina
si spostò dunque verso un capitalismo più governato dallo Stato nelle città e cittadine e nelle zone costiere, che erano più
ricche. Le imprese statali, soprattutto quelle più grandi, erano ovviamente più facili da controllare per il partito, ma
avevano troppi dipendenti ed erano inefficienti. Negli anni Novanta la Cina compì tre passiimportanti per migliorarne il
funzionamento.
In primo luogo adottò la politica dell’«aggrapparsi alle grandi e lasciare andare le piccole». Questo implicò la vendita o
la chiusura in tutto il Paese delle aziende di proprietà statale più piccole, molte delle quali avevano un bilancio in rosso.
Alcune possedevano asset divalore, per esempio immobili. Furono i capi delle sezioni cittadine o provinciali del partito
ad accaparrarsi i profitti generati dalla relativa vendita a persone di loro fiducia a prezzi stracciati7.
Mentre il parco di aziende posseduto dallo Stato veniva sfrondato il governo potè concentrare l’attenzione sulle imprese
grandi e notevolmente più importanti. Nel 1990 il Consiglio di Stato introdusse la politica della «doppia garanzia», che
assicurava alle grandi aziende statali l’accesso al credito a buon mercato e input, come le materie prime, venduti
sottocosto. Ottennero anche energia elettrica e terreni a buon mercato. Alcune delle inefficienze che caratterizzavano
quelle aziende, affette dall’eccesso di personale, furono compensate a mano a mano che investirono in impianti più
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moderni, mentre altre furono camuffate dai costi inferiori degli input. A molte fu anche permesso di quotarsi su mercati
azionari domestici o esteri, il che consentì loro di accedere a capitali azionari e far entrare nelle loro squadre grandi
investitori che ebbero modo di esercitare una certa supervisione sulle società e migliorarne l’efficienza produttiva.
In secondo luogo,il governo autorizzò le imprese di proprietà statale a licenziare il personale in eccesso.I lavoratori
in Cina credevano che avrebbero sempre avuto la loro «ciotola di riso di ferro», cioè la promessa di un
lavoro fisso a vita con una pensione garantita e altri benefit come un alloggio. Il Partito comunista abbandonò tale
promessa implicita. La disoccupazione generata da queste aziende, che licenziarono quasi 50 milioni di dipendenti nel
decennio successivo alviaggio diDeng nel Sud delPaese, fu uno shocktremendo, traumatico come quello che imporrebbe
un sistema capitalistico qualsiasi. Reso più brutale dal fatto di essere inatteso.
In terzo luogo,le aziende di questo tipo furono consolidate ove possibile dando vita a holding, in modo che potessero
razionalizzare le attività e incrementare il proprio potere contrattuale.Il gruppo Baosteel per esempio assunse ilcontrollo
di sei grandi aziende di produzione siderurgica - tre possedute interamente dal gruppo e tre quotate in Borsa8. L’effetto
di tutto questo fu un incremento sia dell’output per lavoratore sia della redditività delle imprese di proprietà statale. Gran
parte di tale incremento scaturì spesso da un investimento eccessivo di capitali a buon mercato,
che furono usati in modo molto poco produttivo9.
I lavoratori in eccesso licenziati e i migranti provenienti da zone rurali, che avevano perso il lavoro in un settore
agricolo sempre più meccanizzato, dovevano essere impiegati altrove, perché il partito non poteva ignorarne i disagi a
tempo indefinito. Ciò riflette un paradosso in Cina, e più in generale nei regimi autoritari. Poiché non ottengono legittimità
dal voto popolare, la cercano compiendo scelte politiche dalle quali si evinca che pensano al bene comune, per evitare
che i costi associati al mantenimento del regime contro la volontà del popolo subiscano un incremento esponenziale. I
leader democratici possono ammettere di aver commesso degli errori dicendo «Ci siamo sbagliati» e voltare pagina. In
molti casi possono dare la colpa all’amministrazione precedente. I regimi autoritari invece, perlomeno se vogliono
continuare a godere del consenso delle persone che governano, non possono farlo, perché è sull’adeguatezza delle loro
politiche che si fonda la legittimità di cui godono. Non possono nemmeno permettersi il lusso di incolpare il regime
precedente; anche se le decisioni sono state prese da altri leader, quelli che si trovano al potere devono difenderli,
altrimenti darebbero a intendere che il regime sia fallibile e che il popolo debba avere la possibilità di scegliere di farne a
meno. Torneremo fra poco su questo paradosso dell’autoritarismo in cerca di legittimità.
Una soluzione era quella degli investimenti diretti esteri, particolarmente desiderabili per le autorità cinesi perché
apportavano know-how ma pochissimi rischi politici, dato che qualsiasi impresa estera che avesse osato interferire nella
sfera politica avrebbe potuto essere espulsa sommariamente. La manodopera opportunamente formata e a buon mercato
era un fattore importante per attrarre aziende estere intenzionate a produrre in Cina ed esportare da essa sui mercati di
tutto il mondo. Un altro fattore era la possibilità di aprire strutture nelle zone costiere, che offrivano un facile accesso ai
porti. Ma non era facile per gli stranieri con pochi contatti locali rispettare la miriade di norme imposte alle imprese da
un’economia socialista in via di riforma - anche oggi, come sottolinea l’economista Chang-Tai Hsieh, la Cina occupa
solo la settantaduesima posizione nella classifica mondiale dei Paesi in termini di «facilità di fare affari», stilata dalla
Banca Mondiale. È a quel punto che entrava in gioco il sindaco della città o il capo regionale del partito. Un uomo d’affari
indiano mi ha detto di aver espresso interesse a investire in una città cinese di medie dimensioni nei primi anni Duemila.
Quando si era recato sulposto era stato accolto all’aeroporto dal vicesindaco, una domenica, accompagnato a visitare una
possibile località quello stesso giorno e poi portato nell’ufficio del sindaco, dove erano già state preparate tutte le
autorizzazioni necessarie.
Ogni difficoltà poteva essere superata; bastava che firmasse nei punti indicati e portasse i suoi soldi per dare avvio al
progetto. Il partito facilitava le cose agli uomini d’affari che prediligeva.
Erano due fattori importanti a motivare gli investitori esteri.
Uno era l’aliquota fiscale, inferiore rispetto a quella delle imprese domestiche. Il secondo era che a partire dagli anni
Novanta la Cina si era sforzata di impedire che la sua valuta si apprezzasse rispetto alle altre, malgrado nello stesso
periodo le sue esportazioni e il surplus della bilancia commerciale fossero aumentati. Il tasso di cambio artificialmente
ridotto era di fatto una sovvenzione nei confronti delle aziende esportatrici, perché gli introiti in dollari erano più elevati
dopo essere stati cambiati in renmimbi. Molte aziende estere iniziarono a produrre in Cina per avvantaggiarsi della sua
abbondante manodopera istruita, delle infrastrutture in via di miglioramento, della disponibilità dei fornitori a fare
promesse impossibili e a mantenerle e, in misura inferiore, di quel tasso di cambio artificialmente ridotto.
Ciò che funzionò per gli investimenti diretti esteri funzionò anche per quelli privati locali, in particolare nel settore
edilizio e in quello immobiliare, che impiegavano molti lavoratori non qualificati e avevano il vantaggio collaterale di
creare infrastrutture. L’input fondamentale in quell’area era rappresentato dal credito a buon mercato, dai terreni e dalle
autorizzazioni, tutte cose che il sindaco poteva mettere a disposizione. I terreni, in particolare quelli agricoli, p otevano
essere semplicemente espropriati dietro pagamento di un modesto compenso, dopotutto tecnicamente appartenevano allo
Stato. Potevano poi essere ceduti alla società di sviluppo immobiliare di turno, a volte con un significativo ricarico che
rimpinguava le casse dell’amministrazione municipale. Tali interventi divennero sempre più necessari a mano a mano
che il governo centrale, nei primi anni Novanta, iniziò a tenere per sé la maggior parte del gettito fiscale, costringendo le
amministrazioni municipali e provinciali ad assumere un approccio imprenditoriale nella raccolta di fondi.
Invariabilmente una parte degli introiti generati da tali interventi giuridicamente equivoci finiva per incrementare i
guadagni personali dei funzionari del partito, come retribuzione per la loro «imprenditorialità»10.
La corruzione non fu l’unico fattore motivante.
7
Molti capi del partito si mostrarono fortemente interessatia quel tipo di investimenti, perché la crescita economica nella
rispettiva regione avrebbe influito significativamente sulle loro opportunità di fare carriera nella gerarchia del partito.
Altri lo fecero perché l’amministrazione locale otteneva una partecipazione azionaria nella nuova entità e di conseguenza
era direttamente interessata alla sua crescita. In ogni caso, le norme e regole onerose, così come i diritti di proprietà
relativamente fumosi, rappresentavano un ostacolo importante per qualunque persona comune intenzionata ad avviare
un’attività, mentre non erano un problema per chi aveva legami con il partito.
Quest’ultimo promosse dunque l’imprenditoria privata, continuando al tempo stesso a decidere chi autorizzare a fondare
o espandere un’impresa.
Quando i comuni cittadini che non erano dispostia lasciarsi reprimere ignoravano tali regole implicite e si muovevano
da soli, lo facevano a loro rischio e pericolo. Il Xiushui Market di Pechino per esempio era un fiorente mercato all’aria
aperta, specializzato in prodottidi marca contraffatti (particolarmente popolari fra i turisti stranieri)11. L’amministrazione
distrettuale lo chiuse, con la giustificazione che comportasse rischi di incendio e vendesse prodotti falsi, e procedette a
sfrattare i negozianti e a demolire la struttura.A quel punto un imprenditore privato ottenne il diritto di costruire e gestire
il nuovo Xiushui Market e cedette gli spazi più piccoli disponibili al suo interno mediante un’asta, durante la quale il
massimo offerto fu di 480.000 dollari per un banco. I venditori che avevano contribuito al nome e alla reputazione del
mercato precedente (al di là del fatto che fosse basato sulla vendita di prodotti falsi) subirono l’espropriazione del loro
stesso brand e solo un terzo di loro potè permettersi un banco nel nuovo mercato. Anche molti banchidel nuovo mercato
– per un caso di giustizia poetica, direbbero alcuni, ma non sorprendentemente - si misero a vendere prodotti contraffatti!
La famiglia repressa
Gli input sovvenzionati concessi alle grandi imprese dovevano pur essere pagati da qualcuno: e questo qualcuno era il
comune capofamiglia. A fronte della sua produttività, non solo riceveva un salario inferiore a quello che avrebbe avuto
in un’economia più evoluta (come in molti Paesi in via di sviluppo, i salari restavano modestia causa dell’enorme surplus
di manodopera nel settore agricolo), ma le tasse che versava andavano a finanziare gli altri sussidiconcessialle imprese;
inoltre era costretto a pagare gli elevati prezzi imposti dai monopolisti locali e riceveva pochi interessi sui suoi depositi
(il governo fissava un limite modesto per permettere alle banche di concedere prestiti a buon mercato alle grandi imprese
e alle società di sviluppo immobiliare realizzando un profitto).
Malgrado il rendimento irrisorio dei risparmi, il governo aveva smesso dipromettere un impiego sicuro e una pensione
garantita. I sindacaticinesi non lottavano seriamente per i salari o i diritti dei lavoratori, tranne quando il governo intimava
loro di farlo; essenzialmente esistevano per controllare e incanalare l’insoddisfazione dei lavoratori. Inoltre, nel 1979 la
politica cinese del figlio unico introdusse per ogni coppia l’obbligo di fatto di avere un solo figlio. Il risultato fu che sei
adulti - quattro nonni e due genitori - sarebbero dipesi da quell’unico figlio per soddisfare i loro
bisogni durante la terza età, se non avessero messo da parte dei risparmi.
La famiglia si trovava di fronte ad altre sfide.
La sua proprietà più importante, cioè la casa e il terreno sul quale era situata, non era al sicuro, come abbiamo già visto.
Inoltre la crescita industriale, unita a un contesto nel quale si tendeva a chiudere un occhio nei confronti delle violazioni
delle norme, inquinava l’aria che le persone respiravano, l’acqua che bevevano e il cibo che mangiavano. La Cina stava
diventando l’officina del mondo, ma la sua popolazione ne stava pagando il prezzo attraverso il deterioramento della sua
qualità di vita, a mano a mano che nel Paese aprivano gli stabilimenti sporchie le centrali elettriche che venivano chiusi
altrove.
La Cina seguì dunque un percorso di crescita diverso da tutti gli altri Paesi. Le famiglie comuni furono costrette a
portare un peso che non avrebbero mai dovuto reggere in un ambiente più democratico. Va detto che esistevano alcuni
importanti fattori di compensazione. Poiché il sistema generò rapidamente infrastrutture molto moderne e investimenti,
l’economia crebbe a grande velocità. Furono creati molti nuovipostidi lavoro e la produttività di quelli esistentiaumentò
rapidamente. Il salario medio dunque salì in breve tempo, pur essendo inferiore al valore aggiuntivo creato da ogni
lavoratore. La Cina si stava arricchendo con rapidità, pertanto era facile che le distorsioni fossero ignorate.
Ciò malgrado, un’elevata percentuale del reddito generato nel Paese veniva messa da parte invece di tradursi in
consumi finali da parte delle famiglie - in parte perché rimaneva bloccato sotto forma di profitti societaridi grandi imprese
di proprietà statale i quali non venivano distribuiti ma reinvestiti e in parte perché le famiglie risparmiavano di
più per il timore che le prestazioni sociali fossero eliminate e per la mancata sicurezza delle loro proprietà. Il rapporto tra
consumi privati e PIL scese dal 50 per cento circa del 1990 al 47 per cento circa nel 2000. Nel decennio successivo, in
cui la Cina crebbe a grande velocità, i consumi sono calati ulteriormente, fino a rappresentare nel 2010 un modesto 35,5
per cento del reddito. La famiglia cinese ha pagato il prezzo degli impieghi generati dalla crescita, ma la crescita è stata
spettacolare. Dall’inizio delle riforme centinaia di milioni di cinesi sono stati salvati dalla povertà e hanno iniziato a
condurre la vita relativamente agiata che caratterizza il ceto medio.
Il controllo del partito e la concorrenza clientelare
Il partito dunque ha agevolato la crescita, non permettendo a tutti di accedervi ma sfruttando le proprie facoltà di
mediazione per spianare la strada a certe imprese. Nello stesso tempo ha intensificato il proprio controllo politico. Un
libro bianco del partito scritto nel 2005 riportava la seguente definizione di governo democratico: «il Partito comunista
cinese che governa perconto del popolo»12.Ciò non significava solo il dominio di un unico partito, ma anche l’estensione
più diretta dei suoi tentacoli nelle attività delle imprese.
Ogni grande azienda di proprietà statale era associata a un nucleo del partito, e il capo politico era spesso una figura
più potente dell’amministratore delegato dell’impresa13. Era il partito a stabilire la sua strategia complessiva e a fissare
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gli appuntamenti delle figure senior. Ciò gli garantiva uno stretto controllo sulle imprese, oltre che sui loro enormi
fondi. Ovviamente permetteva anche ai membri del partito di farsi favori a vicenda, compresa la concessione di postidi
lavoro privilegiati gli uni ai figli degli altri.
L’appartenenza al partito rappresentava sempre più la strada da seguire per avere successo in Cina. Le aziende del
settore privato capirono presto l’antifona e crearono autonomamente dei nuclei. All’interno di Haier, impresa di fama
internazionale che produce articoli elettronici di consumo ed elettrodomestici, il CEO fungeva anche da segretario del
comitato aziendale del Partito comunista14. Il partito diceva chiaramente di voler ricevere informazioni e di poter
intervenire in qualsiasi organizzazione che potesse rappresentare una minaccia per il suo monopolio politico. Il
settore privato si piegava alle richieste15.
Un controllo politico cosìforte sul mondo delle imprese, in assenza di una comunità pubblica che si faccia sentire e
sia in grado di far rispettare la separazione fra Stato e attività economiche, solleva preoccupazioni sull’inefficienza del
capitalismo clientelare e sulpossibile autoritarismo, di cui abbiamo già parlato nei capitoli precedenti. La Cina si è distinta
nella sua capacità di evitare questi mali? In un certo senso sì... finora...
Come sosteneva l’esperto di scienze politiche Daniel Bell, il Partito comunista cinese sotto molti aspetti è una
meritocrazia, che addestra i suoimembri e li mette alla prova nella pratica della governance16.Ciascuno deinove membri
del Comitato permanente del Politburo, l’organo al vertice del partito, ha scalato la gerarchia dopo aver dimostrato le
proprie capacità in qualche amministrazione municipale o regionale. Poiché una parte importante della valutazione del
loro rendimento dipendeva da quanto avessero fatto crescere l’economia locale, i capi delle sezioni locali del partito
facevano ogni sforzo per attrarre potenziali investitori nella rispettiva zona, agevolando la creazione e la crescita di
imprese locali e proteggendole dalle autorità esterne, compresa quella centrale. Chang-Tai Hsieh fa notare che molte
grandi città cinesi hanno taxi di una sola marca - quella prodotta dalla joint venture fra una casa automobilistica e
l’amministrazione municipale. Obbligando i taxisti della zona a comprare vetture della marca in questione, le autorità
locali supportano il loro partner di zona.
Esiste dunque una rete clientelare in ognilocalità. Inoltre le sovvenzioniconcesse alle aziende in una località possono
mantenerle in vita anche se distruggono valore. Il partito ha un certo numero di aziende predilette a livello nazionale,
comprese alcune grandissime imprese statali che monopolizzano il mercato del Paese. È dunque diffìcile definire la Cina
un mercato pienamente competitivo. Ma la feroce concorrenza tra le imprese è una costante fra i partner delle
amministrazioni della miriade di località esistenti. «Clientelismo competitivo» è probabilmente un termine più
appropriato per il sistema cinese. Finora ha funzionato. Ma la Cina ha il sistema giusto per conseguire una crescita
continuativa? Per rispondere dobbiamo capire com’è cambiato il modello di crescita cinese dopo la crisi finanziaria.
La necessità di un cambiamento
Quello che la Cina è riuscita a ottenere negli ultimi decenni è davvero senza precedenti nella storia dell’umanità. Non è
mai successo che cosìtante persone siano state affrancate dalla povertà in così poco tempo. Inoltre la Cina ha alcune delle
aziende con le maggiori capacità tecnologiche al mondo, le università più competitive, i trasporti e le reti logistiche più
veloci, le città più vitali. Lo sviluppo è stato quasimiracoloso in questo Paese,con una crescita dell’8,7 per cento all’anno
tra il 1980 e il 2015. Ma la Cina non può più crescere come ha fatto finora.
Il modello seguito negli anni Novanta e nei primi anni Duemila, basato su una riduzione dei prezzi degli input per le
grandi aziende - i costi della quale sono statisostenutidalle famiglie - ha dei limiti. Tanto per cominciare si basa sul fatto
che l’incremento delle esportazioni e degli investimenti generi una percentuale significativa della domanda relativa ai
beni prodotti in Cina perché i consumi, volutamente, vengono mantenuti piuttosto bassi.
La crisi finanziaria globale ha gravemente limitato la spesa da parte deiPaesisviluppati, particolarmente per i prodotti
di importazione, molti dei quali provenienti dalla Cina. Inoltre a mano a mano che i partiti populisti si sono rafforzati in
tutto il mondo sviluppato è anche diventato chiaro che alcuni governi adotteranno un approccio protezionistico. Mentre
scrivo queste pagine Stati Uniti e Cina sono impegnati in una guerra dei dazi.
Infine, le aziende estere che hanno investito in Cina con l’intenzione di esportare nel mondo intero considerano oggi
molto invitante il suo crescente mercato domestico. In passato difendevano l’ingresso delle esportazionicinesi (che spesso
provenivano dalle loro stesse strutture in Cina) nel loro Paese. Oggi invece appoggiano le minacce protezionistiche dei
propri governi, sperando che questo costringa Pechino a ridurre i dazi e altre barriere e ad aprire il mercato alle loro merci.
Dal punto di vista della Cina, dato l’ambiente politico nei Paesi sviluppati, sarebbe rischioso fare più affidamento
sull’export. Ciò significa che la Cina deve generare una maggiore domanda interna relativa ai beni che produce.
L’espansione degli investimenti domestici supportata dal credito è stata una delle strade seguite dal Paese per
stimolare la domanda, ma sta dando risultati sempre più esigui. Si è accumulato debito all’interno del sistema, con un
balzo enorme dopo la crisi finanziaria. Inoltre sta diventando più difficile giustificare investimenti continui su
infrastrutture e immobili residenziali. La premessa alla base degli investimenti in infrastrutture era «costruitele e loro
verranno», nel senso che una volta costruite le infrastrutture il loro utilizzo si sarebbe intensificato in tempi rapidi. Nei
primi anni questa ipotesisiè dimostrata vera, data l’enorme domanda latente. C’era poca necessità di verificare se la Cina
avesse davvero bisogno dell’investimento di turno: in linea di massima lo aveva. Oggi quasi ogni città di medie
dimensioni ha un elegante aeroporto e una metropolitana nuova di zecca. Il mancato svolgimento di test di mercato per
stabilire se gli investimenti sono giustificati e le enormi sovvenzioni concesse a fronte di ogni investimento stanno
portando a un eccesso. I costi di manutenzione delle nuove infrastrutture, dato lo scarso utilizzo a livello
locale, erodono i budget delle amministrazioni di zona. Queste negli ultimi anni sono state autorizzate a prendere soldi a
prestito sui mercati, ma le loro finanze oggi appaiono precarie, considerando gli enormi livelli di indebitamento e le
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perdite sempre più ingenti sugli investimenti pubblici.
Preoccupazioni analoghe riguardano gli investimenti da parte delle imprese statali, che possono espandersigrazie ai
sussidi mentre in realtà dovrebbero essere chiuse.
Ciò lascia come alternativa lo stimolo dei consumi.
L’eliminazione delle distorsioni che generavano una crescita facile, come i tassi d’interesse indebitamente bassi sui
depositi bancari, fornirà alle famiglie più reddito grazie a cui consumare. Inoltre queste stanno maturando più resistenze
a sostenere i costi della crescita. Anche nel primo decennio di questo secolo, l’acquisizione ingiusta e indiscriminata di
terreni ha innescato migliaia di proteste in tutto il Paese.
La Cina ha anche un problema di disuguaglianza.
Molte famiglie nelle comunità rurali non hanno tratto benefici dallo sviluppo, perché l’incremento dell’occupazione è
stato distribuito in modo disomogeneo; a ottenere gli impieghi migliori e più numerosi sono state le città, particormente
nelle zone costiere. La Cina deve far fronte alla crescente disuguaglianza dei redditi creando posti di lavoro di qualità
nelle zone rurali e nelle province dell’entroterra, un problema con cui, come abbiamo visto, sono alle prese anche i Paesi
sviluppati.
Infine, a seguito della politica del figlio unico e del fatto che la Cina consenta un bassissimo livello di
immigrazione, ci troviamo di fronte a un mercato emergente che invecchia rapidamente. Via via che rallenta
l’incremento della forza lavoro i salari aumentano rapidamente, costringendo alcuni settori a optare per Paesi più
economici. Malgrado la politica del figlio unico negli ultimi anni sia stata attenuata, i cinesi sono sempre più
restii ad avere più figli. Il Paese dunque rischia di invecchiare prima di essersiarricchito - ragion per cui deve fare piani
in vista di una società futura in cui le risorse che avrà a disposizione per supportare gli anziani saranno molto inferiori a
quelle di cui dispongono le popolazioni occidentali.
In poche parole, la Cina, avendo raggiunto un livello medio di reddito ed essendosi messa in pari con le economie
avanzate in vari settori, deve muoversi verso un’economia più normale, reprimendo in misura inferiore i consumi e
sovvenzionando meno gli investimenti. Deve tutelare meglio i diritti di proprietà delle famiglie. Deve dipendere meno
dal fatto che il resto del mondo consumi i beni in eccesso che produce, consumandone di più internamente. Deve
allontanarsi dalla manifattura «sporca» passandoa quella high-tech, più pulita, e ai servizi. Infine, dato l’enorme aumento
della complessità della sua economia, deve lasciare che le forze di mercato svolgano un ruolo di maggior rilievo, mentre
il governo dovrebbe smettere di dirigere l’economia passo dopo passo. In effetti tutti questi
obiettivi rientrano nel «reset politico» che la Cina intende effettuare.
Questa operazione richiede però un enorme cambiamento nel modo di fare affari. Le aziende dovranno diventare
efficienti con le proprie forze e conquistare quote di mercato, senza ricevere input sovvenzionati o protezione a livello
locale dal governo.Saranno i mercati finanziari e la concorrenza, non il partito, a determinare chi otterrà le risorse. Una
Cina futura come questa sembra molto diversa da quella del passato. Il Paese è in grado di far fronte a questo
cambiamento? Il suo più grande punto debole potrebbe essere quello che finora ha rappresentato il suo principale punto
di forza, ovvero il Partito comunista e il suo desiderio di continuare a esercitare il controllo.
Le implicazioni del cambiamento
Il Partito comunista ha ottenuto legittimità grazie alla sua superba gestione dell’economia, oltre che alla capacità di
generare crescita e creare postidilavoro. Ha perso legittimità perl’evidente corruzione di alcuni dei suoi membri, a livello
sia locale sia centrale. La massima priorità del presidente Xi Jinping, quando il suo team ha iniziato a operare nel 2013,
era quella di generare una crescita maggiormente basata suiconsumi delle famiglie. Inoltre il presidente voleva migliorare
l’immagine del partito riducendo la corruzione. Vediamo che cosa implica tutto questo. l
La lotta contro la corruzione gode di popolarità, e l’opinione pubblica ha aderito. I social media cinesi per esempio
hanno messo al bando un certo numero di funzionari fotografati con indosso orologi che costano vari multipli del loro
salario annuale (loro, naturalmente, sisono difesi dicendo che erano falsi di poco prezzo). Ma la campagna anticorruzion e
mina un elemento fondamentale del successo ottenutoin precedenza in termini di crescita. Seminando paura e annullando
gli accordi di favore concessi localmente, impedisce ai funzionari di aiutare le imprese a orientarsi efficacemente nel
ginepraio normativo. La soluzione è ovvia: norme più permissive, più chiare e trasparenti consentirebbero un ingresso
più agevole alle imprese, non più costrette a farsi «aprire la porta» da qualche potente funzionario di partito della zona.
Grazie all’ingresso di aziende nuove e innovative, oltre che all’adozione di nuove tecnologie e pratiche manageriali
efficienti da parte di quelle consolidate,la Cina sarebbe in grado di crescere senza pesare sulle famiglie. Alcune aziende
come Baidu, Alibaba e Tencent stanno espandendo le frontiere di ciò che è possibile fare con le piattaforme online e i
sistemi di pagamento, rivolgendosi ai giovani cinesi, che sono molto più dispostidei genitori a consumare e a indebitarsi.
La Cina, dato il suo enorme accesso ai dati, probabilmente è molto più avanti dei Paesi sviluppati in alcuni
ambiti dell’intelligenza artificiale e del machine learning.
Il grosso dell’occupazione non si trova però nei settori high-tech, ma nella manifattura tradizionale di vecchia data
come la produzione di automobili e la siderurgia. È in queste aree che la Cina ha bisogno di nuove tecnologie, come le
vetture elettriche e guida autonoma e l’alimentazione a batterie. Potrebbe acquisirle obbligando le aziende estere a istituire
joint venture, se vogliono vendere al suo interno - e l’enorme portata dell’economia nazionale cinese la rende
un’eventualità molto invitante – o potrebbe rilevare aziende all’estero. Tuttavia imprese e Paesi stanno sempre più in
guardia rispetto alle sue ambizioni, perché si rendono conto che i cinesi perfezioneranno qualunque tecnologia condivisa
oggi per batterli domani attraverso la concorrenza. A loro volta le aziende cinesi hanno sempre più difficoltà a replicare
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tecnologie estere o ad appropriarsene, a mano a mano che le imprese dei Paesi sviluppati diventano più consapevolidella
minaccia che rappresenta e proteggono di più le loro tecnologie.
La Cina dunque deve innovare,avvalendosideisuoistudentisempre più formati - molti dei quali conseguono diplomi
avanzati all’estero - e di quanti se ne sono andati ma potrebbero essere attirati in patria dalla promessa di laboratori
abbondantemente finanziati e di uno stile di vita agiato. La ricerca e sviluppo in Cina sta progredendo rapidamente, ma
le ci vorrà del tempo per fare la differenza17. Nel frattempo, se il Paese lascerà effettivamente che le forze di mercato si
esprimano di più, certe aree significative nel suo settore manifatturiero non saranno più competitive
in assenza delle sovvenzioni esplicite e implicite che si sono abituate a ricevere. Quando alcune aree perdono
competitività, le economie moderne fanno affidamento sul settore finanziario affinché identifichi le aziende in difficoltà,
le chiuda e ne riallochi le risorse a imprese più sane. Sono dunque i mercati, e non lo Stato, ad allocare le risorse e lo
fanno basandosi su chi può usarle meglio in futuro e non su chi ha i contatti migliori.
Riassumendo dunque la Cina deve aprire le sue vie d’ingresso, eliminare le sovvenzioni concesse alle aziende
consolidate, consentire la libera concorrenza e lasciare che il mercato porti alla chiusura le imprese con performance
insoddisfacenti. Nel frattempo il partito deve mantenere il controllo, il che significa che non può permettere al settore
privato di diventare troppo indipendente. Come può riuscirci?
La sfida per il partito: cambiare comportamento mantenendo il controllo
L’esistenza di vie d’ingresso più libere implica che i capi di partito dovranno smettere di selezionare le nuove imprese
autorizzate a entrare e di aprire loro le porte,iniziando a lasciarle aperte a chiunque voglia entrare. Ciò richiede un enorme
cambio di mentalità, soprattutto perché obbligherà i funzionari a consentire che le loro aziende locali predilette - ovvero
la fonte di una parte dei proventi del partito e perfino delle loro entrate personali – siano esposte alla concorrenza. Se non
saranno dispostia ridurre le barriere locali all’ingresso, e allo stesso tempo non vorranno tornare alla vecchia corruzione
per paura di una leadership centrale all’erta, i nuovi ingressi saranno pochi e la crescita sarà lenta.
Ipotizziamo che i capi delle sezioni locali del partito accettino di ricevere ordini dall’autorità centrale e di consentire
il libero ingresso delle imprese. Il partito a quel punto dovrà assicurarsi che ci si possa fidare delle imprese che crescono,
dato che il nuovo processo non impedirà che entrino quelle politicamente inaffidabili. Il partito ha già un metodo da
seguire a tal fine: quello di introdurre una propria cellula in ogni grande impresa, pubblica o privata, perché ne stabilisca
l’indirizzo politico. Presumibilmente, se le vie d’ingresso verranno sgombrate le cellule del partito dovranno essere
inserite nelle imprese in una fase più precoce rispetto a ora, per compensare la mancanza di un vaglio iniziale.
Dato il potere del partito, i suoi rappresentantisaranno tentati di influire sugli indirizzi di business,se non altro per
migliorare la crescita locale e gli sviluppi relativi all’occupazione. Ciò trasformerà presumibilmente le imprese private,
in genere focalizzate sull’efficienza e sulla redditività, in aziende più «soft» che avranno legami con lo Stato. I
responsabili incaricati dal partito dovranno essere enormemente disciplinati per non cadere nella tentazione di
condizionare le decisioni delle imprese, cosa che potrebbero fare grazie al potere che hanno e alla posizione che occupano.
Anche se non interverranno, l’esistenza di cellule così potenti farà pensare alla popolazione che le aziende siano
legate al partito. Ciò darà luogo a un ulteriore problema. In un’economia mutevole e in crescita, alcune imprese avranno
un modello di business sbagliato.La decisione giusta sarebbe quella di lasciar finire in bancarotta,e persino fallire, que-
ste imprese in difficoltà. Poiché la gente penserà che tutte le aziende di rilievo siano in qualche modo indirizzate dal
partito, la sua reputazione in termini di infallibilità sarà piuttosto a rischio. È in grado di reggere al fallimento di
un’azienda ogni tanto, non di un intero gruppo di aziende.
Un partito invadente sarà sottoposto alclassico vincolo del «soft budget» postulato da Jànos Kornai per le economie
socialiste: non potrà chiudere le aziende che falliscono, specialmente se ne falliranno diverse nello stesso periodo.
Piuttosto le soccorrerà sprecando una certa quantità di risorse18.Il controllo ha un costo:fa sì che le persone attribuiscano
la responsabilità al partito.
Il mercato finanziario potrà contribuire ad attenuare il problema? Probabilmente no; anzi, tenderà ad aggravarlo. Il
fatto che lo Stato, controllato dal partito, intervenga a fronte di un certo numero di fallimenti pone il classico problema
del too many to fail («troppe per fallire») in termini di rischio morale. Il desiderio di controllo politico da parte del partito
potrebbe dunque falsare il prezzo attribuito al rischio dal mercato.
Il comportamento sul fronte degli investimenti delle famiglie cinesi, che devono incrementare i propri risparmi in
vista della pensione, non aiuta. Le famiglie vagliano costantemente le opportunità di ottenere rendimenti più elevati in
patria, dato che gli investimenti esteri sono soggetti a restrizioni significative. Ogni volta che il governo cambia
leggermente le proprie politiche, offrendo alle famiglie nuove opportunità di investimento o manifestando un
atteggiamento più tollerante nei confronti del credito, le famiglie spostano enormiquantità di risparmi per avvantaggiarsi
dei rendimenti aggiuntivi, che potrebbero essere disponibili solo per poco tempo. Tali flussi spingono al rialzo i prezzi
degli asset finanziari, creando una serie di bolle. Il governo, non volendo mettersi contro le numerose famiglie che
investono i loro preziosi risparmi, è allora tentato di intervenire per puntellare quei prezzi, se iniziano a cadere. Se
interviene, le famiglie finiscono per fare affidamento sul fatto che il governo le soccorra, e il mercato finanziario di
conseguenza sottoprezzerà il rischio.
Se invece non interviene, causerà l’infelicità di molte famiglie e danneggerà la propria reputazione dal punto di vista
della gestione dell’economia e di conseguenza la propria legittimità. Se sceglie di intervenire, farà sì che i mercati
finanziari cinesi continuino a essere considerati inaffidabili come allocatori di fondi.
In sintesi, il partito sarà tentato periodicamente di sostituire la propria saggezza a quella del mercato. Se lo farà, il
mercato non potrà mai maturare in modo da indirizzare l’allocazione delle risorse e la gestione del rischio. Un vero
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cambiamento avverrà solo quando i mercati finanziari del Paese verranno svezzati e privati della protezione dello Stato.
La Cina ha bisogno che i suoi investitori assimilino la lezione che i mercati finanziari non si muovono solo verso l’alto,
ma anche verso il basso.
E una lezione dolorosa che lo Stato ha difficoltà a impartire, perché le fasi di contrazione finanziaria sollevano
effettivamente interrogativi sulla competenza di un partito onnivedente e onnipotente.Per un partito che non viene eletto
dal popolo, e che non ha molte possibilità di incolpare le amministrazioni precedenti, sono interrogativi che è meglio non
porre.
A mano a mano che la Cina si sposterà verso la frontiera dell’innovazione, le sue imprese dovranno commettere
errori. Il Paese dovrà anche eliminare un maggior numero dei suoi vecchi settori smokestack. Il punto di forza dei suoi
mercati è la capacità di far fronte a errori e fallimenti, ma il desiderio del partito di mantenere il controllo potrebbe
minarlo.
Stato, mercati e democrazia in Cina
La democrazia, come vedremo nel caso dell’India, in alcuni casi rende più difficile l’intervento dello Stato.Ma anche più
facile non intervenire. Il partito al potere non è responsabile di ogni cosa e non deve continuare a pretendere di essere
infallibile, perché trae la propria legittimità dal voto popolare, non dalla perfezione. Ciò gli consente difar fronte in modo
più efficace agli alti e bassidel mercato. È indubbio che i governi intervengano suimercati, ma ogni crollo di un mercato
non è un referendum sul governo. La democrazia crea dunque una separazione fra Stato e mercati, in un
modo diverso da quello che abbiamo visto parlando del movimento populista e di quello progressista.Consente allo Stato
di essere più sganciato dai mercati e di conseguenza all’uno e agli altri di funzionare meglio senza che i legami incrociati
compromettano le loro funzioni.
Tutto questo presuppone che la Cina continui ad avere una leadership meritocratica illuminata che goda di un ampio
supporto da parte della popolazione. In assenza dielezioni, le persone dovranno fare affidamento sulfatto che dai processi
interni al partito emergano i candidati giusti.
Ci sono motivi importanti per preoccuparsi del fatto che i processi interni possano essere sovvertiti19.
La campagna anticorruzione ha avuto l’effetto collaterale di accentrare il potere all’interno del partito, in mano a chi
ha la possibilità di lanciare accuse di corruzione. Poiché così tanti funzionari di partito e uomini d’affari in attività sono
compromessi da atti di corruzione commessi in passato, la campagna può essere usata in modo selettivo per indurre al
silenzio l’opposizione, all’interno del partito e nel settore privato. Di fatto i miei amici cinesi parlano di «peccato
originale». È così che vengono soprannominati i compromessi legali a cui quasi tutte le società cinesi private di ogni
dimensione (e i relativi enti di controllo locali) scesero nei primi tempi, quando le norme in vigore essenzialmente
proibivano qualunque attività nel mondo degli affari. Il peccato originale fornisce quindi alle autorità che lottano contro
la corruzione un bastone con cui picchiare tutte le persone coinvolte, se si comportano in modo inappropriato. L’assenza
di qualsiasi opposizione che non sia scesa a compromessi spiana la strada affinché una fazione autoritaria possa assumere
il controllo del partito, qualora decida di farlo.
Inoltre le procedure previste dal partito, comprese quelle che garantivano un ricambio periodico della leadership, non
vengono seguite. Deng temeva che potesse riemergere il dominio di una sola figura. Il fatto che i candidati a una
promozione fossero valutati su indicatori obiettivi del loro rendimento, e che esistesse una concorrenza fra loro, iniettò
un certo dinamismo nell’organizzazione. Deng cercò anche di instillare una serie di tradizioni che avrebbero impedito a
un dittatore come Mao di assumere il controllo. Oltre alle strutture che promuovevano la leadership collettiva, una di
queste tradizioni prevedeva un limite di due mandati quinquennali per la presidenza nazionale. Un’altra stabiliva che il
successore del presidente in carica fosse stabilito a metà del suo mandato, in modo che la successione fosse fluida.
Entrambe le tradizioni sono state abbandonate poco tempo fa, corroborando la tesi secondo cui, in assenza di fonti
di potere indipendenti dallo Stato, è improbabile che un leader determinato si lasci limitare dalle norme.
Il partito sembra muoversi verso un maggiore controllo e una maggiore centralizzazione. Un memorandum interno
diffuso nel 2013, intitolato «Documento n. 9», avverte dei pericoli associati alla democrazia costituzionale occidentale,
alla libertà di stampa e ad altri «valori universali», considerati idee volte a minare e addirittura dividere la Cina20. Con
uno spirito analogo,il «Grande Firewall» impedisce che idee radicali provenienti da Internet penetrino nel Paese, mentre
le grandi piattaforme Online cinesi devono condividere i propri dati con il governo. Il «sistema di credito sociale»
proposto si prefigge di incrociare tutti i dati esistenti su una persona mediante l’intelligenza artificiale per attribuire un
punteggio a ogni cittadino, che ne determinerà il diritto di accesso a servizi privati e sociali. Il fatto che il punteggio tenga
conto o meno dell’attività politica e sociale rimane un motivo di preoccupazione. Data la disponibilità di software di
riconoscimento facciale, e l’ubiquità delle telecamere, il cittadino potrebbe non avere alcun diritto alla privacy da parte
dello Stato e alcuna libertà da esso.
La speranza è che l’impegno della Cina nei confrontidella crescita economica le impedisca di diventare un’autocrazia
priva del supporto popolare. Nel lungo periodo questo Paese crescerà solo se riuscirà a imbrigliare le immense capacità
di innovazione del suo popolo - che è la natura della crescita alla frontiera. Le persone innovano quando sisentono sicure
di poter mettere in discussione le cose, quando sono libere di apportare cambiamenti radicali e quando non temono di
subire rappresaglie se li apportano. In Cina, questa sicurezza può scaturire solo da una fiducia a lungo termine nella
leadership.
La democrazia è una strada per verificare tale fiducia, oltre che per slegare lo Stato dai mercati, ma forse la Cina ne
troverà una diversa. In quel caso sarà il primo Paese di grandi dimensioni a farlo. La Cina ha bisogno di trovare un
equilibrio più appropriato.Il partito domina lo Stato e i mercati sono statirepressi.Le vie del passato pergenerare crescita
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non sono più percorribili. Le nuove strade per crescere richiedono un’enfasi maggiore sull’innovazione e sull’allocazione
efficiente delle risorse e una minore sulla repressione finanziaria e sulla corruzione. Richiedono una
decentralizzazione, ma in presenza di regole chiare a livello regionale, non di discrezionalità21. Tutte queste cose rendono
necessario che il partito lasci la presa, che conceda più libertà e indipendenza al mercato. Anche le comunità dovranno
avere più libertà e maggiori facoltà di scelta, sia di supportare l’innovazione sia di mantenere la separazione fra Stato e
mercati. Il fatto che si possa o meno fare tutto questo lasciando al partito il suo monopolio costituisce la domanda più
importante nel dilemma fondamentale di fronte al quale si trova oggi la Cina.
India: come sfruttare i punti di forza di una democrazia vivace ma caotica
L’India è cresciuta del 7 per cento all’anno negli ultimi venticinque anni, una percentuale che sembra modesta solo in
confronto alla Cina. Sotto la guida del primo ministro che occupò perprimo questa carica dopo l’indipendenza, Jawaharlal
Nehru, il Paese trasse ispirazione dalla straordinaria storia di sviluppo dell’epoca, quella dell’Unione Sovietica, che da
economia agricola si era trasformata in un colosso industriale nell’arco di una generazione. Seguendo la massima di
Lenin, Nehru riservò le «maestose vette dell’economia», comprese industrie cruciali come quella siderurgica e quella dei
macchinari pesanti, al settore statale.Gli esperti di economia dello sviluppo di quel periodo pensavano che i Paesi poveri
sarebbero cresciuti solo grazie a enormi investimenti nei settori cruciali che producevano macchinari o infrastrutture. Ciò
avrebbe incrementato la loro capacità produttiva e di conseguenza illoro reddito. Non dovevano produrre beni diconsumo
«futili», e le famiglie non dovevano consumare molte cose al di là delle proprie necessità di base.Solo allora sarebbero
state in grado di gestire i propri risparmi con parsimonia a fini produttivi, o almeno così si credeva.
Socialismo con caratteristiche indiane
L’India di Nehru non soppresse attivamente il settore privato. Piuttosto fu introdotto un sistema di cessione di licenze
industriali - che divenne noto come License Permit Raj - con lo scopo dichiarato di fare un uso attento dei risparmi del
Paese.I burocrati si rifiutarono di concedere la licenza ad aziende di settoriche a loro parere producevano benidi consumo
superflui (compresi alcuni durevoli, come le automobili), e incoraggiarono a investire in settori che avrebbero potuto
supportare la crescita in futuro, come la produzione di macchinari pesanti.
La conseguenza del sistema di licenze fu che le aziende consolidate,tipicamente società private di famiglie rispettate
che avevano ottenuto le prime licenze perché avevano i contatti giusti, furono protette dalla concorrenza. Il governo
innalzò anche una serie di barriere nei confronti della concorrenza estera; l’idea era che questo avrebbe concesso una
tregua alle giovanissime industrie indiane, fornendo loro un ambiente che le avrebbe supportate mentre maturavano e
diventavano competitive. Ma nessun player consolidato, avendo iniziato a realizzare profitti dietro quelle barriere, era
incentivato a consentire che fossero abbattute.La protezione offerta alle industrie giovanidivenne dunque una scusa usata
per diventare delle «Peter Pan», imprese che non diventavano mai adulte.
Nei quasi quarantanni di produzione industriale dell’Ambassador, la vettura più grande venduta in India, ne furono
messi in commercio solo cinque modelli diversi - e per gran parte di quel periodo gli unici elementi che subirono
modifiche furono i fanali e la forma della griglia frontale di areazione, o almeno così parve. Dopo essere cresciuta
rapidamente nel periodo iniziale dell’industrializzazione post-indipendenza, l’India rimase bloccata a un tasso di crescita
reale prò capite dell’l per cento circa, che fu soprannominato «tasso dicrescita indù». Il settore privato era inefficiente ed
enormemente indebitato nei confronti del governo,in cambio di protezione. Il clientelismo era dilagante; Stato e mercati
erano una cosa sola.
La democrazia quindi non fece la differenza? Purtroppo no! L’India teneva elezioni ogni cinque anni circa, ma questo
non significava che la democrazia permettesse alla popolazione di far sentire davvero la sua voce.Il Partito del Congresso
aveva guidato la lotta per l’indipendenza e il popolo ebbe fiducia in esso per un certo tempo, facendolo stravincere alle
elezioni nella maggior parte degli Stati. La mancata concorrenza risultò problematica. Poiché per vincere le elezioni
l’affiliazione sembrava più importante delle politiche attuate localmente, il processo decisionale divenne più centralizzato.
Nel nominare i propri ministri, Indirà Ghandi - il primo ministro che probabilmente suscita le reazioni emotive più
variegate nel popolo indiano, sia positive che negative - diede più importanza alla lealtà di ciascuno nei suoi confronti
che alle loro competenze o alla loro integrità. Alcuni politici forti e indipendenti di livello regionale lasciarono il partito
per gettarsi nella giungla politica e le loro posizioni nella gerarchia furono colmate da leccapiedi. Dato che a causa
dell’inefficacia dello Stato l’erogazione dei servizi pubblici era pessima, la politica del mecenatismo e l’apatia popolare,
di cui abbiamo già parlato in un’altra parte del libro, imperversarono.
All’inizio degli anni Settanta del secolo scorso gran parte della ricchezza esistente nell’economia o si trovava nel
settore statale,o ne era controllata (nel 1969 molte banche erano state nazionalizzate), o era in mano a docili magnati del
settore privato; esisteva dunque ben poco potere indipendente dallo Stato. Anche all’interno Partito del Congresso non
regnava la democrazia. Alcune istituzioni non erano schierate, ma la maggior parte di esse era impotente nei confronti di
un primo ministro determinato. Quando una Corte suprema decretò che Indirà Ghandi dovesse essere interdetta dai
pubblici uffici per una violazione commessa in occasione di una tornata elettorale, la donna invocò lo stato di emergenza
ed esercitò i poteri associati per abrogare le libertà civili, incarcerando gran parte dell’opposizione. La Costituzione fu
modificata nel 1976 per fare ufficialmente dell’India una repubblica socialista, il che rifletté la sfiducia di vecchia data
dell’India nei confronti dei mercati e il suo desiderio di uno Stato più forte. Tale modifica ridusse anche il potere della
scomoda magistratura, facendo avanzare ulteriormente il Paese verso l’illiberalismo economico e politico.
Malgrado il potere dello Stato fosse quasi illimitato, i risultati in aree come l’erogazione dei servizi pubblici erano
molto scadenti. Nel 1950 i cittadini indiani avevano ricevuto in media 0,92 anni di istruzione, un dato leggermente
migliore rispetto alla media cinese di allora, pari a 0,65 anni22.Nel 1970, dopo altri ventanni di democrazia, l’India era
13
salita a 1,24 anni di istruzione. La popolazione cinese invece ne aveva ricevuti in media 2,77, quasi il triplo rispetto al
livello precedente. La democrazia apatica e non competitiva non aveva fatto molto per il benessere del suo popolo! Lo
pseudosocialismo indiano non fece altro che fornire ai politici, ai burocrati e agli uomini d’affari più importanti una foglia
di fico con cui coprirsi mentre praticavano il nepotismo - una buona ragione per porre dei limiti al settore privato mediante
la burocrazia, così da poter togliere la foglia a piacimento.
L’India si risveglia
L’India abbandonò la strada intrapresa, seppur più tardi della Cina. Indirà Gandhi pose fine allo stato di emergenza nel
1977 e indisse le elezioni. Il suo partito subì una sonora sconfitta, facendo pensare che quando venivano pungolati gli
elettori indiani votassero con la propria testa.L’India divenne di nuovo una caotica democrazia. Dopo un tentativo fallito
dell’opposizione, nel 1980 Indirà Gandhi tornò al potere e l’India avviò un esitante processo di liberalizzazione23.
Nei vent’anni successivi il Paese compì alcuni passi importanti verso la trasformazione in democrazia liberale.
Abrogò alcune modifiche illiberali alla Costituzione apportate durante lo stato di emergenza. Altri sviluppi contribuirono
a limitare alcuni poteri arbitrari dello Stato. In primo luogo il Partito del Congresso non rappresentò più una scelta
inevitabile per l’elettorato. Poiché era stata spianata la strada alla concorrenza politica, emersero diversi partiti di carattere
regionale o basatisu questa o quella casta, intenzionati a sfidare il Partito del Congresso. Questi partiti conquistarono il
potere nei diversi Stati regionali e l’India di fatto acquisì una struttura più decentrata.I partiti che rappresentavano le caste
inferiori, persone che storicamente erano sempre state ignorate dall’élite, sentirono la necessità di sviluppare le capacità
dei propri sostenitori.Fecero pressione affinché servizi pubblici come la sanità e l’istruzione fossero ampliati nei rispettivi
Stati. Grazie al buongoverno, gli Stati iniziarono a crescere molto più rapidamente24. Dal 1970 al 1990 la media degli
anni di istruzione ricevuti dalla popolazione indiana più che raddoppiò,salendo da 1,24 a 2,96, ed è quasi raddoppiata di
nuovo dal 1990 al 2010, raggiungendo quota 5,39.
Nei primi anni Novanta l’India procedette a un’ulteriore decentralizzazione, introducendo formalmente un terzo strato
di governance a livello di singolo villaggio o singola città25. Ogni villaggio doveva avere un capo eletto (chiamato
sarpanch) e un comitato di gestione (il panchayat), con elezioni ogni cinque anni. Malgrado le amministrazioni statali e
quelle locali si scontrino ancora oggi sulla distribuzione delle risorse e del potere, la decentralizzazione sta procedendo.
Proprio mentre l’India stava portando avanti la decentralizzazione e rafforzando le radici comunitarie della
democrazia, una crisi finanziaria segnò l’inizio della fine dello pseudosocialismo.Le finanze esterne sideteriorarono così
tanto negli anni Ottanta che l’India dovette rivolgersi al Fondo Monetario Internazionale per ottenere fondi di emergenza.
La crisi rese chiaro più che mai che il sistema non stava funzionando, che le piccole riforme operate dal 1980 erano
insufficienti. Dati gli enormi progressicompiuti dalla Cina nel decennio precedente, gli argomenti forniti dall’India per
non liberalizzare - cioè il fatto che l’operazione funzionasse solo per i Paesi piccoli e che avrebbe rafforzato i capitalisti
predatori - sembrarono scuse per giustificare il mantenimento del sistema clientelare. Il Partito del Congresso era
consapevole che l’India doveva cambiare. Nel suo storico bilancio del marzo 1991, che avviò il processo di
smantellamento dell’intero sistema del License Permit Raj, Manmohan Singh disse «Che il mondo intero lo senta dire in
modo forte e chiaro. L’India adesso è completamente sveglia». La sua osservazione era un gioco di parole basato sul
discorso di Jawaharlal Nehru sull’indipendenza politica del Paese, durante il quale aveva detto:«A mezzanotte, mentre il
mondo dorme, l’India si sveglierà alla vita e alla libertà [...]». Essenzialmente Singh proclamò l’indipendenza economica
dell’India, mentre il Paese toglieva i ceppi economici che aveva imposto al suo stesso popolo.
Il processo di riforma era iniziato con decisione, dodici anni dopo la Cina, ma alcuni interessi forti lo osteggiavano.
Una volta che i burocrati si abituano ad aiutare gli uomini d’affari a orientarsi nel ginepraio di regole
che loro stessihanno creato,non mollano facilmente la presa.Un burocrate del governo indiano ha usato a questo riguardo
la metafora della «puntura dello scorpione». In qualunque movimento verso la liberalizzazione il burocrate sta al gioco,
ma alla fine, quando ogniaspetto è stato dibattuto e ilginepraio delle norme precedentiè stato buttato nelcestino,inserisce
una clausola che pare innocua ma che è impossibile da rispettare, la quale reintroduce la discrezionalità burocratica.
Grazie a tali resistenze, la corruzione non sparì. Ciononostante la liberalizzazione fu autentica, costante e significativa.
La crescita riprese con forza a mano a mano che aumentava la fiducia dell’India nei mercati.
I dazi sulle importazioni furono ridotti drasticamente, esponendo le aziende indiane a una maggiore concorrenza.
Come per ogni liberalizzazione, questo causò di fatto la distruzione di posti di lavoro nelle aziende consolidate. Alcuni
studi mostrano che nei distretti del Paese che subirono le conseguenze del commercio internazionale l’incidenza della
povertà era relativamente più alta, cosìcome quella dei reati violenti e legati alla proprietà26.Un punto interessante è che
queste ricerche sugli impatti negativi della concorrenza commerciale furono pubblicate prima che fossero condottinegli
Stati Uniti gli studi di cui abbiamo parlato nel Capitolo 6. La realtà è che il commercio internazionale, pur avendo
solitamente effetti benefici nel complesso,ha impatti diversi. I mercati emergenti lo sanno da tempo, ma hanno deciso di
optare per l’apertura in virtù delle conseguenze complessivamente positive. È paradossale che una volta compiuta questa
scelta e assorbiti i relativi costi, vedano alcuni Paesi sviluppati allontanarsi dalla pratica di ciò che predicavano. I costi
delle politiche economiche diventano più concreti quando si fanno sentire in patria!
Via via che il business si è espanso l’India non solo si è trovata nella necessità di sfrondare il libro delle vecchie
regole, ma anche di dotarsi di nuovi e processi normativi. Nel primo decennio di questo secolo la domanda di risorse
come i depositi minerari e i terreni ha registrato un boom, così come il loro valore. Il governo - che ne era proprietario –
ha continuato a cederle in modo informale e non trasparente,riempiendo le tasche di politici, burocrati e uomini d’affari
coinvolti. In passato l’opinione pubblica, che si trovava in uno stato di apatia, non vi aveva prestato molta attenzione. Ma
l’India del XXI secolo è molto diversa da quella che si era piegata supinamente durante lo stato di emergenza decretato
14
da Indirà Gandhi. Quando la corruzione è divenuta sfacciata, c’è stata una chiara reazione di rifiuto.
Il processo è stato agevolato dal fatto che diversi enti pubblici di vigilanza hanno iniziato a dichiarare la propria
indipendenza. Non è successo che l’establishment elitario abbia deciso di comune accordo di rinunciare alla propria
discrezionalità e procedere a una migliore regolamentazione. È stata più che altro una questione di coincidenze, in cui la
persona giusta al posto giusto ha deciso di riformare il proprio ente di vigilanza in modo che svolgesse effettivamente la
sua funzione. Persone che sono state indubbiamente aiutate da un’India più decentralizzata e caratterizza-
ta da una maggiore competitività politica, molto più favorevole a un libero accesso sulfronte politico ed economico. In
questo modo un commissario responsabile delle elezioni, un giudice capo oppure un supervisore o
un revisore generale dei conti, rifiutandosi di accettare lo status quo e spronando ilrispettivo ente a svolgere efficacemente
il proprio ruolo, poteva fare la differenza. A mano a mano che il sistema economico e politico
diventava sempre più pluralistico, queste persone hanno potuto ritagliare uno spazio per le loro istituzioni, spazio che è
sopravvissuto alla loro dipartita. Anche se il sistema ha opposto una certa resistenza, l’ente a quel punto aveva instaurato
una tradizione di cui doveva essere all’altezza e che i successori della persona in questione non potevano ignorare.
Via via che la corruzione assumeva proporzioni preoccupanti, istituzioni indiane come il supervisore e il revisore
generale dei conti e i giudici della Corte suprema hanno dunque indagato sui vari casi, li hanno resi noti all’opinione
pubblica e perseguiti. Lo sdegno della popolazione si è intensificato. Partiti populisti come l’Aam Aadmi Party (Partito
della gente comune) hanno impugnato le elezioni sulla base di una piattaforma anticorruzione, sottolineando di essere
dispostia prestare ascolto agli elettori e a lavorare per conto loro con trasparenza. Di fatto la corruzione è stato uno dei
due problemi fondamentali al centro delle elezioni generali del 2014 (l’altro è stato l’occupazione). L’Alleanza
progressista unita, che era al potere, ha perso nettamente a vantaggio dell’Alleanza democratica nazionale.
Stato, mercati e democrazia in India
L’India è dunque diversa da molti dei Paesi sviluppati che abbiamo trattato finora in quanto è stata una democrazia prima
di essere industrializzata, prima di avere uno Stato forte e prima di avere un settore privato indipen-
dente o dei mercati in buona salute. Malgrado la sua democrazia fosse inizialmente apatica, la decentralizzazione ha
rianimato la partecipazione alla vita politica e contribuito a rafforzare le istituzioni democratiche. È difficile immaginare
un sistema diverso dalla democrazia che possa funzionare in questo Paese. Data la molteplicità delle lingue (ventidue
principali e oltre settecento dialetti), delle religioni (solo Indonesia e Pakistan la superano in termini del numero di
musulmani), delle caste e delle etnie, l’India deve avere un sistema che consenta di esprimere le lamentele mediante la
protesta democratica e il dialogo, invece di reprimerle ottenendo come unico risultato che esplodano in un secondo tempo.
La turbolenta democrazia indiana allevia le pressioni e rende possibile governare il Paese.
I problemi dell’India scaturiscono dagli altri due pilastri. In primo luogo - a differenza degli Stati Uniti, in cui un
settore privato tuttora indipendente critica le politiche del governo,anche su questionipolitiche e sociali non direttamente
legate alle sue attività di business - il settore privato indiano, cioè il pilastro del mercato, si limita perlopiù a elogiare
qualunque politica pubblica. Un governo deciso, pur essendo inefficace nella maggior parte delle aree che danno benefici
alla popolazione, può comunque intimidire il settore privato e la stampa attraverso le sue minacce, oppure corromperli
mediante la concessione di crediti o di appalti pubblici. Malgrado la liberalizzazione sia iniziata da decenni, è ancora
diffusa fra la popolazione la sensazione che i più grandi magnati siano arrivati al punto in cui si trovano grazie alla propria
capacità di manovrare il sistema. I leader del partito al potere conoscono bene la brutta reputazione del settore privato.
Poiché solitamente, come in Cina, il passato di un magnate nasconde un qualche peccato commesso tempo prima, che
può essere approfondito mediante apposite indagini e reso noto all’opinione pubblica, pochissimi sono dispostia criticare
apertamente il governo di turno e men che meno a compiere dei passiper sfidarlo come opposizione. Ciò significa anche
che quando il partito al potere ha bisogno di finanziamenti per le elezioni, basta che li chieda.
Di conseguenza i partiti di opposizione di centro hanno più difficoltà a farsi sentire, soprattutto se quello al governo
gode di una maggioranza forte, perché sia i finanziamenti del settore privato sia l’attenzione della stampa tendono a
diminuire dopo una tornata elettorale, per paura di dare fastidio al governo in carica. Ciò significa che le carenze e le
tendenze autoritarie del governo vengono prevalentemente controllate solo dalla magistratura, da enti democratici come
la Commissione elettorale e dalle amministrazioni dei diversi Stati gestite da partiti di opposizione.
Un evento interessante mi ha fatto capire chiaramente lo scarso rilievo del settore privato agli occhi del governo. Il
presidente Obama era in visita a Delhi e l’intera élite indiana era stata invitata a conoscerlo durante un ricevimento nella
residenza del presidente del Paese. Come al solito i burocrati che avevano organizzato il ricevimento avevano identificato
il posto esatto occupato da ogni persona nella gerarchia politica e avevano messo tutti in fila ordinatamente perché
stringessero la mano a Obama. La fila era lunga, e iniziava dal primo ministro indiano, seguito dall’ex primo ministro, i
ministri in carica, il leader dell’opposizione, i dirigenti militari... dignitari del partito al potere in pensione,ministri di vari
Stati... il nipote del presidente indiano, vari burocrati in attività... e, in ottantatreesima posizione, il presidente della più
grande associazione indiana nel settore privato, che riuniva imprese con una capitalizzazione di Borsa complessiva di
oltre 100 miliardi di dollari, seguito da altri magnati e banchieri. D’accordo che il lavoro all’interno nella pubblica
amministrazione debba essere premiato mediante uno status superiore, per compensare la mancanza di gratificazioni
economiche, ma l’ottantatreesimo posto nella gerarchia non è così basso da risultare allarmante per uno dei massimi
protagonistidel settore privato indiano? Con ciò non voglio dire che potere e dipendenza fluiscano solo in una direzione.
Paradossalmente, una volta andati in pensione, molti burocrati che hanno preceduto i magnati in quella fila lavoreranno
per loro.
Questa situazione deve cambiare. Le elezioni non bastano, è anche quello che succede tra un’elezione e l’altra a
15
rendere vitale una democrazia. Se l’India deve seppellire lo spettro dell’autoritarismo e del clientelismo, se vuole che la
sua democrazia sia più informata e che vigili con più decisione sullo Stato e sulla corruzione, il Paese ha bisogno di un
settore privato più competitivo - e di conseguenza indipendente - che goda di uno status più elevato presso l’opinione
pubblica. Ha bisogno che un maggior numero di piccole e medie imprese crescano e prosperino,facendo concorrenza alle
aziende consolidate.
Ciò mi porta alle carenze dello Stato. Malgrado mantenga un potere che gli consente dicomportarsi occasionalmente
in modo arbitrario, non è comunque molto efficace; cerca di fare troppo con troppo poche risorse. Fortunatamente anche
lo Stato indiano sta cercando diriformarsi. Sta provando ad acquisire competenze professionali integrandole lateralmente,
e a sfruttare la tecnologia informatica per ottimizzare l’erogazione dei servizi e i trasferimenti di fondi alla popolazione.
Sono passiimportanti, ma l’India ha ancora non poca strada da fare, soprattutto ritirandosida attività di cui lo Stato non
dovrebbe occuparsi.
Forse un aneddoto può avvalorare questo punto:quando ho lavorato per qualche tempo per il ministero indiano delle
Finanze come principale consigliere economico, sono rimasto scioccato dal mucchio di documenti che passavano sulla
mia scrivania - scioccato in primo luogo dal fatto che usassimo ancora documenti cartacei nel XXI secolo e in secondo
luogo dalla quantità di fogli esplicativi che dovevo leggere per capire la nota allegata alla copertina di ogni documento,
sulla quale dovevo aggiungere i miei commenti e la mia firma. Che, naturalmente, sarebbero diventati una lettura
obbligata per la persona che avesse ricevuto quelle carte dopo di me.
Quando mi sono lamentato di questo con un burocrate veterano, mi ha indicato una semplice soluzione basata
sull’esperienza e su una logica impeccabile: «Dedica meno tempo ai documenti più corposi. Si tratta di questioniche non
vanno da nessuna parte,che continuano a circolare fra varie scrivanie, mentre ciascuno spreca il tempo altrui aggiungendo
ulteriori commenti. È per questo che sono cosìcorposi. Dedica tutto il tuo tempo ai documenti di poche pagine. Trattano
di questioni recenti rispetto alle quali un’opinione stringente potrebbe davvero far succedere qualcosa».
Aveva ragione, ma l’episodio ha una morale più ampia. L’India deve lasciar perdere i documenti corposi e
concentrarsi di più su quelli di poche pagine. Lo Stato può fare di più cercando di fare di meno.
Perché l’India non ha avuto gli stessi buoni risultati
Cina e India erano due colossi asiatici addormentati, ma la Cina si è svegliata per prima. Un tempo avevano lo stesso
livello di povertà, ma la Cina oggi ha fatto uno scatto in avanti. Il vantaggio di cui godeva inizialmente, cioè quello di
avere una forza lavoro più sana e più istruita, ha avuto forse più importanza nella prima fase di liberalizzazione e il fatto
che al suo interno non esistessero né un mercato competitivo né la proprietà privata non ha rappresentato uno svantaggio
- anzi, di fatto ha consentito allo Stato di dare una spinta ai settori che preferiva.
Il settore edile probabilmente è il più importante nelle prime fasi del processo di industrializzazione di un Paese.
Impiega lavoratori non qualificati, di conseguenza può assorbire molti di quelli che lasciano l’agricoltura. Inoltre
contribuisce alla crescita di altri settori,mentre spuntano imprese volte a fare uso delle infrastrutture. Per esempio, sembra
quasi magica in India la crescita economica di un villaggio quando viene costruita una buona strada,percorribile in ogni
stagione, che lo collega a una città. La strada permette ai camion di trasportare merci in città in tempi brevi, così i
coltivatori intraprendono nuove attività, come la produzione casearia, l’allevamento di polli e l’orticultura. A mano a
mano che questiabitanti si arricchiscono, nel villaggio aprono negozi che vendono beniconfezionati e vestiti. Poco dopo
un chiosco inizia a vendere tessere prepagate ditelefonia cellulare e non passa molto tempo prima che il villaggio ottenga
la sua prima filiale bancaria. Il settore edile dunque moltiplica i posti di lavoro e agevola lo sviluppo.
La conseguenza più ovvia delle condizioni di partenza dei due Paesi è forse che la Cina è stata in grado di ampliare
enormemente il proprio settore edile, mentre l’India ha avuto meno successo.La Cina è passata in testa perché è riuscita
a finanziare i progettidi costruzione mediante credito a buon mercato, e l’acquisizione dei terreni non è stata problematica
perché appartengono tutti allo Stato. In India invece il credito viene concesso ai tassi di mercato. E, soprattutto, ogni
nuovo progetto richiede di affrontare un lungo e difficile processo di acquisizione del terreno necessario dai suoi
proprietari. Se i diritti di proprietà non sono ben definiti può volerci ancora più tempo. Il ritardo compromette di per sé
gli equilibri economici del progetto. Malgrado la legge permetta di acquisire i terreni con la forza per opere pubbliche
come la costruzione di strade e aeroporti, i politici dell’opposizione, consapevolidell’opportunità che possono cogliere,
sono sempre disposti a organizzare proteste contro tali operazioni. La società civile indiana, che è ben sviluppata e
comprende organizzazioni che lottano ognuna per una causa specifica, si unisce spesso alle iniziative di protesta.
Se lo Stato indiano fosse efficace, questielementi offrirebbero un modo appropriato per tenere sotto controllo il suo
potere; di fatto le leggi sull’acquisizione dei terreni sono un modello per quanto riguarda il tentativo di mantenere
l’equilibrio tra i diritti del proprietario e gli imperativi dello sviluppo.Ma lo Stato è inefficace, dunque l’acquisizione dei
terreni e di conseguenza i progetti di costruzione subiscono eccessiviritardi. Dei progetti infrastrutturali in India si può
dire, nella maggior parte dei casi, che sono troppo limitati e vengono completati troppo tardi. Nella fase preliminare della
crescita la Cina è stata avvantaggiata.
L’India deve sveltire l’acquisizione dei terreni. Potrebbe essere tentata di alleggerire i meccanismi di tutela per i
proprietari terrieri, ma sarebbe un approccio miope. Non farebbe che coinvolgere i politici, i quali si sforzerebbero di
impedire acquisizioni giudicate arbitrarie dal tribunale dell’opinione pubblica. Piuttosto, l’India deve rendere il
proprietario terriero un partnernel processo disviluppo,restituendogliuna parte del terreno sviluppato, come alcuni Stati
indiani stanno già facendo con successo. Inoltre potrebbe usare una parte delle sue limitate facoltà statali per
arrivare a una chiara definizione dei diritti di proprietà dei terreni, agevolandone in tal modo il possesso e la vendita, e al
tempo stesso smettere di svolgere altre attività nelle quali è meno efficiente, come la gestione di una compagnia aerea o
16
di una banca.
Se procederà in questo modo l’India potrà crescere molto e con facilità, in modo da mettersi in pari, attraverso la
costruzione di strade, porti, ferrovie, aeroporti e case. Inoltre, se continuerà a migliorare l’istruzione dei suoi giovani - e
la qualità del loro apprendimento d’ora in avanti deve rappresentare la massima priorità - avrà a disposizione la
manodopera a basso costo e le infrastrutture necessarie per una maggiore presenza nella manifattura, in modo da
incrementare le proprie capacità di erogazione dei servizi. Se verranno operate le riforme giuste l’India potrà ancora
crescere con decisione per molto tempo. E grazie alla sua vivace democrazia, probabilmente si troverà in una posizione
migliore della Cina per crescere, una volta che l’avrà raggiunta lungo la frontiera. Ma prima deve arrivarci.
La minaccia del nazionalismo populista
Se continueranno a crescere, la Cina e l’India si troveranno sotto pressione affinché procedano a ulteriori liberalizzazioni
e diventino più orientate al mercato. Quasi inevitabilmente questo le farà apparire come economie
avanzate di successo,agevolandone la partecipazione e il dialogo a livello globale. Se invece registreranno una crescita
molto più lenta, rischiano di prendere una direzione più preoccupante.
I leader hanno a disposizione un’alternativa diversa dalla trasformazione in società liberale e aperta. Ed è quella di
sfruttare il fervore nazionalpopulista che è latente in ogni società, soprattutto quando i timori sull’economia si
intensificano e aumenta il disincanto nei confronti della tradizionale élite corrotta. Sia la Cina sia l’India hanno un gran
numero di persone che hanno lasciato il loro villaggio di origine e si sono trasferite in città per cercare lavoro. Queste
grandi popolazioni di giovani migranti, al tempo stesso attirate e scioccate dalla vita urbana ma non ancora integrate in
una comunità nuova e solida, costituiscono una materia prima ideale per la visione nazionalpopulista di una comunità
nazionale coesa. Diventano particolarmente malleabili in epoche caratterizzate da un incremento lento dell’occupazione,
perché vedono chiaramente le incredibili opportunità di cui gode l’élite più istruita dell’alta società. Anche le comunità
dei villaggi rurali non sono immuni nei confronti della modernizzazione. Sono anch’esse intrigate, e al tempo stesso
disgustate, dalle immagini che vedono in televisione sullo stile di vita dei ricchi liberali che vivono in città.
In India, il movimento nazionalista indù cerca di attingere al desiderio di queste persone di ancorarsi alle tradizioni.
Inoltre cerca di concentrare la loro attenzione sui motivi di lamentela che le trasformeranno in seguaci devoti. Sfrutta la
sensazione diffusa nella maggioranza della popolazione indù di essersi fatta in quattro per soddisfare le minoranze, in
particolare quella musulmana. Come tutti i movimenti nazionalpopulisti, ritrae un passato glorioso - che in realtà è un
falso mito - in cui l’India induista fu un faro da seguire per il mondo intero, liquidando invece l’intero periodo del dominio
musulmano su ampie zone dell’India come un’aberrazione. Al migrante che proviene da un villaggio e non ha piantato
radici da nessuna parte, il movimento offre l’appartenenza a organizzazioni come la Rashtriya Swayamsevak Sangh
(RSS), gruppo nazionalista paramilitare basato sul volontariato, che sottopone i propri membri in divisa a una serie di
esercitazioni e trasmette loro il senso di appartenenza a una comunità, un’ideologia e la sensazione di avere uno scopo
nella vita.
Il leader realmente motivato della maggioranza indù, attirato nella RSS fin dalla giovane età, in genere è una persona
austera - il che lo rende amato da coloro che sono a sfavore della corruzione - e devota alla causa, ragion per cui ricorre
a metodi spietati. Questi individui rappresentano una grave minaccia per lo sviluppo di un’India innovativa, liberale e
tollerante, soprattutto perché sono più determinati di quelli di altri gruppi e di conseguenza sanno sfruttare efficacemente
i periodi durante i quali sono al potere per infiltrarsi nelle istituzioni del Paese attraverso i loro simpatizzanti.
L’India avrebbe alcune grosse sfide da superare se i mercati globali venissero chiusi. Allo stato attuale, esportare
manufatti sta diventando sempre più diffìcile dato che i Paesi sviluppati procedono all’automatizzazione per competere
con la manodopera a buon mercato disponibile altrove. Alcuni stanno rendendo più complessa la fornitura di servizi
transfrontalieri, un’area in cui l’India ha sviluppato una forte presenza. Un incremento delle barriere nei confronti di beni
e servizi, sotto forma di dazi e non, renderebbe molto più difficile per l’India seguire un percorso di crescita trainato
dall’export.
Scorre una vena protezionistica in alcuni nazionalisti indù, alimentata dalle imprese che li supportano (hanno
effettivamente legami con il mondo degli affari, malgrado la loro apparente austerità), che userà il protezionismo che sta
emergendo altrove come scusa per rendere di nuovo l’India più protezionista. A quel punto il settore privato dipenderà
ancora di più dai favori del governo.Le iniziative prese in altri Paesi dai nazionalpopulisti possono dunque indebolire la
democrazia dell’India e rafforzarne il nazionalismo populista distruttivo.L’India democratica, aperta e tollerante sarebbe
un attore responsabile e importante per il suo contributo alla governance globale nei prossimi decenni. Ma il nazionalismo
populista in tutto il mondo può rendere questo sviluppo meno probabile.
La massima di Deng rivolta alla Cina diceva che per prosperare doveva «nascondere [le proprie] capacità e restare in
attesa». Il Paese sembra convinto che questa massima abbia fatto il suo tempo. Come ha dichiarato il presidente Xi
nell’ottobre 2017, «la nazione cinese prima si è alzata in piedi, poi è diventata ricca e adesso sta diventando forte» 27.Il
grande timore a Washington è che la Cina diventi rapidamente in grado di sfidare gli Stati Uniti, da un punto di vista non
solo economico ma anche militare e politico. È da questo che scaturisce la preoccupazione statunitense peril programma
Made in China 2025, che mira a incrementare la presenza cinese in settori di manifattura avanzata come l’aviazione, la
produzione di chip, la robotica, l’intelligenza artificiale e così via. Mentre gli Stati Uniti godono ancora di un grande
vantaggio tecnologico in alcuni di questi settori, temono che la Cina costringa le loro aziende a separarsi da certe
tecnologie e che rubi quelle di cui ha ancora bisogno. In modo analogo, nuove istituzioni finanziarie multilaterali
finanziate dalla Cina, come l’Asian Infrastructure Investment Bank, fanno temere agli Stati Uniti che
la Cina insidi organismi multilaterali che attualmente sono dominati da loro. H hard power della Cina, evidenziato dal
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Cina russia india

  • 1. 1 I temi più rilevanti per: Aspetti generali 1. Il problema dell’invecchiamento della popolazione sarà risolto solo da: commercio internazionale e immigrazione 2. Prima della fine del 2030 l’economia Cinese sarà più grande degli USA e quella indiana sarà al terzo posto 3. I nazionalpopulisti non saranno disposti a cedere il potere
  • 2. 2 SINTESI Russia L’instabilità nell’Unione Sovietica, dove la Perestrojka di Gorbaciov aveva incoraggiato le forze tendenti alle divisioni senza stimolare la crescita economica, dava un’indicazione su ciò che non bisognava fare. Deng respinse l’idea di una liberalizzazione politica radicale in modo da poter orchestrare riforme economiche graduali. Sarebbe stato il governo a dare vita al mercato in Cina, invece di consentire che emergesse in modo spontaneo e imprevedibile dalle ceneri di un’economia socialista. Forse è stata la scelta giusta per la crescita dell’economia, ma ha rimandato a un futuro parecchio lontano la libertà politica per i cinesi. Spostando l’ago della bilancia, probabilmente ha reso più difficile allontanare il Paese dalla possibilità di un governo autocratico, uno degli obiettivi di Deng. È stata presumibilmente una delle decisioni più importanti nella storia recente del mondo. Cina Il Partito comunista assunseil controllo dopo la seconda guerra mondiale Nella gara economica vincesull’India democratica Sta cercando di lasciarepiù libertà al mercato Nelle campagne rimaseun po’ di proprietà privata cheaumentò la produttività agricola La comunità ruraledivenne il centro della rinascita economica chedi uno spirito democratico Deng nel 1992 portò la liberalizzazionenella Cinameridionaleele comunità dei piccoli villaggi negli anni 90 furono privatedei piccoli poteri La Cina si spostò verso un capitalismo governato dallo stato nellecittà Le aziende statali poterono licenziareil personalein eccesso Soluzione: investimenti diretti esteri che portano anche know how e pochi rischi politici evantaggi: - Aliquota fiscale - Valuta bloccata cheaiuta leesportazioni - Cessionedi terreni con compensi anche ai funzionari locali (iniziala corruzione) Politica del figlio unico,inquinamento,ecc. Ceto medio per milioni di persone Ruolo fondamentale del capo del partito che era più potente dell’amministratoredelegato dell’impresa. Partito comunista:forte per l’economia ma debole per la corruzione(orologi costosi) E’ molto più avanti dei paesi sviluppati in intelligenza artificialeemachine learning. Il partito inserisceuna propria cellula nelleaziendesia pubblichecheprivate Le famigliehanno molti risparmi cheinvestono nei mercati finanziari chesono controllati dallo stato. PUNTEGGIO SOCIALE: condiziona il futuro dei giovani con accesso allascuolaeal lavoro India dopo la seconda guerra mondialedivenne indipendente dall’impero britannico Più possibilità di separarestato e mercati Molte regole burocratichema pochi impiegati statali Democrazia vivacema caotica Stato e mercati sono una cosa sola Crisi nel 2000 Discrezionalità burocraticaepotere del burocrate Corruzione2000-2010 nella cessionedegli sfruttamenti minerari Solo l’ediliziapuò portaresviluppo per impiego di manodopera che esce dall’agricoltura Una buona strada che connette alla città porta progresso Sia Cina che India vedono il pericolo del NAZIONALPOPULISMO
  • 3. 3 PER CHI VUOLE APPROFONDIRE Capitolo 8 L’ALTRA METÀ DEL MONDO Ci siamo occupati finora principalmente di Europa e America. Prima di parlare delle soluzioni dovremmo esaminare i Paesi destinatia crescere in futuro,compresi quelli che oggivengono chiamati «mercati emergenti» - Brasile, Cina, India, Messico,Arabia Saudita, Sudafrica, Turchia, Vietnam e altri - e quelli africani e asiatici in via di sviluppo,come l’Etiopia e il Myanmar. Qualunque policymaker di un Paese sviluppato deve essere consapevole diuna cosa:malgrado oggi possa sembrare che il commercio internazionale e l’immigrazione siano temi controversi, rappresenteranno la soluzione al problema dell’invecchiamento della popolazione, con il quale quasi ogni Paese sviluppato dovrà presto fare i conti. I futuri mercati dei beni dei Paesi sviluppati, la destinazione dei risparmi in eccesso accumulati dai loro cittadini in preparazione alla terza età e la fonte della manodopera di cui avranno bisogno perdare supporto a una società più anziana risiederanno nei mercati emergenti e nei Paesi in via di sviluppo, che saranno ancora giovani e in crescita. È per questo motivo che sarebbe miope per il mondo sviluppato innalzare barriere elevate per separarsi dal resto del pianeta mentre fa fronte ai suoi attuali problemi politici. Inoltre i problemi che necessitano di soluzioni globali, come il cambiamento climatico, che minaccia la nostra qualità di vita, e la volatilità dei flussi globali dei capitali, che danno luogo a crisi periodiche, richiedono una partecipazione globale. Le strutture che abbiamo a disposizione per la governance globale sono datate. I Paesi sviluppati rappresentano una percentuale sempre più bassa dell’economia mondiale, eppure hanno ancora in mano tutte le redini rilevanti all’interno delle istituzioni incaricate della governance globale. Prima della fine del prossimo decennio, a meno di una qualche grave calamità, l’economia cinese sarà più grande di quella degli Stati Uniti, mentre quella indiana - che ha già superato quella francese - sarà al terzo posto nel mondo. In passato, convinti che i grandi Paesi sviluppati fossero i custodi dell’ordine globale basato su norme pattuite creato dagli Stati Uniti dopo la seconda guerra mondiale, gli altri Stati sono statititubanti nell'avanzare la richiesta di una più equa spartizione del potere. Sebbene il sistema fosse configurato in modo che gli Stati Uniti fossero liberi di violare le regole, si comportarono perlopiù come se fossero obbligati a rispettarle. Adesso che hanno dimostrato di poter eleggere amministrazioni che non rispettano le norme, il mondo può accettare un Paese, qualunque esso sia, al di sopra delle regole? Tuttavia, malgrado i nazionalpopulisti non abbiano alcun rispetto per le istituzioni globali, non saranno disposti a cedere il potere.Tale impasse non è positivo.O gli altri Paesi smetteranno di rispettare le istituzioni globali e ne creeranno di proprie, o ci sarà un vuoto nella governance globale finché questiPaesi non diventeranno sufficientemente potenti da assumere direttamente il controllo delle istituzioni globali. In questo caso i mercati emergenti più grandi erediteranno la distribuzione sbilanciata del potere che oggi favorisce i Paesi sviluppati. Questi ultimi si pentiranno della loro riluttanza a operare riforme, se i mercati emergenti imporranno loro la stessa struttura di potere che oggi subiscono. Esiste sempre la possibilità che abbandoniamo quell’ordine internazionale basato su norme, che ha aiutato il mondo a concentrarsi sugli interessi collettivi reciprocamente vantaggiosi invece che su quelli egoistici. Quando ogni Paese vorrà rendersi great again, le macchinazioni economiche a somma zero del mondo pre seconda guerra mondiale torneranno in scena.Per comprendere questiproblemi è opportuno fornire al lettore un punto di vista dal mondo emergente e in via di sviluppo. Ci concentreremo sui due mercati emergenti più grandi, Cina e India, in parte per capire alcune sfide affrontate da questi Paesi - compresa quella di riequilibrare i pilastri al loro interno - e in parte per renderci conto di quanto sia importante per il mondo coinvolgerli come membri responsabili della comunità delle nazioni. La Cina e l’India presentano similitudini? Il Partito comunista assunse il controllo della Cina dopo la seconda guerra mondiale. Più o meno nello stesso periodo l’India divenne un Paese democratico e indipendente dall’Impero britannico. In India ogni governo deve lottare periodicamente perottenere un nuovo mandato,il che significa che i governisono più limitati nella loro capacità di azione, non solo dalla forza delle proteste democratiche e dalle numerose organizzazioni della società civile ma anche da istituzioni come la magistratura e l’opposizione. Figure critiche come Lee Kuan Yew, che ha creato la Singapore moderna, hanno sostenuto che i Paesi poveri non possano permettersi la democrazia. In effetti, nella gara tra Cina e India a chi cresce di più si ha l’impressione che la Cina autoritaria stravinca sull’India democratica. Se ci si basasse semplicemente sui dati, probabilmente non bisognerebbe mai citare l’India accanto alla Cina: l’economia di quest’ultima e il suo reddito pro capite (considerando che i due Paesi hanno all’incirca la stessa popolazione), ai tassi di cambio di mercato, ammontano quasi al quintuplo di quelli indiani. Eppure esistono più somiglianze di quante siamo dispostiad ammettere nei percorsi di crescita dei due Paesi. Sia la Cina sia l’India all’inizio dei rispettivi processi di riforma erano sistemi dominati dallo Stato con un mercato debole. Il governo cinese, sotto il controllo centralizzato del Partito comunista, se la cavava meglio con l’esecuzione, mentre in India i mercati e il settore privato inizialmente avevano un po’ più peso.Le prime liberalizzazioni, sollecitate dalla fine del maoismo in Cina e da una crisi finanziaria in India e influenzate dalla corruzione perché entrambi i sistemi erano ancora affetti da un eccesso di regolamentazioni, generarono una forte crescita. La Cina fu più in grado di sopprimere i
  • 4. 4 mercati, e di reprimere le famiglie, perché non doveva fare i conti con la democrazia. Questo le consentìdi dar luogo a una crescita più rapida, ma la sua crescita fu più sbilanciata - a favore delle grandi società statali e a spese delle famiglie, a favore di risparmi e investimenti e a spese dei consumi, e a favore degli investitori esteri a spese dei cittadini. In quel Paese si sono creati vari disequilibri: un eccesso di capacità in vari settoridell’economia dovuto all’eccesso di investimenti, che ha portato a un indebitamento eccessivo delle grandi società e delle amministrazioni locali nonché a una dipendenza eccessiva dagli investimenti e dall’export ai fini della crescita. Inoltre, la Cina è ormai prossima alla frontiera globale della produttività in diversi settori.Lo Stato avrà difficoltà a continuare a prendere decisioni economiche all’interno di un’economia complessa così moderna, perché sono decisioni che è meglio lasciare al mercato; la Cina sta cercando di lasciare più libertà al mercato di stabilire le allocazioni e di premiare o punire i partecipanti. Dovrà passare a uno Stato più limitato dalla Costituzione, se vuole che il settore privato si senta sufficientemente sicuro per realizzare investimenti. Ma il Partito comunista vuole mantenere il proprio monopolio sul potere politico e ci sono segnali di un indebolimento della democrazia anche al suo interno. La Cina può farcela davvero? L’India, con il suo sistema politico più pluralistico e più aperto, si trova in una posizione migliore affinché la comunità possa instaurare una maggiore separazione fra Stato e mercati. Il suo pilastro più debole è lo Stato1. Per eguagliare efficacemente quello che la Cina ha già fatto, l’India dovrà migliorare significativamente le facoltà dello Stato - un’affermazione che potrebbe sorprendere chi pensa che abbia già una burocrazia eccessiva. A dire il vero ha un’infinità di regole e di norme burocratiche, ma relativamente pochi impiegati statali in rapporto alla popolazione (uno dei motivi per cui ci vuole così tanto a smaltire qualunque richiesta). Gli impiegati pubblici sono troppo spesso poco formati e poco motivati, mentre quelli in gamba vengono sovraccaricati. Gran parte delle cose che uno Stato efficace dovrebbe fare, come fornire infrastrutture e servizi pubblici, verificare il rispetto delle norme o chiudere i casi giudiziari con una sentenza, vengono disattese perché lo Stato cerca di fare troppe altre cose con troppo poche risorse. L’India ha anche un settore privato che dipende ancora dallo Stato e che di conseguenza gli pone dei limiti molto tenui. Sperimenta dunque il paradosso di avere uno Stato inefficace, ma solo moderatamente limitato. La sfida che dovrà superare negli anni a venire non riguarda la sua democrazia - che probabilmente è l’unico sistema che possa tenere unito un Paese con comunità così eterogenee - bensì la necessità di rafforzare sia le facoltà dello Stato sia l’indipendenza del settore privato. Riuscirà l’India a compiere il passaggio a una democrazia liberale di mercato? Cerchiamo una risposta a questa domanda e a quella sulla Cina. Cina: liberalizzazione di mercato sotto il controllo di un partito politico Il presidente cinese Mao Tze Tung negli ultimi vent’annidella sua vita divenne sempre più incostante.Il suo grande balzo in avanti (nel quale milioni di cinesi morirono di fame, nei primi anni Sessanta del secolo scorso,mentre Mao cercava di far passare le zone rurali dalla produzione di generi alimentari all’industria) e la sua rivoluzione culturale proletaria (nella quale molti intellettuali furono perseguitati, umiliati, incarcerati e uccisi allo scopo di purificare il movimento comunista e liberarlo da ogni tendenza capitalistica) lasciarono traumatizzato il Paese. Il leader successivo, Deng Xiaoping, era determinato a fare in modo che il Paese non fosse mai più dominato da una sola persona. Deng, che era stato vittima di due purghe del Partito comunista e il cui figlio era stato reso zoppo dalle Guardie rosse durante la rivoluzione culturale, diede un graduale impulso al cambiamento a partire dal 1978. La strada che non fu seguita Le prime riforme furono spesso implicite; per esempio, le autorità chiusero un occhio nei confronti delle attività commerciali private, malgrado fossero tecnicamente illegali in base al regime comunista. La crescita prese avvio nelle zone rurali, lontane dalla portata della burocrazia centrale, perché era proprio lì che il partito non aveva eliminato del tutto la nozione della proprietà privata. In base al Sistema di Responsabilità Familiare, le famiglie rurali ottenevano l’usufrutto di terreni e macchinari dai collettivi di agricoltori e tenevano persé l’eventuale surplus generato oltre la quota richiesta. Fu un passo importante verso una maggiore produttività agricola. Nacquero anche delle imprese private, sotto le mentite spoglie di collettivi detti Imprese Cittadine e di Borgata2. Gli ideologi marxisti avevano determinato che tali entità si sarebbero macchiate di sfruttamento qualora avessero superato i sette membri, ma la norma era applicata raramente. Queste imprese producevano beni di vario tipo, dalle radio ai frigoriferi, e permisero a molti coltivatori di arricchirsi. Le riforme interessarono perfino le imprese statali, dato che quelle con le performance migliori furono autorizzate a tenersi i profitti e a pagare di più i dipendenti. La crescita andò a gonfie vele e fu accompagnata da una certa liberalizzazione politica, a mano a mano che la corrente liberale del Partito comunista acquisiva credibilità. Fu concesso agli abitanti dei villaggi di eleggere i propri rappresentanti. Grazie alla crescente prosperità, le relative amministrazioni ottennero i fondi per svolgere attività importanti3. La comunità rurale divenne il centro sia della rinascita economica sia di uno spirito democratico sempre più marcato. La stampa godette diuna maggiore accessibilità, tanto che nel1987 perfino alcuni giornalisti stranieri furono invitati a socializzare con i membri del Politburo alla fine del congresso del partito4. Riformatori come Zhao Ziyang, segretario generale del partito e protetto di Deng, sottolinearono la necessità di distanziare il partito dal governo - un primo passo indispensabile verso un sistema multipartitico. Tuttavia si stavano addensando delle nuvole all’orizzonte. In un’economia socialista molti prezzi sono fissi e beni essenziali come il grano sono ripartiti attraverso il sistema pubblico di distribuzione. Mentre cercavano di imbrigliare le forze di mercato, le autorità cinesi permisero ai prezzi di alcuni beni di fluttuare. Gli speculatori dirottarono i beni sul mercato aperto, dove i prezzi erano ai livelli più alti. Si vennero così a creare situazioni di scarsa disponibilità nel sistema pubblico di distribuzione, in cui i prezzi erano fissi e a livelli accessibili, soprattutto a mano a mano che i cittadini, in
  • 5. 5 previsione di un aumento dei prezzi, acquistavano grosse scorte di prodotti. L’inflazione salì considerevolmente. I lavoratori impiegati in stabilimenti dalle performance limitate o nei settorisalariati dell’economia cominciarono a trovarsi con l’acqua alla gola, oltre a temere di rimanere disoccupati a causa di ulteriori riforme. Prova- vano poi risentimento per il fatto che l’élite del partito potesse accedere ai beni scarsamente disponibili. Il crescente corpus di evidenze sulla corruzione nel partito, dato che le autorità locali accettavano tangentiper ignorare le violazioni delle normative da parte di nuove imprese, accentuò la loro rabbia. Le riforme suscitavano aspettative, ma il mercato prende mentre dà. Invece di ottenere i buoni impieghi a cui gli studentidi università d’élite come quella di Pechino credevano di essere destinati, molti si trovarono senza lavoro mentre le aziende di proprietà statale, affette da un eccesso dipersonale e ormai consapevolmente orientate al profitto, riducevano le nuove assunzioni. Inoltre gli studenti erano consapevoli delle crescenti proteste contro i governi socialisti nell’Europa orientale, così come delle crepe che si stavano aprendo nell’impero sovietico. In modo piuttosto ottimistico, erano convinti che i riformatori della Cina, che sembravano così aperti al cambiamento economico, potessero sostenere anche una liberalizzazione politica più ampia. La morte di Hu Yaobang, riformatore di primo piano che era stato costretto a dimettersi per le sue posizioni troppo liberali, fu la miccia che fece esplodere le proteste in piazza Tienanmen a Pechino nella primavera del 1989, in cui agli studentisi unirono i lavoratori scontenti. Per un certo periodo sembrò che i manifestanti potessero costringere il partito a cedere. Gli studentidell’Accademia di Belle Arti eressero la statua della «dea della democrazia» nella piazza, di fronte alla gigantografia di Mao Tze Tung. Ma quando Deng fu costretto a scegliere fra la liberalizzazione politica e il mantenimento del controllo sul Partito comunista, l’uomo che aveva subito due purghe scelse il partito. Fu chiamato l’esercito, che nella sanguinosa giornata del 4 giugno 1989 fece sgombrare la piazza. Molti studenti,lavoratori e sostenitoridella protesta morirono dentro e intorno a piazza Tienanmen. I liberali nel partito, come il segretario generale Zhao Ziyang, furono epurati e i fautori della linea dura ottennero più influenza. Non si parlò più di distanziare il partito dal governo. Sarebbe stato il partito a governare. Deng fu costretto a compiere scelte terribilmente difficili, anche se le decisioni che prese seguirono una logica stabilita a sangue freddo. La Cina aveva sofferto enormemente per il caos interno in passato,quando il centro del sistema era debole. L’instabilità nell’Unione Sovietica, dove la Perestrojka di Gorbaciov aveva incoraggiato le forze tendentialle divisioni senza stimolare la crescita economica, dava un’indicazione su ciò che non bisognava fare. Deng respinse l’idea di una liberalizzazione politica radicale in modo da poter orchestrare riforme economiche graduali. Sarebbe stato il governo a dare vita al mercato in Cina, invece di consentire che emergesse in modo spontaneo e imprevedibile dalle ceneri di un’economia socialista. Forse è stata la scelta giusta per la crescita dell’economia, ma ha rimandato a un futuro parecchio lontano la libertà politica per i cinesi. Spostando l’ago della bilancia, probabilmente ha reso più difficile allontanare il Paese dalla possibilità di un governo autocratico, uno degli obiettivi di Deng. È stata presumibilmente una delle decisioni più importanti nella storia recente del mondo. Per un certo periodo l’idea di procedere a ulteriori riforme economiche fu riposta nel cassetto. Tuttavia nel 1992 Deng effettuò un ampio giro della Cina meridionale, sfruttando quelviaggio per riaffermare la necessità di procedere con la liberalizzazione. Pare che abbia dichiarato «Arricchirsi è una cosa magnifica» e abbia affermato che gli elementi conservatori della società cinese fossero più pericolosi di quelli orientati alla liberalizzazione. Le riforme ripresero vita, ma ebbero un carattere profondamente diverso, come sostiene l’economista del MIT Yasheng Huang. Nel decennio successivo, sotto la leadership del presidente Jiang Zemin, che era stato a capo del Partito comunista a Shanghai, l’epicentro dell’attività economica e l’attenzione del governo si spostarono su grandi città e cittadine situate nelle zone costiere, sulle imprese di proprietà statale e sull’obiettivo di stimolare gli investimenti esteri diretti5. Nello stesso tempo le comunità dei piccoli villaggi, che negli anni Ottanta avevano sperimentato una breve ondata di liberalizzazione politica e di democrazia, negli anni Novanta si videro private dei propri poteri, compreso q uello di definire il proprio budget, da parte dei capi del partito che operavano nelle municipalità6. Capi del partito che erano nominati, non eletti; si trattò dunque di una centralizzazione del potere, il quale fu sottratto alle comunità dei villaggi, troppo numerose e diffìcili da controllare. Dal capitalismo imprenditoriale a quello statale Dalla comparsa incontrollata e quasi spontanea di attività imprenditoriali nelle zone più povere, rurali e interne, la Cina si spostò dunque verso un capitalismo più governato dallo Stato nelle città e cittadine e nelle zone costiere, che erano più ricche. Le imprese statali, soprattutto quelle più grandi, erano ovviamente più facili da controllare per il partito, ma avevano troppi dipendenti ed erano inefficienti. Negli anni Novanta la Cina compì tre passiimportanti per migliorarne il funzionamento. In primo luogo adottò la politica dell’«aggrapparsi alle grandi e lasciare andare le piccole». Questo implicò la vendita o la chiusura in tutto il Paese delle aziende di proprietà statale più piccole, molte delle quali avevano un bilancio in rosso. Alcune possedevano asset divalore, per esempio immobili. Furono i capi delle sezioni cittadine o provinciali del partito ad accaparrarsi i profitti generati dalla relativa vendita a persone di loro fiducia a prezzi stracciati7. Mentre il parco di aziende posseduto dallo Stato veniva sfrondato il governo potè concentrare l’attenzione sulle imprese grandi e notevolmente più importanti. Nel 1990 il Consiglio di Stato introdusse la politica della «doppia garanzia», che assicurava alle grandi aziende statali l’accesso al credito a buon mercato e input, come le materie prime, venduti sottocosto. Ottennero anche energia elettrica e terreni a buon mercato. Alcune delle inefficienze che caratterizzavano quelle aziende, affette dall’eccesso di personale, furono compensate a mano a mano che investirono in impianti più
  • 6. 6 moderni, mentre altre furono camuffate dai costi inferiori degli input. A molte fu anche permesso di quotarsi su mercati azionari domestici o esteri, il che consentì loro di accedere a capitali azionari e far entrare nelle loro squadre grandi investitori che ebbero modo di esercitare una certa supervisione sulle società e migliorarne l’efficienza produttiva. In secondo luogo,il governo autorizzò le imprese di proprietà statale a licenziare il personale in eccesso.I lavoratori in Cina credevano che avrebbero sempre avuto la loro «ciotola di riso di ferro», cioè la promessa di un lavoro fisso a vita con una pensione garantita e altri benefit come un alloggio. Il Partito comunista abbandonò tale promessa implicita. La disoccupazione generata da queste aziende, che licenziarono quasi 50 milioni di dipendenti nel decennio successivo alviaggio diDeng nel Sud delPaese, fu uno shocktremendo, traumatico come quello che imporrebbe un sistema capitalistico qualsiasi. Reso più brutale dal fatto di essere inatteso. In terzo luogo,le aziende di questo tipo furono consolidate ove possibile dando vita a holding, in modo che potessero razionalizzare le attività e incrementare il proprio potere contrattuale.Il gruppo Baosteel per esempio assunse ilcontrollo di sei grandi aziende di produzione siderurgica - tre possedute interamente dal gruppo e tre quotate in Borsa8. L’effetto di tutto questo fu un incremento sia dell’output per lavoratore sia della redditività delle imprese di proprietà statale. Gran parte di tale incremento scaturì spesso da un investimento eccessivo di capitali a buon mercato, che furono usati in modo molto poco produttivo9. I lavoratori in eccesso licenziati e i migranti provenienti da zone rurali, che avevano perso il lavoro in un settore agricolo sempre più meccanizzato, dovevano essere impiegati altrove, perché il partito non poteva ignorarne i disagi a tempo indefinito. Ciò riflette un paradosso in Cina, e più in generale nei regimi autoritari. Poiché non ottengono legittimità dal voto popolare, la cercano compiendo scelte politiche dalle quali si evinca che pensano al bene comune, per evitare che i costi associati al mantenimento del regime contro la volontà del popolo subiscano un incremento esponenziale. I leader democratici possono ammettere di aver commesso degli errori dicendo «Ci siamo sbagliati» e voltare pagina. In molti casi possono dare la colpa all’amministrazione precedente. I regimi autoritari invece, perlomeno se vogliono continuare a godere del consenso delle persone che governano, non possono farlo, perché è sull’adeguatezza delle loro politiche che si fonda la legittimità di cui godono. Non possono nemmeno permettersi il lusso di incolpare il regime precedente; anche se le decisioni sono state prese da altri leader, quelli che si trovano al potere devono difenderli, altrimenti darebbero a intendere che il regime sia fallibile e che il popolo debba avere la possibilità di scegliere di farne a meno. Torneremo fra poco su questo paradosso dell’autoritarismo in cerca di legittimità. Una soluzione era quella degli investimenti diretti esteri, particolarmente desiderabili per le autorità cinesi perché apportavano know-how ma pochissimi rischi politici, dato che qualsiasi impresa estera che avesse osato interferire nella sfera politica avrebbe potuto essere espulsa sommariamente. La manodopera opportunamente formata e a buon mercato era un fattore importante per attrarre aziende estere intenzionate a produrre in Cina ed esportare da essa sui mercati di tutto il mondo. Un altro fattore era la possibilità di aprire strutture nelle zone costiere, che offrivano un facile accesso ai porti. Ma non era facile per gli stranieri con pochi contatti locali rispettare la miriade di norme imposte alle imprese da un’economia socialista in via di riforma - anche oggi, come sottolinea l’economista Chang-Tai Hsieh, la Cina occupa solo la settantaduesima posizione nella classifica mondiale dei Paesi in termini di «facilità di fare affari», stilata dalla Banca Mondiale. È a quel punto che entrava in gioco il sindaco della città o il capo regionale del partito. Un uomo d’affari indiano mi ha detto di aver espresso interesse a investire in una città cinese di medie dimensioni nei primi anni Duemila. Quando si era recato sulposto era stato accolto all’aeroporto dal vicesindaco, una domenica, accompagnato a visitare una possibile località quello stesso giorno e poi portato nell’ufficio del sindaco, dove erano già state preparate tutte le autorizzazioni necessarie. Ogni difficoltà poteva essere superata; bastava che firmasse nei punti indicati e portasse i suoi soldi per dare avvio al progetto. Il partito facilitava le cose agli uomini d’affari che prediligeva. Erano due fattori importanti a motivare gli investitori esteri. Uno era l’aliquota fiscale, inferiore rispetto a quella delle imprese domestiche. Il secondo era che a partire dagli anni Novanta la Cina si era sforzata di impedire che la sua valuta si apprezzasse rispetto alle altre, malgrado nello stesso periodo le sue esportazioni e il surplus della bilancia commerciale fossero aumentati. Il tasso di cambio artificialmente ridotto era di fatto una sovvenzione nei confronti delle aziende esportatrici, perché gli introiti in dollari erano più elevati dopo essere stati cambiati in renmimbi. Molte aziende estere iniziarono a produrre in Cina per avvantaggiarsi della sua abbondante manodopera istruita, delle infrastrutture in via di miglioramento, della disponibilità dei fornitori a fare promesse impossibili e a mantenerle e, in misura inferiore, di quel tasso di cambio artificialmente ridotto. Ciò che funzionò per gli investimenti diretti esteri funzionò anche per quelli privati locali, in particolare nel settore edilizio e in quello immobiliare, che impiegavano molti lavoratori non qualificati e avevano il vantaggio collaterale di creare infrastrutture. L’input fondamentale in quell’area era rappresentato dal credito a buon mercato, dai terreni e dalle autorizzazioni, tutte cose che il sindaco poteva mettere a disposizione. I terreni, in particolare quelli agricoli, p otevano essere semplicemente espropriati dietro pagamento di un modesto compenso, dopotutto tecnicamente appartenevano allo Stato. Potevano poi essere ceduti alla società di sviluppo immobiliare di turno, a volte con un significativo ricarico che rimpinguava le casse dell’amministrazione municipale. Tali interventi divennero sempre più necessari a mano a mano che il governo centrale, nei primi anni Novanta, iniziò a tenere per sé la maggior parte del gettito fiscale, costringendo le amministrazioni municipali e provinciali ad assumere un approccio imprenditoriale nella raccolta di fondi. Invariabilmente una parte degli introiti generati da tali interventi giuridicamente equivoci finiva per incrementare i guadagni personali dei funzionari del partito, come retribuzione per la loro «imprenditorialità»10. La corruzione non fu l’unico fattore motivante.
  • 7. 7 Molti capi del partito si mostrarono fortemente interessatia quel tipo di investimenti, perché la crescita economica nella rispettiva regione avrebbe influito significativamente sulle loro opportunità di fare carriera nella gerarchia del partito. Altri lo fecero perché l’amministrazione locale otteneva una partecipazione azionaria nella nuova entità e di conseguenza era direttamente interessata alla sua crescita. In ogni caso, le norme e regole onerose, così come i diritti di proprietà relativamente fumosi, rappresentavano un ostacolo importante per qualunque persona comune intenzionata ad avviare un’attività, mentre non erano un problema per chi aveva legami con il partito. Quest’ultimo promosse dunque l’imprenditoria privata, continuando al tempo stesso a decidere chi autorizzare a fondare o espandere un’impresa. Quando i comuni cittadini che non erano dispostia lasciarsi reprimere ignoravano tali regole implicite e si muovevano da soli, lo facevano a loro rischio e pericolo. Il Xiushui Market di Pechino per esempio era un fiorente mercato all’aria aperta, specializzato in prodottidi marca contraffatti (particolarmente popolari fra i turisti stranieri)11. L’amministrazione distrettuale lo chiuse, con la giustificazione che comportasse rischi di incendio e vendesse prodotti falsi, e procedette a sfrattare i negozianti e a demolire la struttura.A quel punto un imprenditore privato ottenne il diritto di costruire e gestire il nuovo Xiushui Market e cedette gli spazi più piccoli disponibili al suo interno mediante un’asta, durante la quale il massimo offerto fu di 480.000 dollari per un banco. I venditori che avevano contribuito al nome e alla reputazione del mercato precedente (al di là del fatto che fosse basato sulla vendita di prodotti falsi) subirono l’espropriazione del loro stesso brand e solo un terzo di loro potè permettersi un banco nel nuovo mercato. Anche molti banchidel nuovo mercato – per un caso di giustizia poetica, direbbero alcuni, ma non sorprendentemente - si misero a vendere prodotti contraffatti! La famiglia repressa Gli input sovvenzionati concessi alle grandi imprese dovevano pur essere pagati da qualcuno: e questo qualcuno era il comune capofamiglia. A fronte della sua produttività, non solo riceveva un salario inferiore a quello che avrebbe avuto in un’economia più evoluta (come in molti Paesi in via di sviluppo, i salari restavano modestia causa dell’enorme surplus di manodopera nel settore agricolo), ma le tasse che versava andavano a finanziare gli altri sussidiconcessialle imprese; inoltre era costretto a pagare gli elevati prezzi imposti dai monopolisti locali e riceveva pochi interessi sui suoi depositi (il governo fissava un limite modesto per permettere alle banche di concedere prestiti a buon mercato alle grandi imprese e alle società di sviluppo immobiliare realizzando un profitto). Malgrado il rendimento irrisorio dei risparmi, il governo aveva smesso dipromettere un impiego sicuro e una pensione garantita. I sindacaticinesi non lottavano seriamente per i salari o i diritti dei lavoratori, tranne quando il governo intimava loro di farlo; essenzialmente esistevano per controllare e incanalare l’insoddisfazione dei lavoratori. Inoltre, nel 1979 la politica cinese del figlio unico introdusse per ogni coppia l’obbligo di fatto di avere un solo figlio. Il risultato fu che sei adulti - quattro nonni e due genitori - sarebbero dipesi da quell’unico figlio per soddisfare i loro bisogni durante la terza età, se non avessero messo da parte dei risparmi. La famiglia si trovava di fronte ad altre sfide. La sua proprietà più importante, cioè la casa e il terreno sul quale era situata, non era al sicuro, come abbiamo già visto. Inoltre la crescita industriale, unita a un contesto nel quale si tendeva a chiudere un occhio nei confronti delle violazioni delle norme, inquinava l’aria che le persone respiravano, l’acqua che bevevano e il cibo che mangiavano. La Cina stava diventando l’officina del mondo, ma la sua popolazione ne stava pagando il prezzo attraverso il deterioramento della sua qualità di vita, a mano a mano che nel Paese aprivano gli stabilimenti sporchie le centrali elettriche che venivano chiusi altrove. La Cina seguì dunque un percorso di crescita diverso da tutti gli altri Paesi. Le famiglie comuni furono costrette a portare un peso che non avrebbero mai dovuto reggere in un ambiente più democratico. Va detto che esistevano alcuni importanti fattori di compensazione. Poiché il sistema generò rapidamente infrastrutture molto moderne e investimenti, l’economia crebbe a grande velocità. Furono creati molti nuovipostidi lavoro e la produttività di quelli esistentiaumentò rapidamente. Il salario medio dunque salì in breve tempo, pur essendo inferiore al valore aggiuntivo creato da ogni lavoratore. La Cina si stava arricchendo con rapidità, pertanto era facile che le distorsioni fossero ignorate. Ciò malgrado, un’elevata percentuale del reddito generato nel Paese veniva messa da parte invece di tradursi in consumi finali da parte delle famiglie - in parte perché rimaneva bloccato sotto forma di profitti societaridi grandi imprese di proprietà statale i quali non venivano distribuiti ma reinvestiti e in parte perché le famiglie risparmiavano di più per il timore che le prestazioni sociali fossero eliminate e per la mancata sicurezza delle loro proprietà. Il rapporto tra consumi privati e PIL scese dal 50 per cento circa del 1990 al 47 per cento circa nel 2000. Nel decennio successivo, in cui la Cina crebbe a grande velocità, i consumi sono calati ulteriormente, fino a rappresentare nel 2010 un modesto 35,5 per cento del reddito. La famiglia cinese ha pagato il prezzo degli impieghi generati dalla crescita, ma la crescita è stata spettacolare. Dall’inizio delle riforme centinaia di milioni di cinesi sono stati salvati dalla povertà e hanno iniziato a condurre la vita relativamente agiata che caratterizza il ceto medio. Il controllo del partito e la concorrenza clientelare Il partito dunque ha agevolato la crescita, non permettendo a tutti di accedervi ma sfruttando le proprie facoltà di mediazione per spianare la strada a certe imprese. Nello stesso tempo ha intensificato il proprio controllo politico. Un libro bianco del partito scritto nel 2005 riportava la seguente definizione di governo democratico: «il Partito comunista cinese che governa perconto del popolo»12.Ciò non significava solo il dominio di un unico partito, ma anche l’estensione più diretta dei suoi tentacoli nelle attività delle imprese. Ogni grande azienda di proprietà statale era associata a un nucleo del partito, e il capo politico era spesso una figura più potente dell’amministratore delegato dell’impresa13. Era il partito a stabilire la sua strategia complessiva e a fissare
  • 8. 8 gli appuntamenti delle figure senior. Ciò gli garantiva uno stretto controllo sulle imprese, oltre che sui loro enormi fondi. Ovviamente permetteva anche ai membri del partito di farsi favori a vicenda, compresa la concessione di postidi lavoro privilegiati gli uni ai figli degli altri. L’appartenenza al partito rappresentava sempre più la strada da seguire per avere successo in Cina. Le aziende del settore privato capirono presto l’antifona e crearono autonomamente dei nuclei. All’interno di Haier, impresa di fama internazionale che produce articoli elettronici di consumo ed elettrodomestici, il CEO fungeva anche da segretario del comitato aziendale del Partito comunista14. Il partito diceva chiaramente di voler ricevere informazioni e di poter intervenire in qualsiasi organizzazione che potesse rappresentare una minaccia per il suo monopolio politico. Il settore privato si piegava alle richieste15. Un controllo politico cosìforte sul mondo delle imprese, in assenza di una comunità pubblica che si faccia sentire e sia in grado di far rispettare la separazione fra Stato e attività economiche, solleva preoccupazioni sull’inefficienza del capitalismo clientelare e sulpossibile autoritarismo, di cui abbiamo già parlato nei capitoli precedenti. La Cina si è distinta nella sua capacità di evitare questi mali? In un certo senso sì... finora... Come sosteneva l’esperto di scienze politiche Daniel Bell, il Partito comunista cinese sotto molti aspetti è una meritocrazia, che addestra i suoimembri e li mette alla prova nella pratica della governance16.Ciascuno deinove membri del Comitato permanente del Politburo, l’organo al vertice del partito, ha scalato la gerarchia dopo aver dimostrato le proprie capacità in qualche amministrazione municipale o regionale. Poiché una parte importante della valutazione del loro rendimento dipendeva da quanto avessero fatto crescere l’economia locale, i capi delle sezioni locali del partito facevano ogni sforzo per attrarre potenziali investitori nella rispettiva zona, agevolando la creazione e la crescita di imprese locali e proteggendole dalle autorità esterne, compresa quella centrale. Chang-Tai Hsieh fa notare che molte grandi città cinesi hanno taxi di una sola marca - quella prodotta dalla joint venture fra una casa automobilistica e l’amministrazione municipale. Obbligando i taxisti della zona a comprare vetture della marca in questione, le autorità locali supportano il loro partner di zona. Esiste dunque una rete clientelare in ognilocalità. Inoltre le sovvenzioniconcesse alle aziende in una località possono mantenerle in vita anche se distruggono valore. Il partito ha un certo numero di aziende predilette a livello nazionale, comprese alcune grandissime imprese statali che monopolizzano il mercato del Paese. È dunque diffìcile definire la Cina un mercato pienamente competitivo. Ma la feroce concorrenza tra le imprese è una costante fra i partner delle amministrazioni della miriade di località esistenti. «Clientelismo competitivo» è probabilmente un termine più appropriato per il sistema cinese. Finora ha funzionato. Ma la Cina ha il sistema giusto per conseguire una crescita continuativa? Per rispondere dobbiamo capire com’è cambiato il modello di crescita cinese dopo la crisi finanziaria. La necessità di un cambiamento Quello che la Cina è riuscita a ottenere negli ultimi decenni è davvero senza precedenti nella storia dell’umanità. Non è mai successo che cosìtante persone siano state affrancate dalla povertà in così poco tempo. Inoltre la Cina ha alcune delle aziende con le maggiori capacità tecnologiche al mondo, le università più competitive, i trasporti e le reti logistiche più veloci, le città più vitali. Lo sviluppo è stato quasimiracoloso in questo Paese,con una crescita dell’8,7 per cento all’anno tra il 1980 e il 2015. Ma la Cina non può più crescere come ha fatto finora. Il modello seguito negli anni Novanta e nei primi anni Duemila, basato su una riduzione dei prezzi degli input per le grandi aziende - i costi della quale sono statisostenutidalle famiglie - ha dei limiti. Tanto per cominciare si basa sul fatto che l’incremento delle esportazioni e degli investimenti generi una percentuale significativa della domanda relativa ai beni prodotti in Cina perché i consumi, volutamente, vengono mantenuti piuttosto bassi. La crisi finanziaria globale ha gravemente limitato la spesa da parte deiPaesisviluppati, particolarmente per i prodotti di importazione, molti dei quali provenienti dalla Cina. Inoltre a mano a mano che i partiti populisti si sono rafforzati in tutto il mondo sviluppato è anche diventato chiaro che alcuni governi adotteranno un approccio protezionistico. Mentre scrivo queste pagine Stati Uniti e Cina sono impegnati in una guerra dei dazi. Infine, le aziende estere che hanno investito in Cina con l’intenzione di esportare nel mondo intero considerano oggi molto invitante il suo crescente mercato domestico. In passato difendevano l’ingresso delle esportazionicinesi (che spesso provenivano dalle loro stesse strutture in Cina) nel loro Paese. Oggi invece appoggiano le minacce protezionistiche dei propri governi, sperando che questo costringa Pechino a ridurre i dazi e altre barriere e ad aprire il mercato alle loro merci. Dal punto di vista della Cina, dato l’ambiente politico nei Paesi sviluppati, sarebbe rischioso fare più affidamento sull’export. Ciò significa che la Cina deve generare una maggiore domanda interna relativa ai beni che produce. L’espansione degli investimenti domestici supportata dal credito è stata una delle strade seguite dal Paese per stimolare la domanda, ma sta dando risultati sempre più esigui. Si è accumulato debito all’interno del sistema, con un balzo enorme dopo la crisi finanziaria. Inoltre sta diventando più difficile giustificare investimenti continui su infrastrutture e immobili residenziali. La premessa alla base degli investimenti in infrastrutture era «costruitele e loro verranno», nel senso che una volta costruite le infrastrutture il loro utilizzo si sarebbe intensificato in tempi rapidi. Nei primi anni questa ipotesisiè dimostrata vera, data l’enorme domanda latente. C’era poca necessità di verificare se la Cina avesse davvero bisogno dell’investimento di turno: in linea di massima lo aveva. Oggi quasi ogni città di medie dimensioni ha un elegante aeroporto e una metropolitana nuova di zecca. Il mancato svolgimento di test di mercato per stabilire se gli investimenti sono giustificati e le enormi sovvenzioni concesse a fronte di ogni investimento stanno portando a un eccesso. I costi di manutenzione delle nuove infrastrutture, dato lo scarso utilizzo a livello locale, erodono i budget delle amministrazioni di zona. Queste negli ultimi anni sono state autorizzate a prendere soldi a prestito sui mercati, ma le loro finanze oggi appaiono precarie, considerando gli enormi livelli di indebitamento e le
  • 9. 9 perdite sempre più ingenti sugli investimenti pubblici. Preoccupazioni analoghe riguardano gli investimenti da parte delle imprese statali, che possono espandersigrazie ai sussidi mentre in realtà dovrebbero essere chiuse. Ciò lascia come alternativa lo stimolo dei consumi. L’eliminazione delle distorsioni che generavano una crescita facile, come i tassi d’interesse indebitamente bassi sui depositi bancari, fornirà alle famiglie più reddito grazie a cui consumare. Inoltre queste stanno maturando più resistenze a sostenere i costi della crescita. Anche nel primo decennio di questo secolo, l’acquisizione ingiusta e indiscriminata di terreni ha innescato migliaia di proteste in tutto il Paese. La Cina ha anche un problema di disuguaglianza. Molte famiglie nelle comunità rurali non hanno tratto benefici dallo sviluppo, perché l’incremento dell’occupazione è stato distribuito in modo disomogeneo; a ottenere gli impieghi migliori e più numerosi sono state le città, particormente nelle zone costiere. La Cina deve far fronte alla crescente disuguaglianza dei redditi creando posti di lavoro di qualità nelle zone rurali e nelle province dell’entroterra, un problema con cui, come abbiamo visto, sono alle prese anche i Paesi sviluppati. Infine, a seguito della politica del figlio unico e del fatto che la Cina consenta un bassissimo livello di immigrazione, ci troviamo di fronte a un mercato emergente che invecchia rapidamente. Via via che rallenta l’incremento della forza lavoro i salari aumentano rapidamente, costringendo alcuni settori a optare per Paesi più economici. Malgrado la politica del figlio unico negli ultimi anni sia stata attenuata, i cinesi sono sempre più restii ad avere più figli. Il Paese dunque rischia di invecchiare prima di essersiarricchito - ragion per cui deve fare piani in vista di una società futura in cui le risorse che avrà a disposizione per supportare gli anziani saranno molto inferiori a quelle di cui dispongono le popolazioni occidentali. In poche parole, la Cina, avendo raggiunto un livello medio di reddito ed essendosi messa in pari con le economie avanzate in vari settori, deve muoversi verso un’economia più normale, reprimendo in misura inferiore i consumi e sovvenzionando meno gli investimenti. Deve tutelare meglio i diritti di proprietà delle famiglie. Deve dipendere meno dal fatto che il resto del mondo consumi i beni in eccesso che produce, consumandone di più internamente. Deve allontanarsi dalla manifattura «sporca» passandoa quella high-tech, più pulita, e ai servizi. Infine, dato l’enorme aumento della complessità della sua economia, deve lasciare che le forze di mercato svolgano un ruolo di maggior rilievo, mentre il governo dovrebbe smettere di dirigere l’economia passo dopo passo. In effetti tutti questi obiettivi rientrano nel «reset politico» che la Cina intende effettuare. Questa operazione richiede però un enorme cambiamento nel modo di fare affari. Le aziende dovranno diventare efficienti con le proprie forze e conquistare quote di mercato, senza ricevere input sovvenzionati o protezione a livello locale dal governo.Saranno i mercati finanziari e la concorrenza, non il partito, a determinare chi otterrà le risorse. Una Cina futura come questa sembra molto diversa da quella del passato. Il Paese è in grado di far fronte a questo cambiamento? Il suo più grande punto debole potrebbe essere quello che finora ha rappresentato il suo principale punto di forza, ovvero il Partito comunista e il suo desiderio di continuare a esercitare il controllo. Le implicazioni del cambiamento Il Partito comunista ha ottenuto legittimità grazie alla sua superba gestione dell’economia, oltre che alla capacità di generare crescita e creare postidilavoro. Ha perso legittimità perl’evidente corruzione di alcuni dei suoi membri, a livello sia locale sia centrale. La massima priorità del presidente Xi Jinping, quando il suo team ha iniziato a operare nel 2013, era quella di generare una crescita maggiormente basata suiconsumi delle famiglie. Inoltre il presidente voleva migliorare l’immagine del partito riducendo la corruzione. Vediamo che cosa implica tutto questo. l La lotta contro la corruzione gode di popolarità, e l’opinione pubblica ha aderito. I social media cinesi per esempio hanno messo al bando un certo numero di funzionari fotografati con indosso orologi che costano vari multipli del loro salario annuale (loro, naturalmente, sisono difesi dicendo che erano falsi di poco prezzo). Ma la campagna anticorruzion e mina un elemento fondamentale del successo ottenutoin precedenza in termini di crescita. Seminando paura e annullando gli accordi di favore concessi localmente, impedisce ai funzionari di aiutare le imprese a orientarsi efficacemente nel ginepraio normativo. La soluzione è ovvia: norme più permissive, più chiare e trasparenti consentirebbero un ingresso più agevole alle imprese, non più costrette a farsi «aprire la porta» da qualche potente funzionario di partito della zona. Grazie all’ingresso di aziende nuove e innovative, oltre che all’adozione di nuove tecnologie e pratiche manageriali efficienti da parte di quelle consolidate,la Cina sarebbe in grado di crescere senza pesare sulle famiglie. Alcune aziende come Baidu, Alibaba e Tencent stanno espandendo le frontiere di ciò che è possibile fare con le piattaforme online e i sistemi di pagamento, rivolgendosi ai giovani cinesi, che sono molto più dispostidei genitori a consumare e a indebitarsi. La Cina, dato il suo enorme accesso ai dati, probabilmente è molto più avanti dei Paesi sviluppati in alcuni ambiti dell’intelligenza artificiale e del machine learning. Il grosso dell’occupazione non si trova però nei settori high-tech, ma nella manifattura tradizionale di vecchia data come la produzione di automobili e la siderurgia. È in queste aree che la Cina ha bisogno di nuove tecnologie, come le vetture elettriche e guida autonoma e l’alimentazione a batterie. Potrebbe acquisirle obbligando le aziende estere a istituire joint venture, se vogliono vendere al suo interno - e l’enorme portata dell’economia nazionale cinese la rende un’eventualità molto invitante – o potrebbe rilevare aziende all’estero. Tuttavia imprese e Paesi stanno sempre più in guardia rispetto alle sue ambizioni, perché si rendono conto che i cinesi perfezioneranno qualunque tecnologia condivisa oggi per batterli domani attraverso la concorrenza. A loro volta le aziende cinesi hanno sempre più difficoltà a replicare
  • 10. 10 tecnologie estere o ad appropriarsene, a mano a mano che le imprese dei Paesi sviluppati diventano più consapevolidella minaccia che rappresenta e proteggono di più le loro tecnologie. La Cina dunque deve innovare,avvalendosideisuoistudentisempre più formati - molti dei quali conseguono diplomi avanzati all’estero - e di quanti se ne sono andati ma potrebbero essere attirati in patria dalla promessa di laboratori abbondantemente finanziati e di uno stile di vita agiato. La ricerca e sviluppo in Cina sta progredendo rapidamente, ma le ci vorrà del tempo per fare la differenza17. Nel frattempo, se il Paese lascerà effettivamente che le forze di mercato si esprimano di più, certe aree significative nel suo settore manifatturiero non saranno più competitive in assenza delle sovvenzioni esplicite e implicite che si sono abituate a ricevere. Quando alcune aree perdono competitività, le economie moderne fanno affidamento sul settore finanziario affinché identifichi le aziende in difficoltà, le chiuda e ne riallochi le risorse a imprese più sane. Sono dunque i mercati, e non lo Stato, ad allocare le risorse e lo fanno basandosi su chi può usarle meglio in futuro e non su chi ha i contatti migliori. Riassumendo dunque la Cina deve aprire le sue vie d’ingresso, eliminare le sovvenzioni concesse alle aziende consolidate, consentire la libera concorrenza e lasciare che il mercato porti alla chiusura le imprese con performance insoddisfacenti. Nel frattempo il partito deve mantenere il controllo, il che significa che non può permettere al settore privato di diventare troppo indipendente. Come può riuscirci? La sfida per il partito: cambiare comportamento mantenendo il controllo L’esistenza di vie d’ingresso più libere implica che i capi di partito dovranno smettere di selezionare le nuove imprese autorizzate a entrare e di aprire loro le porte,iniziando a lasciarle aperte a chiunque voglia entrare. Ciò richiede un enorme cambio di mentalità, soprattutto perché obbligherà i funzionari a consentire che le loro aziende locali predilette - ovvero la fonte di una parte dei proventi del partito e perfino delle loro entrate personali – siano esposte alla concorrenza. Se non saranno dispostia ridurre le barriere locali all’ingresso, e allo stesso tempo non vorranno tornare alla vecchia corruzione per paura di una leadership centrale all’erta, i nuovi ingressi saranno pochi e la crescita sarà lenta. Ipotizziamo che i capi delle sezioni locali del partito accettino di ricevere ordini dall’autorità centrale e di consentire il libero ingresso delle imprese. Il partito a quel punto dovrà assicurarsi che ci si possa fidare delle imprese che crescono, dato che il nuovo processo non impedirà che entrino quelle politicamente inaffidabili. Il partito ha già un metodo da seguire a tal fine: quello di introdurre una propria cellula in ogni grande impresa, pubblica o privata, perché ne stabilisca l’indirizzo politico. Presumibilmente, se le vie d’ingresso verranno sgombrate le cellule del partito dovranno essere inserite nelle imprese in una fase più precoce rispetto a ora, per compensare la mancanza di un vaglio iniziale. Dato il potere del partito, i suoi rappresentantisaranno tentati di influire sugli indirizzi di business,se non altro per migliorare la crescita locale e gli sviluppi relativi all’occupazione. Ciò trasformerà presumibilmente le imprese private, in genere focalizzate sull’efficienza e sulla redditività, in aziende più «soft» che avranno legami con lo Stato. I responsabili incaricati dal partito dovranno essere enormemente disciplinati per non cadere nella tentazione di condizionare le decisioni delle imprese, cosa che potrebbero fare grazie al potere che hanno e alla posizione che occupano. Anche se non interverranno, l’esistenza di cellule così potenti farà pensare alla popolazione che le aziende siano legate al partito. Ciò darà luogo a un ulteriore problema. In un’economia mutevole e in crescita, alcune imprese avranno un modello di business sbagliato.La decisione giusta sarebbe quella di lasciar finire in bancarotta,e persino fallire, que- ste imprese in difficoltà. Poiché la gente penserà che tutte le aziende di rilievo siano in qualche modo indirizzate dal partito, la sua reputazione in termini di infallibilità sarà piuttosto a rischio. È in grado di reggere al fallimento di un’azienda ogni tanto, non di un intero gruppo di aziende. Un partito invadente sarà sottoposto alclassico vincolo del «soft budget» postulato da Jànos Kornai per le economie socialiste: non potrà chiudere le aziende che falliscono, specialmente se ne falliranno diverse nello stesso periodo. Piuttosto le soccorrerà sprecando una certa quantità di risorse18.Il controllo ha un costo:fa sì che le persone attribuiscano la responsabilità al partito. Il mercato finanziario potrà contribuire ad attenuare il problema? Probabilmente no; anzi, tenderà ad aggravarlo. Il fatto che lo Stato, controllato dal partito, intervenga a fronte di un certo numero di fallimenti pone il classico problema del too many to fail («troppe per fallire») in termini di rischio morale. Il desiderio di controllo politico da parte del partito potrebbe dunque falsare il prezzo attribuito al rischio dal mercato. Il comportamento sul fronte degli investimenti delle famiglie cinesi, che devono incrementare i propri risparmi in vista della pensione, non aiuta. Le famiglie vagliano costantemente le opportunità di ottenere rendimenti più elevati in patria, dato che gli investimenti esteri sono soggetti a restrizioni significative. Ogni volta che il governo cambia leggermente le proprie politiche, offrendo alle famiglie nuove opportunità di investimento o manifestando un atteggiamento più tollerante nei confronti del credito, le famiglie spostano enormiquantità di risparmi per avvantaggiarsi dei rendimenti aggiuntivi, che potrebbero essere disponibili solo per poco tempo. Tali flussi spingono al rialzo i prezzi degli asset finanziari, creando una serie di bolle. Il governo, non volendo mettersi contro le numerose famiglie che investono i loro preziosi risparmi, è allora tentato di intervenire per puntellare quei prezzi, se iniziano a cadere. Se interviene, le famiglie finiscono per fare affidamento sul fatto che il governo le soccorra, e il mercato finanziario di conseguenza sottoprezzerà il rischio. Se invece non interviene, causerà l’infelicità di molte famiglie e danneggerà la propria reputazione dal punto di vista della gestione dell’economia e di conseguenza la propria legittimità. Se sceglie di intervenire, farà sì che i mercati finanziari cinesi continuino a essere considerati inaffidabili come allocatori di fondi. In sintesi, il partito sarà tentato periodicamente di sostituire la propria saggezza a quella del mercato. Se lo farà, il mercato non potrà mai maturare in modo da indirizzare l’allocazione delle risorse e la gestione del rischio. Un vero
  • 11. 11 cambiamento avverrà solo quando i mercati finanziari del Paese verranno svezzati e privati della protezione dello Stato. La Cina ha bisogno che i suoi investitori assimilino la lezione che i mercati finanziari non si muovono solo verso l’alto, ma anche verso il basso. E una lezione dolorosa che lo Stato ha difficoltà a impartire, perché le fasi di contrazione finanziaria sollevano effettivamente interrogativi sulla competenza di un partito onnivedente e onnipotente.Per un partito che non viene eletto dal popolo, e che non ha molte possibilità di incolpare le amministrazioni precedenti, sono interrogativi che è meglio non porre. A mano a mano che la Cina si sposterà verso la frontiera dell’innovazione, le sue imprese dovranno commettere errori. Il Paese dovrà anche eliminare un maggior numero dei suoi vecchi settori smokestack. Il punto di forza dei suoi mercati è la capacità di far fronte a errori e fallimenti, ma il desiderio del partito di mantenere il controllo potrebbe minarlo. Stato, mercati e democrazia in Cina La democrazia, come vedremo nel caso dell’India, in alcuni casi rende più difficile l’intervento dello Stato.Ma anche più facile non intervenire. Il partito al potere non è responsabile di ogni cosa e non deve continuare a pretendere di essere infallibile, perché trae la propria legittimità dal voto popolare, non dalla perfezione. Ciò gli consente difar fronte in modo più efficace agli alti e bassidel mercato. È indubbio che i governi intervengano suimercati, ma ogni crollo di un mercato non è un referendum sul governo. La democrazia crea dunque una separazione fra Stato e mercati, in un modo diverso da quello che abbiamo visto parlando del movimento populista e di quello progressista.Consente allo Stato di essere più sganciato dai mercati e di conseguenza all’uno e agli altri di funzionare meglio senza che i legami incrociati compromettano le loro funzioni. Tutto questo presuppone che la Cina continui ad avere una leadership meritocratica illuminata che goda di un ampio supporto da parte della popolazione. In assenza dielezioni, le persone dovranno fare affidamento sulfatto che dai processi interni al partito emergano i candidati giusti. Ci sono motivi importanti per preoccuparsi del fatto che i processi interni possano essere sovvertiti19. La campagna anticorruzione ha avuto l’effetto collaterale di accentrare il potere all’interno del partito, in mano a chi ha la possibilità di lanciare accuse di corruzione. Poiché così tanti funzionari di partito e uomini d’affari in attività sono compromessi da atti di corruzione commessi in passato, la campagna può essere usata in modo selettivo per indurre al silenzio l’opposizione, all’interno del partito e nel settore privato. Di fatto i miei amici cinesi parlano di «peccato originale». È così che vengono soprannominati i compromessi legali a cui quasi tutte le società cinesi private di ogni dimensione (e i relativi enti di controllo locali) scesero nei primi tempi, quando le norme in vigore essenzialmente proibivano qualunque attività nel mondo degli affari. Il peccato originale fornisce quindi alle autorità che lottano contro la corruzione un bastone con cui picchiare tutte le persone coinvolte, se si comportano in modo inappropriato. L’assenza di qualsiasi opposizione che non sia scesa a compromessi spiana la strada affinché una fazione autoritaria possa assumere il controllo del partito, qualora decida di farlo. Inoltre le procedure previste dal partito, comprese quelle che garantivano un ricambio periodico della leadership, non vengono seguite. Deng temeva che potesse riemergere il dominio di una sola figura. Il fatto che i candidati a una promozione fossero valutati su indicatori obiettivi del loro rendimento, e che esistesse una concorrenza fra loro, iniettò un certo dinamismo nell’organizzazione. Deng cercò anche di instillare una serie di tradizioni che avrebbero impedito a un dittatore come Mao di assumere il controllo. Oltre alle strutture che promuovevano la leadership collettiva, una di queste tradizioni prevedeva un limite di due mandati quinquennali per la presidenza nazionale. Un’altra stabiliva che il successore del presidente in carica fosse stabilito a metà del suo mandato, in modo che la successione fosse fluida. Entrambe le tradizioni sono state abbandonate poco tempo fa, corroborando la tesi secondo cui, in assenza di fonti di potere indipendenti dallo Stato, è improbabile che un leader determinato si lasci limitare dalle norme. Il partito sembra muoversi verso un maggiore controllo e una maggiore centralizzazione. Un memorandum interno diffuso nel 2013, intitolato «Documento n. 9», avverte dei pericoli associati alla democrazia costituzionale occidentale, alla libertà di stampa e ad altri «valori universali», considerati idee volte a minare e addirittura dividere la Cina20. Con uno spirito analogo,il «Grande Firewall» impedisce che idee radicali provenienti da Internet penetrino nel Paese, mentre le grandi piattaforme Online cinesi devono condividere i propri dati con il governo. Il «sistema di credito sociale» proposto si prefigge di incrociare tutti i dati esistenti su una persona mediante l’intelligenza artificiale per attribuire un punteggio a ogni cittadino, che ne determinerà il diritto di accesso a servizi privati e sociali. Il fatto che il punteggio tenga conto o meno dell’attività politica e sociale rimane un motivo di preoccupazione. Data la disponibilità di software di riconoscimento facciale, e l’ubiquità delle telecamere, il cittadino potrebbe non avere alcun diritto alla privacy da parte dello Stato e alcuna libertà da esso. La speranza è che l’impegno della Cina nei confrontidella crescita economica le impedisca di diventare un’autocrazia priva del supporto popolare. Nel lungo periodo questo Paese crescerà solo se riuscirà a imbrigliare le immense capacità di innovazione del suo popolo - che è la natura della crescita alla frontiera. Le persone innovano quando sisentono sicure di poter mettere in discussione le cose, quando sono libere di apportare cambiamenti radicali e quando non temono di subire rappresaglie se li apportano. In Cina, questa sicurezza può scaturire solo da una fiducia a lungo termine nella leadership. La democrazia è una strada per verificare tale fiducia, oltre che per slegare lo Stato dai mercati, ma forse la Cina ne troverà una diversa. In quel caso sarà il primo Paese di grandi dimensioni a farlo. La Cina ha bisogno di trovare un equilibrio più appropriato.Il partito domina lo Stato e i mercati sono statirepressi.Le vie del passato pergenerare crescita
  • 12. 12 non sono più percorribili. Le nuove strade per crescere richiedono un’enfasi maggiore sull’innovazione e sull’allocazione efficiente delle risorse e una minore sulla repressione finanziaria e sulla corruzione. Richiedono una decentralizzazione, ma in presenza di regole chiare a livello regionale, non di discrezionalità21. Tutte queste cose rendono necessario che il partito lasci la presa, che conceda più libertà e indipendenza al mercato. Anche le comunità dovranno avere più libertà e maggiori facoltà di scelta, sia di supportare l’innovazione sia di mantenere la separazione fra Stato e mercati. Il fatto che si possa o meno fare tutto questo lasciando al partito il suo monopolio costituisce la domanda più importante nel dilemma fondamentale di fronte al quale si trova oggi la Cina. India: come sfruttare i punti di forza di una democrazia vivace ma caotica L’India è cresciuta del 7 per cento all’anno negli ultimi venticinque anni, una percentuale che sembra modesta solo in confronto alla Cina. Sotto la guida del primo ministro che occupò perprimo questa carica dopo l’indipendenza, Jawaharlal Nehru, il Paese trasse ispirazione dalla straordinaria storia di sviluppo dell’epoca, quella dell’Unione Sovietica, che da economia agricola si era trasformata in un colosso industriale nell’arco di una generazione. Seguendo la massima di Lenin, Nehru riservò le «maestose vette dell’economia», comprese industrie cruciali come quella siderurgica e quella dei macchinari pesanti, al settore statale.Gli esperti di economia dello sviluppo di quel periodo pensavano che i Paesi poveri sarebbero cresciuti solo grazie a enormi investimenti nei settori cruciali che producevano macchinari o infrastrutture. Ciò avrebbe incrementato la loro capacità produttiva e di conseguenza illoro reddito. Non dovevano produrre beni diconsumo «futili», e le famiglie non dovevano consumare molte cose al di là delle proprie necessità di base.Solo allora sarebbero state in grado di gestire i propri risparmi con parsimonia a fini produttivi, o almeno così si credeva. Socialismo con caratteristiche indiane L’India di Nehru non soppresse attivamente il settore privato. Piuttosto fu introdotto un sistema di cessione di licenze industriali - che divenne noto come License Permit Raj - con lo scopo dichiarato di fare un uso attento dei risparmi del Paese.I burocrati si rifiutarono di concedere la licenza ad aziende di settoriche a loro parere producevano benidi consumo superflui (compresi alcuni durevoli, come le automobili), e incoraggiarono a investire in settori che avrebbero potuto supportare la crescita in futuro, come la produzione di macchinari pesanti. La conseguenza del sistema di licenze fu che le aziende consolidate,tipicamente società private di famiglie rispettate che avevano ottenuto le prime licenze perché avevano i contatti giusti, furono protette dalla concorrenza. Il governo innalzò anche una serie di barriere nei confronti della concorrenza estera; l’idea era che questo avrebbe concesso una tregua alle giovanissime industrie indiane, fornendo loro un ambiente che le avrebbe supportate mentre maturavano e diventavano competitive. Ma nessun player consolidato, avendo iniziato a realizzare profitti dietro quelle barriere, era incentivato a consentire che fossero abbattute.La protezione offerta alle industrie giovanidivenne dunque una scusa usata per diventare delle «Peter Pan», imprese che non diventavano mai adulte. Nei quasi quarantanni di produzione industriale dell’Ambassador, la vettura più grande venduta in India, ne furono messi in commercio solo cinque modelli diversi - e per gran parte di quel periodo gli unici elementi che subirono modifiche furono i fanali e la forma della griglia frontale di areazione, o almeno così parve. Dopo essere cresciuta rapidamente nel periodo iniziale dell’industrializzazione post-indipendenza, l’India rimase bloccata a un tasso di crescita reale prò capite dell’l per cento circa, che fu soprannominato «tasso dicrescita indù». Il settore privato era inefficiente ed enormemente indebitato nei confronti del governo,in cambio di protezione. Il clientelismo era dilagante; Stato e mercati erano una cosa sola. La democrazia quindi non fece la differenza? Purtroppo no! L’India teneva elezioni ogni cinque anni circa, ma questo non significava che la democrazia permettesse alla popolazione di far sentire davvero la sua voce.Il Partito del Congresso aveva guidato la lotta per l’indipendenza e il popolo ebbe fiducia in esso per un certo tempo, facendolo stravincere alle elezioni nella maggior parte degli Stati. La mancata concorrenza risultò problematica. Poiché per vincere le elezioni l’affiliazione sembrava più importante delle politiche attuate localmente, il processo decisionale divenne più centralizzato. Nel nominare i propri ministri, Indirà Ghandi - il primo ministro che probabilmente suscita le reazioni emotive più variegate nel popolo indiano, sia positive che negative - diede più importanza alla lealtà di ciascuno nei suoi confronti che alle loro competenze o alla loro integrità. Alcuni politici forti e indipendenti di livello regionale lasciarono il partito per gettarsi nella giungla politica e le loro posizioni nella gerarchia furono colmate da leccapiedi. Dato che a causa dell’inefficacia dello Stato l’erogazione dei servizi pubblici era pessima, la politica del mecenatismo e l’apatia popolare, di cui abbiamo già parlato in un’altra parte del libro, imperversarono. All’inizio degli anni Settanta del secolo scorso gran parte della ricchezza esistente nell’economia o si trovava nel settore statale,o ne era controllata (nel 1969 molte banche erano state nazionalizzate), o era in mano a docili magnati del settore privato; esisteva dunque ben poco potere indipendente dallo Stato. Anche all’interno Partito del Congresso non regnava la democrazia. Alcune istituzioni non erano schierate, ma la maggior parte di esse era impotente nei confronti di un primo ministro determinato. Quando una Corte suprema decretò che Indirà Ghandi dovesse essere interdetta dai pubblici uffici per una violazione commessa in occasione di una tornata elettorale, la donna invocò lo stato di emergenza ed esercitò i poteri associati per abrogare le libertà civili, incarcerando gran parte dell’opposizione. La Costituzione fu modificata nel 1976 per fare ufficialmente dell’India una repubblica socialista, il che rifletté la sfiducia di vecchia data dell’India nei confronti dei mercati e il suo desiderio di uno Stato più forte. Tale modifica ridusse anche il potere della scomoda magistratura, facendo avanzare ulteriormente il Paese verso l’illiberalismo economico e politico. Malgrado il potere dello Stato fosse quasi illimitato, i risultati in aree come l’erogazione dei servizi pubblici erano molto scadenti. Nel 1950 i cittadini indiani avevano ricevuto in media 0,92 anni di istruzione, un dato leggermente migliore rispetto alla media cinese di allora, pari a 0,65 anni22.Nel 1970, dopo altri ventanni di democrazia, l’India era
  • 13. 13 salita a 1,24 anni di istruzione. La popolazione cinese invece ne aveva ricevuti in media 2,77, quasi il triplo rispetto al livello precedente. La democrazia apatica e non competitiva non aveva fatto molto per il benessere del suo popolo! Lo pseudosocialismo indiano non fece altro che fornire ai politici, ai burocrati e agli uomini d’affari più importanti una foglia di fico con cui coprirsi mentre praticavano il nepotismo - una buona ragione per porre dei limiti al settore privato mediante la burocrazia, così da poter togliere la foglia a piacimento. L’India si risveglia L’India abbandonò la strada intrapresa, seppur più tardi della Cina. Indirà Gandhi pose fine allo stato di emergenza nel 1977 e indisse le elezioni. Il suo partito subì una sonora sconfitta, facendo pensare che quando venivano pungolati gli elettori indiani votassero con la propria testa.L’India divenne di nuovo una caotica democrazia. Dopo un tentativo fallito dell’opposizione, nel 1980 Indirà Gandhi tornò al potere e l’India avviò un esitante processo di liberalizzazione23. Nei vent’anni successivi il Paese compì alcuni passi importanti verso la trasformazione in democrazia liberale. Abrogò alcune modifiche illiberali alla Costituzione apportate durante lo stato di emergenza. Altri sviluppi contribuirono a limitare alcuni poteri arbitrari dello Stato. In primo luogo il Partito del Congresso non rappresentò più una scelta inevitabile per l’elettorato. Poiché era stata spianata la strada alla concorrenza politica, emersero diversi partiti di carattere regionale o basatisu questa o quella casta, intenzionati a sfidare il Partito del Congresso. Questi partiti conquistarono il potere nei diversi Stati regionali e l’India di fatto acquisì una struttura più decentrata.I partiti che rappresentavano le caste inferiori, persone che storicamente erano sempre state ignorate dall’élite, sentirono la necessità di sviluppare le capacità dei propri sostenitori.Fecero pressione affinché servizi pubblici come la sanità e l’istruzione fossero ampliati nei rispettivi Stati. Grazie al buongoverno, gli Stati iniziarono a crescere molto più rapidamente24. Dal 1970 al 1990 la media degli anni di istruzione ricevuti dalla popolazione indiana più che raddoppiò,salendo da 1,24 a 2,96, ed è quasi raddoppiata di nuovo dal 1990 al 2010, raggiungendo quota 5,39. Nei primi anni Novanta l’India procedette a un’ulteriore decentralizzazione, introducendo formalmente un terzo strato di governance a livello di singolo villaggio o singola città25. Ogni villaggio doveva avere un capo eletto (chiamato sarpanch) e un comitato di gestione (il panchayat), con elezioni ogni cinque anni. Malgrado le amministrazioni statali e quelle locali si scontrino ancora oggi sulla distribuzione delle risorse e del potere, la decentralizzazione sta procedendo. Proprio mentre l’India stava portando avanti la decentralizzazione e rafforzando le radici comunitarie della democrazia, una crisi finanziaria segnò l’inizio della fine dello pseudosocialismo.Le finanze esterne sideteriorarono così tanto negli anni Ottanta che l’India dovette rivolgersi al Fondo Monetario Internazionale per ottenere fondi di emergenza. La crisi rese chiaro più che mai che il sistema non stava funzionando, che le piccole riforme operate dal 1980 erano insufficienti. Dati gli enormi progressicompiuti dalla Cina nel decennio precedente, gli argomenti forniti dall’India per non liberalizzare - cioè il fatto che l’operazione funzionasse solo per i Paesi piccoli e che avrebbe rafforzato i capitalisti predatori - sembrarono scuse per giustificare il mantenimento del sistema clientelare. Il Partito del Congresso era consapevole che l’India doveva cambiare. Nel suo storico bilancio del marzo 1991, che avviò il processo di smantellamento dell’intero sistema del License Permit Raj, Manmohan Singh disse «Che il mondo intero lo senta dire in modo forte e chiaro. L’India adesso è completamente sveglia». La sua osservazione era un gioco di parole basato sul discorso di Jawaharlal Nehru sull’indipendenza politica del Paese, durante il quale aveva detto:«A mezzanotte, mentre il mondo dorme, l’India si sveglierà alla vita e alla libertà [...]». Essenzialmente Singh proclamò l’indipendenza economica dell’India, mentre il Paese toglieva i ceppi economici che aveva imposto al suo stesso popolo. Il processo di riforma era iniziato con decisione, dodici anni dopo la Cina, ma alcuni interessi forti lo osteggiavano. Una volta che i burocrati si abituano ad aiutare gli uomini d’affari a orientarsi nel ginepraio di regole che loro stessihanno creato,non mollano facilmente la presa.Un burocrate del governo indiano ha usato a questo riguardo la metafora della «puntura dello scorpione». In qualunque movimento verso la liberalizzazione il burocrate sta al gioco, ma alla fine, quando ogniaspetto è stato dibattuto e ilginepraio delle norme precedentiè stato buttato nelcestino,inserisce una clausola che pare innocua ma che è impossibile da rispettare, la quale reintroduce la discrezionalità burocratica. Grazie a tali resistenze, la corruzione non sparì. Ciononostante la liberalizzazione fu autentica, costante e significativa. La crescita riprese con forza a mano a mano che aumentava la fiducia dell’India nei mercati. I dazi sulle importazioni furono ridotti drasticamente, esponendo le aziende indiane a una maggiore concorrenza. Come per ogni liberalizzazione, questo causò di fatto la distruzione di posti di lavoro nelle aziende consolidate. Alcuni studi mostrano che nei distretti del Paese che subirono le conseguenze del commercio internazionale l’incidenza della povertà era relativamente più alta, cosìcome quella dei reati violenti e legati alla proprietà26.Un punto interessante è che queste ricerche sugli impatti negativi della concorrenza commerciale furono pubblicate prima che fossero condottinegli Stati Uniti gli studi di cui abbiamo parlato nel Capitolo 6. La realtà è che il commercio internazionale, pur avendo solitamente effetti benefici nel complesso,ha impatti diversi. I mercati emergenti lo sanno da tempo, ma hanno deciso di optare per l’apertura in virtù delle conseguenze complessivamente positive. È paradossale che una volta compiuta questa scelta e assorbiti i relativi costi, vedano alcuni Paesi sviluppati allontanarsi dalla pratica di ciò che predicavano. I costi delle politiche economiche diventano più concreti quando si fanno sentire in patria! Via via che il business si è espanso l’India non solo si è trovata nella necessità di sfrondare il libro delle vecchie regole, ma anche di dotarsi di nuovi e processi normativi. Nel primo decennio di questo secolo la domanda di risorse come i depositi minerari e i terreni ha registrato un boom, così come il loro valore. Il governo - che ne era proprietario – ha continuato a cederle in modo informale e non trasparente,riempiendo le tasche di politici, burocrati e uomini d’affari coinvolti. In passato l’opinione pubblica, che si trovava in uno stato di apatia, non vi aveva prestato molta attenzione. Ma l’India del XXI secolo è molto diversa da quella che si era piegata supinamente durante lo stato di emergenza decretato
  • 14. 14 da Indirà Gandhi. Quando la corruzione è divenuta sfacciata, c’è stata una chiara reazione di rifiuto. Il processo è stato agevolato dal fatto che diversi enti pubblici di vigilanza hanno iniziato a dichiarare la propria indipendenza. Non è successo che l’establishment elitario abbia deciso di comune accordo di rinunciare alla propria discrezionalità e procedere a una migliore regolamentazione. È stata più che altro una questione di coincidenze, in cui la persona giusta al posto giusto ha deciso di riformare il proprio ente di vigilanza in modo che svolgesse effettivamente la sua funzione. Persone che sono state indubbiamente aiutate da un’India più decentralizzata e caratterizza- ta da una maggiore competitività politica, molto più favorevole a un libero accesso sulfronte politico ed economico. In questo modo un commissario responsabile delle elezioni, un giudice capo oppure un supervisore o un revisore generale dei conti, rifiutandosi di accettare lo status quo e spronando ilrispettivo ente a svolgere efficacemente il proprio ruolo, poteva fare la differenza. A mano a mano che il sistema economico e politico diventava sempre più pluralistico, queste persone hanno potuto ritagliare uno spazio per le loro istituzioni, spazio che è sopravvissuto alla loro dipartita. Anche se il sistema ha opposto una certa resistenza, l’ente a quel punto aveva instaurato una tradizione di cui doveva essere all’altezza e che i successori della persona in questione non potevano ignorare. Via via che la corruzione assumeva proporzioni preoccupanti, istituzioni indiane come il supervisore e il revisore generale dei conti e i giudici della Corte suprema hanno dunque indagato sui vari casi, li hanno resi noti all’opinione pubblica e perseguiti. Lo sdegno della popolazione si è intensificato. Partiti populisti come l’Aam Aadmi Party (Partito della gente comune) hanno impugnato le elezioni sulla base di una piattaforma anticorruzione, sottolineando di essere dispostia prestare ascolto agli elettori e a lavorare per conto loro con trasparenza. Di fatto la corruzione è stato uno dei due problemi fondamentali al centro delle elezioni generali del 2014 (l’altro è stato l’occupazione). L’Alleanza progressista unita, che era al potere, ha perso nettamente a vantaggio dell’Alleanza democratica nazionale. Stato, mercati e democrazia in India L’India è dunque diversa da molti dei Paesi sviluppati che abbiamo trattato finora in quanto è stata una democrazia prima di essere industrializzata, prima di avere uno Stato forte e prima di avere un settore privato indipen- dente o dei mercati in buona salute. Malgrado la sua democrazia fosse inizialmente apatica, la decentralizzazione ha rianimato la partecipazione alla vita politica e contribuito a rafforzare le istituzioni democratiche. È difficile immaginare un sistema diverso dalla democrazia che possa funzionare in questo Paese. Data la molteplicità delle lingue (ventidue principali e oltre settecento dialetti), delle religioni (solo Indonesia e Pakistan la superano in termini del numero di musulmani), delle caste e delle etnie, l’India deve avere un sistema che consenta di esprimere le lamentele mediante la protesta democratica e il dialogo, invece di reprimerle ottenendo come unico risultato che esplodano in un secondo tempo. La turbolenta democrazia indiana allevia le pressioni e rende possibile governare il Paese. I problemi dell’India scaturiscono dagli altri due pilastri. In primo luogo - a differenza degli Stati Uniti, in cui un settore privato tuttora indipendente critica le politiche del governo,anche su questionipolitiche e sociali non direttamente legate alle sue attività di business - il settore privato indiano, cioè il pilastro del mercato, si limita perlopiù a elogiare qualunque politica pubblica. Un governo deciso, pur essendo inefficace nella maggior parte delle aree che danno benefici alla popolazione, può comunque intimidire il settore privato e la stampa attraverso le sue minacce, oppure corromperli mediante la concessione di crediti o di appalti pubblici. Malgrado la liberalizzazione sia iniziata da decenni, è ancora diffusa fra la popolazione la sensazione che i più grandi magnati siano arrivati al punto in cui si trovano grazie alla propria capacità di manovrare il sistema. I leader del partito al potere conoscono bene la brutta reputazione del settore privato. Poiché solitamente, come in Cina, il passato di un magnate nasconde un qualche peccato commesso tempo prima, che può essere approfondito mediante apposite indagini e reso noto all’opinione pubblica, pochissimi sono dispostia criticare apertamente il governo di turno e men che meno a compiere dei passiper sfidarlo come opposizione. Ciò significa anche che quando il partito al potere ha bisogno di finanziamenti per le elezioni, basta che li chieda. Di conseguenza i partiti di opposizione di centro hanno più difficoltà a farsi sentire, soprattutto se quello al governo gode di una maggioranza forte, perché sia i finanziamenti del settore privato sia l’attenzione della stampa tendono a diminuire dopo una tornata elettorale, per paura di dare fastidio al governo in carica. Ciò significa che le carenze e le tendenze autoritarie del governo vengono prevalentemente controllate solo dalla magistratura, da enti democratici come la Commissione elettorale e dalle amministrazioni dei diversi Stati gestite da partiti di opposizione. Un evento interessante mi ha fatto capire chiaramente lo scarso rilievo del settore privato agli occhi del governo. Il presidente Obama era in visita a Delhi e l’intera élite indiana era stata invitata a conoscerlo durante un ricevimento nella residenza del presidente del Paese. Come al solito i burocrati che avevano organizzato il ricevimento avevano identificato il posto esatto occupato da ogni persona nella gerarchia politica e avevano messo tutti in fila ordinatamente perché stringessero la mano a Obama. La fila era lunga, e iniziava dal primo ministro indiano, seguito dall’ex primo ministro, i ministri in carica, il leader dell’opposizione, i dirigenti militari... dignitari del partito al potere in pensione,ministri di vari Stati... il nipote del presidente indiano, vari burocrati in attività... e, in ottantatreesima posizione, il presidente della più grande associazione indiana nel settore privato, che riuniva imprese con una capitalizzazione di Borsa complessiva di oltre 100 miliardi di dollari, seguito da altri magnati e banchieri. D’accordo che il lavoro all’interno nella pubblica amministrazione debba essere premiato mediante uno status superiore, per compensare la mancanza di gratificazioni economiche, ma l’ottantatreesimo posto nella gerarchia non è così basso da risultare allarmante per uno dei massimi protagonistidel settore privato indiano? Con ciò non voglio dire che potere e dipendenza fluiscano solo in una direzione. Paradossalmente, una volta andati in pensione, molti burocrati che hanno preceduto i magnati in quella fila lavoreranno per loro. Questa situazione deve cambiare. Le elezioni non bastano, è anche quello che succede tra un’elezione e l’altra a
  • 15. 15 rendere vitale una democrazia. Se l’India deve seppellire lo spettro dell’autoritarismo e del clientelismo, se vuole che la sua democrazia sia più informata e che vigili con più decisione sullo Stato e sulla corruzione, il Paese ha bisogno di un settore privato più competitivo - e di conseguenza indipendente - che goda di uno status più elevato presso l’opinione pubblica. Ha bisogno che un maggior numero di piccole e medie imprese crescano e prosperino,facendo concorrenza alle aziende consolidate. Ciò mi porta alle carenze dello Stato. Malgrado mantenga un potere che gli consente dicomportarsi occasionalmente in modo arbitrario, non è comunque molto efficace; cerca di fare troppo con troppo poche risorse. Fortunatamente anche lo Stato indiano sta cercando diriformarsi. Sta provando ad acquisire competenze professionali integrandole lateralmente, e a sfruttare la tecnologia informatica per ottimizzare l’erogazione dei servizi e i trasferimenti di fondi alla popolazione. Sono passiimportanti, ma l’India ha ancora non poca strada da fare, soprattutto ritirandosida attività di cui lo Stato non dovrebbe occuparsi. Forse un aneddoto può avvalorare questo punto:quando ho lavorato per qualche tempo per il ministero indiano delle Finanze come principale consigliere economico, sono rimasto scioccato dal mucchio di documenti che passavano sulla mia scrivania - scioccato in primo luogo dal fatto che usassimo ancora documenti cartacei nel XXI secolo e in secondo luogo dalla quantità di fogli esplicativi che dovevo leggere per capire la nota allegata alla copertina di ogni documento, sulla quale dovevo aggiungere i miei commenti e la mia firma. Che, naturalmente, sarebbero diventati una lettura obbligata per la persona che avesse ricevuto quelle carte dopo di me. Quando mi sono lamentato di questo con un burocrate veterano, mi ha indicato una semplice soluzione basata sull’esperienza e su una logica impeccabile: «Dedica meno tempo ai documenti più corposi. Si tratta di questioniche non vanno da nessuna parte,che continuano a circolare fra varie scrivanie, mentre ciascuno spreca il tempo altrui aggiungendo ulteriori commenti. È per questo che sono cosìcorposi. Dedica tutto il tuo tempo ai documenti di poche pagine. Trattano di questioni recenti rispetto alle quali un’opinione stringente potrebbe davvero far succedere qualcosa». Aveva ragione, ma l’episodio ha una morale più ampia. L’India deve lasciar perdere i documenti corposi e concentrarsi di più su quelli di poche pagine. Lo Stato può fare di più cercando di fare di meno. Perché l’India non ha avuto gli stessi buoni risultati Cina e India erano due colossi asiatici addormentati, ma la Cina si è svegliata per prima. Un tempo avevano lo stesso livello di povertà, ma la Cina oggi ha fatto uno scatto in avanti. Il vantaggio di cui godeva inizialmente, cioè quello di avere una forza lavoro più sana e più istruita, ha avuto forse più importanza nella prima fase di liberalizzazione e il fatto che al suo interno non esistessero né un mercato competitivo né la proprietà privata non ha rappresentato uno svantaggio - anzi, di fatto ha consentito allo Stato di dare una spinta ai settori che preferiva. Il settore edile probabilmente è il più importante nelle prime fasi del processo di industrializzazione di un Paese. Impiega lavoratori non qualificati, di conseguenza può assorbire molti di quelli che lasciano l’agricoltura. Inoltre contribuisce alla crescita di altri settori,mentre spuntano imprese volte a fare uso delle infrastrutture. Per esempio, sembra quasi magica in India la crescita economica di un villaggio quando viene costruita una buona strada,percorribile in ogni stagione, che lo collega a una città. La strada permette ai camion di trasportare merci in città in tempi brevi, così i coltivatori intraprendono nuove attività, come la produzione casearia, l’allevamento di polli e l’orticultura. A mano a mano che questiabitanti si arricchiscono, nel villaggio aprono negozi che vendono beniconfezionati e vestiti. Poco dopo un chiosco inizia a vendere tessere prepagate ditelefonia cellulare e non passa molto tempo prima che il villaggio ottenga la sua prima filiale bancaria. Il settore edile dunque moltiplica i posti di lavoro e agevola lo sviluppo. La conseguenza più ovvia delle condizioni di partenza dei due Paesi è forse che la Cina è stata in grado di ampliare enormemente il proprio settore edile, mentre l’India ha avuto meno successo.La Cina è passata in testa perché è riuscita a finanziare i progettidi costruzione mediante credito a buon mercato, e l’acquisizione dei terreni non è stata problematica perché appartengono tutti allo Stato. In India invece il credito viene concesso ai tassi di mercato. E, soprattutto, ogni nuovo progetto richiede di affrontare un lungo e difficile processo di acquisizione del terreno necessario dai suoi proprietari. Se i diritti di proprietà non sono ben definiti può volerci ancora più tempo. Il ritardo compromette di per sé gli equilibri economici del progetto. Malgrado la legge permetta di acquisire i terreni con la forza per opere pubbliche come la costruzione di strade e aeroporti, i politici dell’opposizione, consapevolidell’opportunità che possono cogliere, sono sempre disposti a organizzare proteste contro tali operazioni. La società civile indiana, che è ben sviluppata e comprende organizzazioni che lottano ognuna per una causa specifica, si unisce spesso alle iniziative di protesta. Se lo Stato indiano fosse efficace, questielementi offrirebbero un modo appropriato per tenere sotto controllo il suo potere; di fatto le leggi sull’acquisizione dei terreni sono un modello per quanto riguarda il tentativo di mantenere l’equilibrio tra i diritti del proprietario e gli imperativi dello sviluppo.Ma lo Stato è inefficace, dunque l’acquisizione dei terreni e di conseguenza i progetti di costruzione subiscono eccessiviritardi. Dei progetti infrastrutturali in India si può dire, nella maggior parte dei casi, che sono troppo limitati e vengono completati troppo tardi. Nella fase preliminare della crescita la Cina è stata avvantaggiata. L’India deve sveltire l’acquisizione dei terreni. Potrebbe essere tentata di alleggerire i meccanismi di tutela per i proprietari terrieri, ma sarebbe un approccio miope. Non farebbe che coinvolgere i politici, i quali si sforzerebbero di impedire acquisizioni giudicate arbitrarie dal tribunale dell’opinione pubblica. Piuttosto, l’India deve rendere il proprietario terriero un partnernel processo disviluppo,restituendogliuna parte del terreno sviluppato, come alcuni Stati indiani stanno già facendo con successo. Inoltre potrebbe usare una parte delle sue limitate facoltà statali per arrivare a una chiara definizione dei diritti di proprietà dei terreni, agevolandone in tal modo il possesso e la vendita, e al tempo stesso smettere di svolgere altre attività nelle quali è meno efficiente, come la gestione di una compagnia aerea o
  • 16. 16 di una banca. Se procederà in questo modo l’India potrà crescere molto e con facilità, in modo da mettersi in pari, attraverso la costruzione di strade, porti, ferrovie, aeroporti e case. Inoltre, se continuerà a migliorare l’istruzione dei suoi giovani - e la qualità del loro apprendimento d’ora in avanti deve rappresentare la massima priorità - avrà a disposizione la manodopera a basso costo e le infrastrutture necessarie per una maggiore presenza nella manifattura, in modo da incrementare le proprie capacità di erogazione dei servizi. Se verranno operate le riforme giuste l’India potrà ancora crescere con decisione per molto tempo. E grazie alla sua vivace democrazia, probabilmente si troverà in una posizione migliore della Cina per crescere, una volta che l’avrà raggiunta lungo la frontiera. Ma prima deve arrivarci. La minaccia del nazionalismo populista Se continueranno a crescere, la Cina e l’India si troveranno sotto pressione affinché procedano a ulteriori liberalizzazioni e diventino più orientate al mercato. Quasi inevitabilmente questo le farà apparire come economie avanzate di successo,agevolandone la partecipazione e il dialogo a livello globale. Se invece registreranno una crescita molto più lenta, rischiano di prendere una direzione più preoccupante. I leader hanno a disposizione un’alternativa diversa dalla trasformazione in società liberale e aperta. Ed è quella di sfruttare il fervore nazionalpopulista che è latente in ogni società, soprattutto quando i timori sull’economia si intensificano e aumenta il disincanto nei confronti della tradizionale élite corrotta. Sia la Cina sia l’India hanno un gran numero di persone che hanno lasciato il loro villaggio di origine e si sono trasferite in città per cercare lavoro. Queste grandi popolazioni di giovani migranti, al tempo stesso attirate e scioccate dalla vita urbana ma non ancora integrate in una comunità nuova e solida, costituiscono una materia prima ideale per la visione nazionalpopulista di una comunità nazionale coesa. Diventano particolarmente malleabili in epoche caratterizzate da un incremento lento dell’occupazione, perché vedono chiaramente le incredibili opportunità di cui gode l’élite più istruita dell’alta società. Anche le comunità dei villaggi rurali non sono immuni nei confronti della modernizzazione. Sono anch’esse intrigate, e al tempo stesso disgustate, dalle immagini che vedono in televisione sullo stile di vita dei ricchi liberali che vivono in città. In India, il movimento nazionalista indù cerca di attingere al desiderio di queste persone di ancorarsi alle tradizioni. Inoltre cerca di concentrare la loro attenzione sui motivi di lamentela che le trasformeranno in seguaci devoti. Sfrutta la sensazione diffusa nella maggioranza della popolazione indù di essersi fatta in quattro per soddisfare le minoranze, in particolare quella musulmana. Come tutti i movimenti nazionalpopulisti, ritrae un passato glorioso - che in realtà è un falso mito - in cui l’India induista fu un faro da seguire per il mondo intero, liquidando invece l’intero periodo del dominio musulmano su ampie zone dell’India come un’aberrazione. Al migrante che proviene da un villaggio e non ha piantato radici da nessuna parte, il movimento offre l’appartenenza a organizzazioni come la Rashtriya Swayamsevak Sangh (RSS), gruppo nazionalista paramilitare basato sul volontariato, che sottopone i propri membri in divisa a una serie di esercitazioni e trasmette loro il senso di appartenenza a una comunità, un’ideologia e la sensazione di avere uno scopo nella vita. Il leader realmente motivato della maggioranza indù, attirato nella RSS fin dalla giovane età, in genere è una persona austera - il che lo rende amato da coloro che sono a sfavore della corruzione - e devota alla causa, ragion per cui ricorre a metodi spietati. Questi individui rappresentano una grave minaccia per lo sviluppo di un’India innovativa, liberale e tollerante, soprattutto perché sono più determinati di quelli di altri gruppi e di conseguenza sanno sfruttare efficacemente i periodi durante i quali sono al potere per infiltrarsi nelle istituzioni del Paese attraverso i loro simpatizzanti. L’India avrebbe alcune grosse sfide da superare se i mercati globali venissero chiusi. Allo stato attuale, esportare manufatti sta diventando sempre più diffìcile dato che i Paesi sviluppati procedono all’automatizzazione per competere con la manodopera a buon mercato disponibile altrove. Alcuni stanno rendendo più complessa la fornitura di servizi transfrontalieri, un’area in cui l’India ha sviluppato una forte presenza. Un incremento delle barriere nei confronti di beni e servizi, sotto forma di dazi e non, renderebbe molto più difficile per l’India seguire un percorso di crescita trainato dall’export. Scorre una vena protezionistica in alcuni nazionalisti indù, alimentata dalle imprese che li supportano (hanno effettivamente legami con il mondo degli affari, malgrado la loro apparente austerità), che userà il protezionismo che sta emergendo altrove come scusa per rendere di nuovo l’India più protezionista. A quel punto il settore privato dipenderà ancora di più dai favori del governo.Le iniziative prese in altri Paesi dai nazionalpopulisti possono dunque indebolire la democrazia dell’India e rafforzarne il nazionalismo populista distruttivo.L’India democratica, aperta e tollerante sarebbe un attore responsabile e importante per il suo contributo alla governance globale nei prossimi decenni. Ma il nazionalismo populista in tutto il mondo può rendere questo sviluppo meno probabile. La massima di Deng rivolta alla Cina diceva che per prosperare doveva «nascondere [le proprie] capacità e restare in attesa». Il Paese sembra convinto che questa massima abbia fatto il suo tempo. Come ha dichiarato il presidente Xi nell’ottobre 2017, «la nazione cinese prima si è alzata in piedi, poi è diventata ricca e adesso sta diventando forte» 27.Il grande timore a Washington è che la Cina diventi rapidamente in grado di sfidare gli Stati Uniti, da un punto di vista non solo economico ma anche militare e politico. È da questo che scaturisce la preoccupazione statunitense peril programma Made in China 2025, che mira a incrementare la presenza cinese in settori di manifattura avanzata come l’aviazione, la produzione di chip, la robotica, l’intelligenza artificiale e così via. Mentre gli Stati Uniti godono ancora di un grande vantaggio tecnologico in alcuni di questi settori, temono che la Cina costringa le loro aziende a separarsi da certe tecnologie e che rubi quelle di cui ha ancora bisogno. In modo analogo, nuove istituzioni finanziarie multilaterali finanziate dalla Cina, come l’Asian Infrastructure Investment Bank, fanno temere agli Stati Uniti che la Cina insidi organismi multilaterali che attualmente sono dominati da loro. H hard power della Cina, evidenziato dal