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Project work CORONAVIRUS, L’INCHIESTA SULLE
CONDIZIONI DI SICUREZZA DEI RIDER: “SOCIETA’ DI
DELIVERY NON HANNO VALUTATO I RISCHI”
Food delivery e condizioni
lavorative dei riders: cambiare
prospettiva per equilibrare
flessibilità e sicurezza
Master GIURISTI IN AZIENDA 2020-2021
A cura di (nome e cognome):
Partecipante 1
Partecipante 2
Partecipante 3
Food delivery e condizioni lavorative dei riders: cambiare prospettiva per equilibrare flessibilità e sicurezza
Master GIURISTI IN AZIENDA 2020-2021
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Gig economy - Di che cosa si tratta?
L’ingresso delle nuove tecnologie e lo sviluppo di internet ha avuto un forte impatto sul mercato del
lavoro creando nuove opportunità e introducendo nuove categorie di lavoratori che integrano o
sostituiscono i ruoli tradizionali. Uno degli esempi più noti di questa rivoluzione del mondo del
lavoro è senz’altro quello della gig economy che ha potuto svilupparsi in maniera rapida e
consistente proprio grazie all’utilizzo delle piattaforme digitali che permettono di facilitare e
velocizzare l’incontro tra lavoratori e datori di lavoro.
Il termine gig economy, di derivazione anglosassone, si traduce come “economia dei lavoretti” e sta
generalmente ad indicare quei mestieri che le persone svolgono in via secondaria e dunque come
non principale fonte di guadagno. In questi lavori la retribuzione è quantificata in base all’attività
svolta e il pagamento è mediato dalla piattaforma digitale che mette in contatto allo stesso tempo
lavoratori e clienti. La gig economy può quindi essere definita come una nuova forma di
organizzazione dell’economia digitale, un mercato dinamico e flessibile, prevalentemente
caratterizzato da lavoratori autonomi o con contratti a breve termine, nel quale l’incontro tra
domanda e offerta avviene online tramite apposite piattaforme digitali. Nell’ambito di questo
fenomeno si individuano tre macro-categorie. In primo luogo, abbiamo il cosiddetto “crowdwork”
(lavoro-folla) che permette di rivolgersi a una platea molto vasta in quanto i committenti hanno la
possibilità di postare le offerte di lavoro disponibili su una bacheca virtuale, come per esempio
avviene nel caso della piattaforma ODesk che consente a freelance o lavoratori indipendenti di
trovare piccoli lavori o mansioni specifiche. Un’altra categoria è quella dell’Asset rental, ovvero
l’affitto e il noleggio di beni e proprietà, conosciuta anche come “sharing economy”, dove spesso la
prestazione lavorativa è assente o solo accessoria, come nel caso del proprietario di un
appartamento in affitto su Airbnb. Quando si parla di gig economy, tuttavia, la prima categoria che
viene in mente è quella del lavoro on-demand tramite l’utilizzo di app e il caso più emblematico in
tal senso è quello delle app di food delivery.
Il modello di business del food delivery ha trovato riscontro in numerosi paesi dal momento che
risponde alla necessità oggi fortemente sentita dalle persone di avere più tempo: infatti, essendo
portati a trascorrere le giornate sempre di più fuori casa per la frenesia della vita quotidiana e
lavorativa, le persone non hanno più tempo per cucinare e preferiscono ricorrere a soluzioni veloci e
pronte rispetto a quelle che richiedono una preparazione più complessa. Nello scenario italiano le
app di food delivery che hanno avuto maggiore successo e che operano nella maggior parte del
territorio sono quelle di Foodora, Deliveroo, Uber Eats, Just eat e Glovo.
Nonostante questa fetta di mercato sia remunerativa e in rapida espansione, non può riscontrarsi lo
stesso per quanto riguarda le condizioni lavorative di tutti quei soggetti che provvedono alle
esigenze di logistica e di trasporto in senso stretto: i riders. Con tale termine intendiamo i fattorini
che si occupano delle consegne a domicilio e che, a causa dei vuoti normativi presenti nel nostro
sistema legislativo, si sono ritrovati spesso privi di adeguate tutele e garanzie.
Partendo già dal significato del termine gig economy, è evidente come tale fenomeno non venga
percepito come un vero e proprio lavoro, ma più come un’attività che le persone svolgono in via
secondaria al fine di arrotondare sullo stipendio principale. La conseguenza di questa percezione è
che la categoria dei riders e dei gig workers in generale non sembra essere considerata come
bisognosa di tutela giuridico/lavorativa né tantomeno di particolari diritti. Uno studio condotto da
due docenti dell’Università degli Studi di Milano ha tuttavia messo in luce che nella categoria dei
Food delivery e condizioni lavorative dei riders: cambiare prospettiva per equilibrare flessibilità e sicurezza
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riders di Milano rientrerebbero principalmente soggetti stranieri che fanno delle consegne a
domicilio la loro unica fonte di reddito. Secondo questa indagine vi sarebbero per lo più giovani
soggetti maschili di età compresa tra i 22 e i 30 anni, e, se per quanto riguarda i lavoratori italiani
sembrerebbe essere corretta l’associazione studente-lavoratore, lo stesso non vale nell’ipotesi di
soggetti di origine straniera per le quali le consegne a domicilio rappresentano la loro principale, e
spesso unica, fonte di reddito, ritrovandosi così privi delle relative tutele previste dalla legge e dai
contratti collettivi per i lavoratori subordinati. Interessante inoltre lo studio condotto nel 2018
dall’Inps su tutta la platea dei gig workers italiani che ha per primo “smontato” il mito della gig
economy come lavoro per i giovani, evidenziando che i gig workers costituiscono una percentuale
che oscilla tra il 27% e il 30% nei lavoratori tra i 30 e i 49 anni, del 20% degli over 50, mentre tra i
più giovani (18-29 anni) sfiora appena il 10%.
Il modello di business delle aziende digitali di food delivery varia da piattaforma a piattaforma e a
seconda dei casi, i riders possono essere pagati a orario o a cottimo. In ogni caso, le aziende
riescono a ottenere un forte risparmio di circa il 30% sui costi del lavoro grazie all’assenza dei
contratti nazionali e dei diritti spettanti al lavoratore subordinato, quali ad esempio i benefit, gli
straordinari e i giorni di malattia.
Ulteriore aspetto critico per i riders è quello legato al sistema connesso alle piattaforme digitali:
secondo questo sistema, i riders sono soggetti a una sorta di posizione in classifica determinata da
un algoritmo il cui meccanismo non solo non è ben chiaro ai lavoratori ma è stato più volte accusato
di essere penalizzante. Secondo la Cgil, infatti, tale algoritmo nell’elaborare i ranking reputazionali
dei fattorini, che determinano di fatto le future opportunità di lavoro e le priorità di prenotazione per
le consegne, finirebbe per emarginare e escludere dal ciclo produttivo coloro che non riescono a
essere disponibili a loggarsi nelle aree di lavoro loro assegnate. In questo modo, il lavoratore che
non segue la logica dell’algoritmo, si ritrova progressivamente escluso dalle richieste di lavoro,
arrivando in alcuni casi a essere de-loggato e a vedere i propri account disattivati senza giustificato
motivo.
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I riders, la normativa e la giurisprudenza
L'avvento delle piattaforme digitali (tra cui possiamo citare Glovo, Foodinho, Foodora...) ha
costituito una rivoluzione nel campo del food delivery in generale, e nella specie, anche per la
disciplina contrattualistica dei relativi fattorini. Tali soggetti, infatti, prima dell'arrivo di queste
piattaforme, rivestivano tipicamente una posizione di lavoratore subordinato nei confronti di una
specifica pizzeria o ristorante; ora tutto è cambiato: le varie società di food delivery identificano i
loro riders come lavoratori autonomi, ponendo l'accento sulla loro indipendenza, sia nel determinare
i propri orari e le proprie disponibilità, sia nel decidere i percorsi migliori da seguire per giungere a
destinazione. Detto inquadramento, tuttavia, ha generato non poche discussioni dottrinali, oltre a
proteste e scioperi da parte dei riders stessi, come quello del 10 febbraio 2019 davanti ad uno dei
fast food della catena McDonald's di Bologna, o del 1 maggio 2020, sempre a Bologna, in
occasione della Festa dei Lavoratori.
Non è un caso che il capoluogo emiliano sia stato più volte teatro di queste proteste e scioperi, in
quanto città natale di “Riders Union Bologna”, uno dei maggiori movimenti attivisti in Italia che si
adoperano per tutelare la figura del rider, salito agli onori delle cronache già nell'inverno 2017
quando alcuni dei suoi esponenti decisero di appendere le loro biciclette all'albero di Natale
consuetamente posizionato in Piazza Maggiore. Tale protesta è servita a suscitare l'interesse del
Comune di Bologna, che ha disposto un'udienza conoscitiva per approfondire le condizioni di
lavoro e di trattamento di questa categoria di lavoratori, ancora totalmente ignorata dalle istituzioni
fino a quel momento. Questo è stato il punto di partenza per quello che diverrà il primo accordo
metropolitano in Europa sul food delivery: la Carta dei diritti fondamentali del lavoro digitale nel
contesto urbano (spesso nota come Carta di Bologna). Firmata il 31 maggio 2018 dal Comune di
Bologna, Riders Union Bologna, CGIL, CISL, UIL, Sgnam e Mymenu (queste ultime le uniche
piattaforme di food delivery), i principi fondamentali della Carta sono l'obbligo di assicurazione nei
confronti dei lavoratori e dei terzi, un compenso commisurato a quello stabilito nei contratti
nazionali dei settori attinenti (come quello della logistica), indennità aggiuntive per il lavoro
notturno e le condizioni meteorologiche sfavorevoli, la tutela della privacy.
Già nel mese di luglio dello stesso anno, proprio grazie alla Carta, un rider di Glovo vedrà riattivato
il suo account, che precedentemente era stato disattivato senza giustificato motivo, e a dicembre (in
applicazione dell'art. 4 della Carta stessa) si deciderà di sospendere totalmente il servizio di
consegne in tutto il territorio cittadino, a causa dell'eccessiva pericolosità dettata dalle condizioni
climatiche avverse.
Il 2018 costituisce un anno fondamentale per l'evoluzione della situazione riders anche per un altro
motivo: è stata infatti emessa la prima sentenza di quella che diventerà la “saga giudiziaria” per
eccellenza in materia di food delivery, la c.d. causa Foodora.
Entrando più nel dettaglio, verso la fine del 2016 sorsero proteste tra i riders di Foodora (una delle
principali piattaforme digitali di food delivery) per ottenere un'estensione delle loro tutele,
avanzando richieste riguardanti ferie, tredicesima e contributi previdenziali; successivamente a tali
proteste, sei riders decisero di intentare causa, presso il Tribunale di Torino, contro Foodora stessa,
per far accertare la sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato. Nello specifico le richieste dei
ciclo-fattorini erano le seguenti: la corresponsione delle differenze retributive dirette e indirette e
delle competenze di fine rapporto in forza dell'inquadramento nel Contratto Collettivo Nazionale
della Logistica (o, alternativamente, in quello del settore terziario), la reintegrazione presso il loro
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posto di lavoro (asserendo l'illegittimità del licenziamento) e il riconoscimento delle cifre loro
spettanti per il periodo tra il licenziamento e la ricostituzione del rapporto di lavoro.
Tutte queste richieste verranno respinte in blocco dai giudici del Tribunale di Torino, che
negheranno l'esistenza di un rapporto di lavoro subordinato, facendo riferimento ad una precedente
pronuncia della Corte di Cassazione (la numero 2728 dell'8 febbraio 2010) in cui si stabiliva che per
aversi lavoro subordinato era necessaria la presenza di un vincolo di soggezione del lavoratore al
potere direttivo, con ordini specifici e un'assidua attività di vigilanza del datore di lavoro;
caratteristiche, senza alcun dubbio, assenti nel rapporto di lavoro tra Foodora e i propri riders, i
quali non erano obbligati a dare alcuna disponibilità per i turni di lavoro (e, anche se l'avessero
revocata all'ultimo minuto, non avrebbero subito alcuna sanzione disciplinare, se non la
retrocessione in una sorta di classifica gestita da un algoritmo, utile per determinare i riders più
abili), né a seguire percorsi predeterminati per giungere alle destinazioni del caso.
Nello specifico, i contratti stipulati da Foodora coi propri riders erano Co.Co.Co., cioè contratti di
collaborazione coordinata e continuativa, una fattispecie di lavoro autonomo (c.d. parasubordinato)
regolata dall'art. 409 c.p.c. Nucleo essenziale di questa fattispecie è la prestazione personale di un
lavoratore nei confronti di un committente, coordinata da quest'ultimo (senza però sfociare in ordini
e controlli penetranti, altrimenti si ricadrebbe in un rapporto subordinato in senso stretto) e di
carattere continuativo.
Poche sono le tutele del lavoro subordinato che possono applicarsi anche ai Co.Co.Co.; tra queste
ricordiamo la più rilevante: il dovere, da parte del committente, di dare congruo preavviso in caso di
recesso dal rapporto. In ogni caso, ogni tutela non espressamente prevista per questo tipo di
contratti (come quella contro il licenziamento o per la retribuzione proporzionata e sufficiente ex
art. 36 Cost.) è esclusa.
In seguito alla sentenza di primo grado, i sei riders hanno impugnato la sentenza presso la Corte
d'Appello di Torino, adducendo che i giudici di primo grado avessero posto troppa attenzione sulla
qualificazione che le parti avevano dato al rapporto di lavoro, senza analizzare quelle che erano le
caratteristiche della prestazione lavorativa effettivamente offerta.
Il loro appello è stato in parte accolto, con la prima applicazione in concreto dell'art. 2 d.lgs.
81/2015 (meglio conosciuto come Jobs Act), definendo quindi il rapporto di lavoro dei riders come
una collaborazione etero-organizzata, e non semplicemente coordinata e continuativa. Tale tipo di
collaborazione richiede che il lavoratore non sia dotato di una propria organizzazione e che il
committente determini luoghi e orari di lavoro (senza però sconfinare nell'esercizio del potere
gerarchico, direttivo o disciplinare). Foodora, infatti, individuava luoghi di partenza, disponeva i
turni e imponeva tempi di consegna, lasciando però liberi i riders di auto-organizzarsi, sia dal punto
di vista degli orari di disponibilità, sia da quello dei percorsi da seguire per giungere a destinazione.
Perciò, in applicazione dell'art. 2 del Jobs Act, i riders rimarrebbero lavoratori autonomi, ma per
tutti gli aspetti riguardanti igiene, sicurezza, retribuzione (i giudici, infatti, riconoscono ai riders il
diritto di vedersi corrispondere quanto maturato durante l'attività lavorativa prestata a Foodora sulla
base della retribuzione stabilita per i dipendenti del V livello nel CCNL Logistica), limiti di orario,
ferie e previdenza si applicherebbe la disciplina del lavoro subordinato. Rimarrebbe in ogni caso
fuori la tutela contro i licenziamenti illegittimi, inapplicabile a rapporti di natura non subordinata.
Detto questo, i giudici della Corte d'Appello di Torino hanno precisato che l'applicazione dell'art. 2
non legittima l'accoglimento della domanda avanzata dai riders in via principale (cioè il
riconoscimento della natura subordinata del rapporto). Infatti, oltre alla mancanza di un potere
Food delivery e condizioni lavorative dei riders: cambiare prospettiva per equilibrare flessibilità e sicurezza
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direttivo, gerarchico o disciplinare, nella fattispecie ad hoc rileva anche l'assenza dell'obbligatorietà
della prestazione da parte dei fattorini (requisito indispensabile per aversi lavoro subordinato, ex art.
2094 c.c.).
Vediamo ora brevemente i profili delle tutele prevenzionistiche, che saranno comunque trattati più
approfonditamente nel prosieguo dell'elaborato: se prima della sentenza della Corte d'Appello di
Torino, essendo considerati lavoratori completamente autonomi, i riders godevano solamente delle
tutele previste dal d.lgs. 81/2008 (che imponeva di utilizzare attrezzature di lavoro e dispositivi di
protezione individuale conformi al Testo Unico sulla sicurezza sul lavoro e concedeva la possibilità
di avvalersi della sorveglianza sanitaria prevista nel decreto stesso e di partecipare a corsi di
formazione sulla salute e sicurezza sul lavoro), ora, essendo categorizzati come collaboratori etero-
organizzati ai sensi dell'art. 2 Jobs Act, godranno di tutte le tutele applicabili al lavoro subordinato
(designazione del responsabile del servizio di prevenzione e protezione dei rischi, nomina di un
medico competente per la sorveglianza sanitaria, ecc.).
Esauriti primo e secondo grado di giudizio, Foodora, insoddisfatta della sentenza giunta dalla Corte
d'Appello di Torino, decide di ricorrere in Cassazione, lamentando un'errata applicazione da parte
dei giudici di secondo grado dell'art. 2 del Jobs Act.
C'era ovviamente grande curiosità attorno all'ultimo capitolo del caso Foodora, ed effettivamente le
attese non sono state deluse.
I giudici di legittimità avalleranno sostanzialmente l'applicazione dell'art. 2 da parte della Corte
d'Appello di Torino, sottolineando però come le collaborazioni etero-organizzate non costituiscano
un tertium genus rispetto a lavoro subordinato e autonomo. In particolare, la Corte evidenzia come
non abbia senso interrogarsi sotto quale categoria il rapporto dei riders possa sussumersi, dal
momento che sussistono quegli indici fattuali idonei a far constatare una debolezza del lavoratore
nel rapporto. Ciò avrà una rilevante conseguenza: l'applicazione delle norme di tutela del lavoro
subordinato non può essere selettiva (quindi limitata a sicurezza, igiene, retribuzione, orario, ferie e
previdenza, come specificato dalla Corte d'Appello), ma generalizzata a tutti i campi di tutela del
lavoro subordinato.
La Corte di Cassazione coglie l'occasione della sentenza n. 1663 anche per approfondire cosa si
intende per etero-organizzazione. Secondo la Corte, caratteristica principale dell'etero-
organizzazione consiste nel potere unilaterale del committente di imporre le modalità del
coordinamento; quindi, laddove le modalità di coordinamento saranno stabilite di comune accordo
tra le parti, la collaborazione non sarà disciplinata dall'art. 2, mentre quando saranno determinate
unilateralmente dal committente, ricadranno sotto la sua disciplina.
In futuro sarà compito dei giudici inquadrare le fattispecie ad hoc in una delle due caselle
individuate dalla Corte.
Prima di andare a vedere gli interventi legislativi sul tema riders, può essere utile soffermarsi su
alcune pronunce di tribunali esteri in merito, partendo dalla Corte d'Appello di Parigi (a novembre
2017), che aveva posto l'accento sulla libertà dei riders di selezionare i propri turni, riconducendo,
quindi, il rapporto ad una natura autonoma.
Di opinione contraria sarà la Corte di Cassazione di Parigi (novembre 2018), che, partendo dal
presupposto che la piattaforma digitale oggetto della sentenza (Take Eat Easy) esercitava un potere
sanzionatorio attraverso un meccanismo di bonus-malus e si avvaleva della geo-localizzazione dei
riders come metodo di controllo, ha ricondotto la fattispecie ad hoc sotto quella del lavoro
subordinato.
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Dello stesso avviso un giudice di Valencia (giugno 2018), che, facendo leva sul fatto che il tracciato
ed i tempi di consegna dei riders potevano essere rilevati via GPS e che i fattorini necessitavano
della piattaforma per svolgere il lavoro (non disponendo di una propria organizzazione), ha propeso
per la subordinazione.
Esaminate le principali pronunce giurisprudenziali sul tema del food delivery, sia a livello nazionale
che estero, passiamo ora a esplorare l'aspetto legislativo della faccenda.
Seguendo un ordine cronologico, la legge regionale 4/2019 del Lazio è il primo intervento a livello
locale in Italia sulla questione riders (eccettuando la Carta di Bologna, che come abbiamo visto, è
stata firmata dal Comune stesso). Approvata in data 20 marzo 2019, tale legge mira ad uno sviluppo
responsabile dell'economia legata alle piattaforme digitali, cercando di proteggere i relativi
lavoratori a prescindere dalla natura del rapporto (autonoma o subordinata) che li lega al datore di
lavoro. Gli strumenti di cui si dota la Regione per raggiungere tali finalità sono un portale del lavoro
digitale (composto dall'anagrafe regionale del lavoro digitale e dal registro regionale delle
piattaforme digitali), una Consulta dell'economia e del lavoro digitale, che funge come organismo di
consultazione, un programma annuale degli interventi da effettuarsi in materia di lavoro digitale e
dei protocolli d'intesa con INPS ed INAIL per le tutele assicurative e previdenziali.
Meno di quattro mesi più tardi, è stata pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale dell'UE dell'11 luglio la
Direttiva 2019/1152 relativa alle condizioni di lavoro trasparenti nell’area comunitaria (da recepire
in Italia entro il 1° agosto 2022). Concepita in origine per tutelare i lavoratori più precari (specie
quelli delle piattaforme digitali), secondo molti ha deluso le aspettative. Infatti, mentre l'idea
iniziale di Commissione e Parlamento era quella di estendere il più possibile l'ambito di
applicazione (con tutele quali la trasparenza in tema di orari di lavoro, di retribuzione e di durata del
contratto, e il diritto per i fattorini di ricevere il proprio compenso anche in caso di cancellazione
all'ultimo minuto dell'incarico), in seguito all'opposizione di vari Stati membri si è deciso di andare
a regolare solamente il campo del lavoro subordinato; anche se, è da tenere in conto, che la
Direttiva fa riferimento alla nozione di lavoro subordinato fatta propria dalla Corte di Giustizia
europea, che è ben più ampia rispetto a quelle adottate dai vari ordinamenti nazionali.
Ultimo, e sicuramente più importante, testo legislativo da esaminare in materia è il D.l. 101 del 3
settembre 2019, convertito con la legge 128 del 2 novembre 2019. Tale intervento normativo aveva
una duplice finalità: tutelare categorie deboli di lavoratori (come i riders ed i disabili) e arginare due
imponenti crisi industriali in corso in quel momento, cioè quelle di Whirlpool e Ilva.
Le tutele dei ciclo-fattorini sono contenute nell'art. 1 del decreto, il quale va a modificare il sopra
discusso art. 2 del Jobs Act, rendendolo applicabile anche ai rapporti di collaborazione che si
concretano in prestazioni prevalentemente personali (e non più solo esclusivamente personali) ed
eliminando il riferimento ai tempi e luoghi di lavoro nell'ambito dell'organizzazione del
committente. Inoltre, viene espressamente statuito che il riformato comma 1 dell'art. 2 si applicherà
anche alle prestazioni di lavoro organizzate mediante piattaforme digitali.
Tuttavia le innovazioni introdotte dal D.l. 101 del 3 settembre 2019 non finiscono qui. Viene infatti
inserito un capo totalmente nuovo all'art. 47 del Jobs Act, intitolato “Tutela del lavoro tramite
piattaforme digitali”. Questo prevede una specifica disciplina per i lavoratori autonomi che
svolgono attività di consegna, in ambito urbano e con l'ausilio di velocipedi o veicoli a motore,
attraverso piattaforme anche digitali (tuttavia l'entrata in vigore degli artt. 47-quater, riguardante la
retribuzione, e 47-septies, riguardante la copertura assicurativa obbligatoria INAIL, è prevista solo
per il novembre 2020).
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Risulta a questo punto chiaro come il Governo, mediante tale intervento, sia voluto andare a tutelare
i rapporti di lavoro dei riders in ogni loro configurazione possibile: infatti, in presenza di un
contratto di lavoro autonomo, il lavoratore potrà essere tutelato quali che siano le modalità di
organizzazione del rapporto. Nel caso sia etero-organizzato (e quindi con i caratteri visti sopra)
ricadrà sotto l'egida dell'art. 2 del Jobs Act, con la conseguente integrale applicazione della
disciplina del rapporto di lavoro subordinato; mentre, qualora non abbia i requisiti dell'etero-
organizzazione, sarà disciplinato dal nuovo capo V-bis dell'art. 47 Jobs Act, specificamente volto a
tutelare quei lavoratori non in regime di etero-organizzazione, ma comunque bisognosi di
protezione. Ovviamente le tutele disposte mediante questo nuovo capo, creato ad hoc per i riders,
non sono parificabili a quelle derivanti dall'applicazione della disciplina del lavoro subordinato, ma
senza dubbio costituiscono un primo passo per colmare una lacuna legislativa fin troppo rilevante in
una società sempre più digitale come la nostra.
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Il problema delle tutele
L'emergenza sanitaria relativa al Covid-19, ha portato nuovamente sotto i riflettori un tema che è
stato sempre molto sentito dall’opinione pubblica ovvero quello delle tutele nello svolgimento
dell’attività lavorativa.
Nonostante la pandemia abbia comportato gravi perdite economiche per il nostro Paese, non tutti i
settori sono stati colpiti allo stesso modo, infatti il volume di affari delle società di delivery è
cresciuto esponenzialmente. Basti pensare che, secondo alcune stime, nelle regioni italiane in cui
era permesso, il 30% dei titolari di ristoranti che fruivano delle piattaforme digitali collegate a varie
società di delivery sono rimasti aperti solamente per garantire il servizio di consegna del cibo
durante il lockdown. Si stima inoltre che questo trend possa continuare a crescere anche dopo la
fine della pandemia in quanto gli utenti, proprio a causa di quest’ultima, hanno iniziato a modificare
le proprie abitudini avvicinandosi sempre di più al mondo degli acquisti e degli ordini online.
L’aumento delle transazioni digitali utilizzando lo smartphone al posto del classico volantino
promozionale, infatti, non va ad inficiare il movimento all’interno delle sale dei ristoranti in quanto
si tratterebbe di un reddito aggiuntivo e non “sostitutivo”.
Ciò che rende ancora più chiaro il potenziale economico di queste piattaforme digitali si ravvisa nel
fatto che i ristoranti hanno delle spese fisse per il noleggio dell’hardware e che, in media, in quanto
intermediari tra il cliente e il ristoratore, trattengono anche fino al 35% dall’ammontare complessivo
dell’ordine. Stando alle statistiche della Federazione Italiana pubblici esercenti (Fipe), le varie
società di delivery, tra le quali Glovo, Just Eat, Foodora, UberEats e Deliveroo, hanno permesso ai
ristoratori italiani di incassare una somma pari a quasi 500 milioni di euro; al momento, le entrate
che scaturiscono dalla consegna del cibo sono minori rispetto a quelle che derivano dalla
somministrazione classica, ma si prevede un aumento del fatturato che potrebbe sfiorare anche i 2.5
miliardi di euro entro la fine del 2020.
Ancora prima dello scoppio della pandemia, la categoria dei riders lamentava pessime condizioni
lavorative; non sono rari infatti i casi di aggressione fisica durante il loro turno di lavoro, allo scopo
di rubare il denaro contante eventualmente raccolto durante il servizio o addirittura il cibo
trasportato. A ciò, si aggiunga un altro problema: quello dei lavoratori stranieri irregolari. In Italia,
ad oggi, ci sono almeno 3,5 milioni di lavoratori che operano con contratti precari e con forme di
prestazione atipiche o discontinue. Con l’imminente ingresso in quella che verrà definita “la quarta
rivoluzione industriale”, si prevede un’ulteriore espansione di questo fenomeno. Secondo recenti
stime, a causa delle riorganizzazioni industriali si perderanno 5 milioni di posti di lavoro e a quel
punto le scelte possono essere quelle di re-inventarsi come freelance o di sottostare al sistema dei
contratti a termine da dipendente per le figure più “professionalizzate” o, per chi non lo è, una delle
poche alternative rimanenti, sarà quella di accettare le proposte delle big della sharing economy per
lavorare come rider/fattorino accettando di sottostare a regole spesso ingiuste dettate da soggetti che
non sono sempre facilmente identificabili.
A questa categoria appartengono tendenzialmente persone di giovane età tra cui molti richiedenti
asilo e in generale persone in stato di bisogno che, attratti dal guadagno immediato e dall’orario
flessibile, sono disposti ad accettare lavori poco qualificati e con tutele limitate, pur di essere
occupati in attesa del permesso di soggiorno entrando così nel mondo del “caporalato digitale”.
Questa forma di sfruttamento è direttamente collegato alle piattaforme digitali, ovvero dei
contenitori virtuali che permettono all’azienda di inserire ed offrire le proposte di lavoro;
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potenzialmente questo meccanismo dovrebbe garantire un alto grado di tutela per il lavoratore in
quanto, non essendo esso in prima persona ad offrirsi, non correrebbe il rischio di svendere la
propria professionalità ma, nella pratica, accade l’opposto e si apre una guerra al ribasso delle
tariffe previste per i fattorini.
Sono ravvisabili almeno due forme di caporalato. La prima di carattere più trasversale e sussidiario:
un soggetto si iscrive regolarmente ad uno dei tanti siti di food delivery, riceve l’attrezzatura
necessaria, il codice identificativo che permette il ritiro del cibo al ristorante e la consegna al
cliente, e lo cede un soggetto terzo. Il soggetto attivo, in questa fattispecie, è colui che recluta la
manodopera, ossia l’intermediario. Questa forma è molto comune nei rapporti tra immigrati che si
organizzano in questo modo per spirito di solidarietà tra connazionali. Ai fini dell’elemento
soggettivo necessario alla configurabilità del reato di caporalato, così come previsto dall’articolo
603-bis c.p, si richiede il dolo che in questa specifica ipotesi deve essere “specifico” ovvero
caratterizzato dall’intenzione di destinare la manodopera al lavoro presso terzi e in condizioni di
sfruttamento.
Sempre nel caso della prima ipotesi, una seconda forma che si va a creare è invece tra italiani ed
immigrati. Considerando che per un immigrato spesso avere tutti i documenti necessari
all’iscrizione al sito risulta complicato, questo compito viene sopperito da un complice italiano il
quale, dopo essersi registrato a suo nome, vende la propria sottoscrizione al primo proponendola
come una offerta di lavoro indiretta. La riuscita di questa pratica scorretta spesso è facilitata
dall’inerzia delle aziende che, pur di fatto ripudiando ogni forma di caporalato, difficilmente si
attivano con una denuncia preferendo un approccio più “soft” che consiste nella semplice chiusura
dell’account e nella perdita del codice identificativo. Inoltre, considerando che la società non può in
alcun modo sapere chi stia utilizzando il device, in quanto non sono informazioni alle quali può
accedere se non in modo illecito (spionaggio), la diffusione del fenomeno in questione è resa ancor
più semplice.
Va da sé che, in caso di contagio nel periodo pandemico o, nel caso di infortunio sul lavoro, nessun
rider potrebbe far valere le tutele che spetterebbero al dipendente regolarmente registrato sulla
piattaforma digitale. Non a caso, in caso di incidente, il caporale si assicura di non far intervenire
ambulanze o forze dell’ordine con conseguenze spesso fatali per il malcapitato. Oltre al
corrispettivo derivante dalla vendita dell’account, il cedente chiede anche una percentuale sulle
consegne.
La seconda forma di caporalato è quella che avviene direttamente tra l’azienda e il fattorino, cioè
colui che utilizza, assume o impiega manodopera, ovvero il datore di lavoro che è l’utilizzatore
finale dei dipendenti. In questa seconda accezione, a differenza della prima, viene richiesto il dolo
“generico”: il datore di lavoro deve essere consapevole della condizione di sfruttamento cui
sottopone i lavoratori.
Il caporalato viene accentuato anche dalla tendenza di sostituire le società “concrete” con
applicazioni/piattaforme digitali o con appalti di gestione che spesso rendono difficoltoso il compito
di andare ad individuare i soggetti che ci lavorano dietro o che perpetuano queste forme di
sfruttamento. Basti pensare al caso in cui una società di delivery deleghi la gestione dei riders ad
un’altra entità per scongiurare il rischio di ricadere nell’ipotesi del dolo generico e camuffare ogni
forma di sfruttamento.
Esplicativo del caso è la vicenda che ha portato al commissariamento di UberEats, la nota società di
logistica legata al colosso statunitense Uber, per il reato di “intermediazione illecita e sfruttamento
Food delivery e condizioni lavorative dei riders: cambiare prospettiva per equilibrare flessibilità e sicurezza
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del lavoro”. Le indagini della Guardia di Finanza hanno portato alla scoperta di ipotesi di caporalato
perpetuate da “Flash Road City”, società terza che ha ricevuto l’appalto da Uber, nei confronti di
alcuni riders attraverso messaggi minatori scovati all’interno del gruppo Whatsapp dei riders
torinesi. Tutto è nato dalla condotta tenuta da alcuni riders che, rifiutandosi di lavorare in alcune
particolari fasce orarie, hanno ricevuto messaggi intimidatori da parte dei loro datori di lavoro dai
quali emergevano diverse minacce tra cui decurtazioni di 50 centesimi a consegna, nel caso in cui le
consegne fossero state inferiori al 95% degli ordini. Considerando che la paga ammontava a
3/3,50€, la quale non teneva conto della distanza da percorrere, spesso lunga e insidiosa nelle
maggiori città italiane, specialmente negli orari di punta, il trattamento appare sproporzionato.
Per quanto attiene alle mance, se queste fossero state consegnate direttamente al fattorino non vi
sarebbero stati problemi ma, nel caso in cui fossero state somministrate tramite applicazione una
parte di esse veniva incassata dall’azienda.
Sempre all’interno di alcune chat su Whatsapp, sono state evidenziate diverse conversazioni
intercorse tra manager di Uber e gli amministratori delle società intermediarie, nelle quali si parlava
di “sentinelle” da piazzare in punti strategici che consentissero di controllare i riders e di sanzionarli
se sorpresi a non lavorare.
La risposta dei sindacati al problema, nonostante la volontà di proteggere la categoria, non può
essere considerata risolutiva visto che la loro proposta consiste nell’applicazione della
contrattazione collettiva che però, a causa delle situazioni esposte, specialmente quella dei
lavoratori stranieri, presta il fianco ad uno spazio dai confini incerti che permette la penetrazione di
forme di regressione delle tutele lavorative portando ad ipotesi di sfruttamento non più accettabili in
una società moderna ed evoluta come la nostra.
Siamo in presenza di un lavoro flessibile, praticato da una fetta di lavoratori molto diversi tra loro e
dai confini ambigui rispetto al classico lavoro subordinato e che perciò necessita di una
regolamentazione ad hoc. Non a caso, il numero di riders iscritti regolarmente a sindacati sono un
numero basso in quanto le loro esigenze ed il loro sentirsi “autonomi” contrasta con la soluzione
poco innovativa proposta dal sindacato. Per questo, il rider preferirebbe avere la possibilità di
contrattare direttamente con l’azienda senza l’intermediazione sindacale.
Nonostante in alcune città come Milano siano sorte associazioni di tutela efficaci, spesso per loro è
difficile raggiungere l’intera categoria per via dei contratti atipici utilizzati dalle società di delivery,
o dalla mancanza degli stessi nelle ipotesi di caporalato, che spesso si tramuta in una chiusura totale
dei fattori nel loro mondo che sempre più spesso ricorrono ad ipotesi di auto-organizzazione.
La naturale conseguenza è che la politica, di fronte ad una scarsa rappresentanza della categoria,
non riesce a mettere in atto dei piani regolatori che siano efficaci e che vadano ad allineare il gap
normativo.
La situazione complessiva suggerisce l’ipotesi che, le già scarse tutele previste per i riders prima
della pandemia, durante il lockdown si siano accentuate e in alcuni casi si siano create addirittura
nuove ipotesi di mancata tutela. La situazione così delineata, fa intendere chiaramente che si stia
andando incontro, sull’ondata della gig economy, a nuove forme di precariato.
Un’altra mancata forma di tutela è implicita nelle modalità di assunzione del ciclo-fattorino.
Per candidarsi bastano pochi minuti, si svolge tutto online, ed entro le successive 24 ore si ha l’esito
della selezione e, in caso positivo, tutto il materiale necessario (pettorina, cassone o borsa per le
consegne, power banks, supporto smartphone da polso) ti viene spedito direttamente a casa dietro
pagamento di una tantum o in comodato d’uso gratuito. In considerazione del fatto che stiamo
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parlando di un lavoro fisico, sarebbero necessari dei controlli medici da parte delle aziende o
almeno dei certificati di sana e robusta costituzione reperibili dal medico di base. Se ad esempio
venisse assunto un rider, che poi effettivamente non dovesse trovarsi nelle condizioni fisiche
ottimali per svolgere la propria mansione, ci sarebbero una serie di conseguenze negative non solo
sul lavoro ma indirettamente anche nei confronti dell’azienda.
La scelta del mezzo di trasporto è tendenzialmente libera ma tutti i costi di acquisto o manutenzione
sono a carico del fattorino. È facile immaginare quindi che molti riders lavorano con mezzi in
cattive condizioni meccaniche (scooter o bicicletta con impianto frenante rovinati) o con dotazioni
insufficienti come ad esempio la mancanza degli strumenti di illuminazione e acustici per rendersi
visibile in strada; tutto ciò spesso è causa di molte lamentele da parte degli utenti della strada che,
specialmente la sera, vedono i riders sfrecciare in strada senza nessun presidio alla guida, spesso
viaggiando contromano o stazionando sul marciapiede. Situazione in parte appianata dalla
pronuncia emersa in Procura a Milano a settembre 2019 che ha attivato i controlli ed il sequestro
delle biciclette non a norma utilizzate dai riders. È recentemente nato a Bari un progetto chiamato
“riders on the storm” che si presenta come un luogo in cui poter ricevere assistenza e manutenzione
del mezzo. Non sono rare, infatti, le lamentele di riders che spesso chiedono che almeno parte dei
costi di manutenzione del mezzo siano a carico della società di delivery visto che a volte gli introiti
non sono sufficienti per mantenere il mezzo funzionante.
Bisogna anche dire che nonostante alcune società, come ad esempio Deliveroo, abbiano aumentato i
massimali per le spese mediche e gli infortuni sul lavoro, al di fuori di questi ogni danno arrecato a
sé o ad altri rimane a carico del rider. Un'importante svolta in tal senso è quella che impone
l’obbligo per le società di delivery di iscrivere i fattori all’INAIL entro il 1 febbraio 2020. Se
l’impresa non gode già di una posizione assicurativa territoriale (PAT) dovrà inviare
telematicamente all’INPS la denuncia di iscrizione al registro con tutte le informazioni necessarie
alla quantificazione del rischio e al computo del premio assicurativo per ogni attività, ivi compresa
quella svolta dal rider, avendo cura di indicare anche il mezzo utilizzato dallo stesso.
Diverso il caso nel quale l’impresa sia già registrata in quanto dovrà solamente trasmettere la
comunicazione di variazione delle attività inserendo quella svolta dai fattorini anche qualora fossero
inquadrati come lavoratori autonomi.
Se la questione dell’assicurazione appare normativamente regolata e chiara, diverso è il discorso
sulla retribuzione, in quanto essa dipende non solo dalla forma contrattuale stessa (lavoratore
autonomo a partita IVA o dipendente), ma anche dal mezzo utilizzato per le consegne e dal
giorno/fascia oraria di consegna.
Partendo da un'analisi effettuata a livello Europeo dall’Eurofound (Fondazione Europea per il
miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro), si nota come in Svezia i fattorini siano pagati
rispettivamente 11 euro all’ora durante la settimana e 13 nei fine settimana (anche se in questo caso
occorre tener conto dell’alto costo della vita). Diverso in Francia che, per incentivare il lavoro
durante il weekend sono pagati 7,50 nei giorni feriali e 11,50 nel fine settimana + 2 euro di bonus a
consegna. In Italia invece la ricerca di Eurofound si concentra su due compagnie Deliveroo e
Foodora (quest’ultima prima dell’acquisizione da parte di Glovo). In Foodora un rider guadagna 8
euro all’ora e 4 a consegna mentre Deliveroo, inserendo di fatto un rimborso carburante implicito,
paga 7 euro a chi si muove in bici e 8.50 euro per chi va in motorino/scooter.
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Anche dall’analisi del sito “Jobbydoo” emerge che lo stipendio medio di un rider è di 850 euro netti
al mese (7,50 euro lordi all’ora): una somma inferiore di circa 700 euro (-45%) rispetto al salario
medio italiano con possibilità di carriera essenzialmente nulle.
L’ex Ministro del Lavoro Luigi Di Maio aveva fatto della lotta per l’ottenimento di migliori tutele
verso i riders uno dei punti principali del suo programma elettorale: in particolare chiedeva che
venissero inquadrati come lavoratori dipendenti nonostante questi soggetti siano un gruppo molto
eterogeneo, tale da comportare l’impossibilità di riconduzione sotto un'unica categoria.
Dopo una lunga trattativa, con la forte opposizione dei colossi del delivery, il Decreto Rider ha
stabilito la possibilità per il rider di essere inquadrato nel CCNL Logistica, di avere accesso
all’assicurazione obbligatoria INAIL e di avere una retribuzione risultante da un mix tra cottimo e
paga oraria. La soluzione oltre a lasciare scontente le società di delivery non ha incontrato
nemmeno il favore di alcuni riders dal momento che alcuni di loro, facendolo come secondo lavoro,
ritengono la flessibilità una condizione essenziale. O ancora, ci sono riders che vogliono mantenere
il cottimo per non avere una soglia massima di guadagno o anche per poter decidere in quale
periodo dell’anno lavorare e guadagnare di più.
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E le aziende?
Il momento che stanno attraversando le aziende che gestiscono le diverse piattaforme di food
delivery non è facile da decifrare. Tra i principali protagonisti della rivoluzione della gig economy, i
vari Deliveroo, Glovo, UberEats hanno infatti avuto un impatto travolgente su un settore, quello del
food delivery appunto, già esistente nel panorama italiano ma che nelle sue forme tradizionali mai
aveva ottenuto peso e numeri tali da consentirgli di acquisire una rilevanza degna di nota.
A partire dai primi anni 2010, però, l’avvento delle nuove tecnologie ha aperto nuove possibilità per
il settore, rivoluzionandolo e rinnovandolo a fondo. L’apparizione delle prime piattaforme digitali
(JustEat su tutte) ha segnato l’introduzione del primo dei due principali modelli di business esistenti
nel mercato attuale, ovvero quello dell’intermediazione: gli operatori che adottano questa forma si
occupano di mettere in contatto clienti e ristoranti, senza però occuparsi direttamente della delivery,
per la quale rimangono invece responsabili gli stessi ristoratori. Quest’ultimo aspetto permette agli
intermediari di contenere i costi, tuttavia il funzionamento di tale sistema è fortemente condizionato
dalla capacità dei locali partner di gestire autonomamente l’attività di delivery, cosa che esclude
forzatamente tutti gli altri.
Dopo qualche anno, al modello sopra citato se ne è aggiunto un altro, che vede i gestori delle
piattaforme che l’hanno adottato (per citare i principali, Foodora, Deliveroo, Glovo) nelle vesti di
veri e propri fornitori di servizi logistici più che di semplici intermediari, in quanto si occupano
anche di gestire direttamente le consegne. Rispetto alla forma dell’intermediazione, a scapito della
quale è parsa rapidamente affermarsi, quella in oggetto porta con sé il vantaggio di ampliare
notevolmente il novero dei potenziali partners, ma comporta per contro dei costi di gestione
nettamente superiori.
Dato il contesto, dopo un iniziale periodo “movimentato” che ha visto la nascita e la rapida ascesa
(ed in alcuni casi anche il repentino declino, vedi il caso di Foodora) a livello locale ed
internazionale di nuove aziende di food delivery, la situazione attuale si presenta piuttosto stabile.
Vi sono dei players definiti e consolidati a fare da traino ad un comparto che nel 2019 ha visto una
crescita del 56% rispetto al 2018, con un valore generato di 566 milioni di euro, ma che ancora non
è in grado di far fronte ai costi elevati che gravano sui bilanci delle aziende, costringendole a
dipendere dagli investimenti provenienti dall’esterno e ad attuare decise politiche di contenimento
delle spese.
Se però, l’adozione di modelli di business innovativi e basati su tecnologie all’avanguardia è stato il
fattore che più ha inciso sulla notevole capacità di imporsi da parte di queste realtà, dall’altra sono
proprio questi tratti rivoluzionari e difficilmente inquadrabili secondo i canoni classici dell’industria
e del diritto a determinarne le difficoltà attuali, in particolar modo per quanto riguarda le critiche
riguardo alla gestione del rapporto di lavoro dei riders, nonostante il riconoscimento del merito di
aver creato un notevole numero di nuove opportunità di lavoro.
Nell’infuriare del dibattito attorno alle varie questioni che li hanno visti nell’occhio del ciclone, i
principali players italiani del settore food delivery si sono dimostrati capaci di mettere da parte ogni
rivalità commerciale (si tratta pur sempre di concorrenti) e di affrontare le critiche in maniera
compatta ed unitaria, al contrario invece di quanto talvolta pare accadere al fronte “opposto” dei
riders.
Tale situazione ha trovato una concreta manifestazione nella nascita nel 2018 di Assodelivery,
un’associazione di rappresentanza che ha riunito sotto un’unica insegna tutte le principali
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piattaforme di food delivery operanti sul territorio italiano, ovvero Deliveroo, Glovo, UberEats,
JustEat e SocialFood, arrivando a rappresentare oltre il 90% del mercato. Queste aziende hanno
quindi deciso di adottare un basso profilo sul merito, limitando al minimo ogni presa di posizione a
riguardo e affidando ad Assodelivery il compito di esprimere la loro posizione sui punti più
“scottanti” del dibattito. In particolare, ciò è avvenuto in occasione delle audizioni tenutesi in
Parlamento legate alla genesi del d.lgs. 101/2019 e, invero, in poche altre occasioni. Il Presidente
dell’associazione e principale portavoce è Matteo Sarzana, General Manager di Deliveroo Italia; le
sue dichiarazioni, rilasciate nel corso di diverse interviste ed audizioni presso le Istituzioni,
rappresentano pertanto una delle poche attendibili fonti che consentono di comprendere la posizione
delle maggiori aziende del comparto sui temi più controversi.
Come detto, la linea adottata da Assodelivery è quella di mantenere un profilo basso e
particolarmente chiuso, rifiutando di concedere interviste in contesti potenzialmente “svantaggiosi”
(tali rifiuti sono stati ad esempio resi noti dalla nota trasmissione televisiva Report). Nelle poche
dichiarazioni che sono state rilasciate, la posizione delle aziende ruota attorno ad alcuni aspetti
ricorrenti.
Un primo punto sul quale l’associazione rappresentativa delle aziende di delivery insiste con
decisione è il rifiuto dell’accusa di sfruttare e sottopagare i lavoratori. Tale nomea sarebbe, a detta
di Sarzana, sostanzialmente frutto di un malinteso, di un’incapacità del legislatore (e da quella parte
ostile dell’opinione pubblica) di comprendere le esigenze e le nuove sfide di un’industria nuova e
ricca di opportunità: “Siamo davanti a un’industria innovativa che sta creando ricchezza e
occupazione in tante forme in un settore che continuerà a crescere: abbiamo 400 occupati diretti,
collaboriamo con 20 mila rider e abbiamo un indotto di oltre 5 mila occupati. Senza dimenticare il
business aggiuntivo creato nella ristorazione che, nel 2019, vale quasi 600 milioni di euro e che
continuerà a crescere nei prossimi anni. Serve responsabilità e maturità per tutelare gli interessi dei
lavoratori e delle imprese, evitando interventi restrittivi, non necessari e soprattutto dannosi, perché
determinerebbero conseguenze negative non solo sulle imprese, ma anzitutto sui lavoratori. Il
governo si apra all’innovazione e al mondo del lavoro che cambia”.
L’idea che sta alla base di queste dichiarazioni è chiara: il mercato del food delivery rappresenta
un’opportunità per tutti, sia per le aziende che per i numerosi lavoratori, che grazie ad esse hanno
trovato un’occupazione. Ciò è possibile a patto di non renderlo eccessivamente vincolato ed
irrigidito da una normativa ancorata a principi desueti che mal si adatterebbero alle sue
caratteristiche, finendo con il danneggiare in primo luogo gli stessi riders che vedrebbero così
svanire tutti i vantaggi che questo tipo di occupazione offre loro.
Infatti, è convinzione di Assodelivery che proprio gli aspetti oggetto delle critiche più feroci, ovvero
il contratto di lavoro autonomo e la retribuzione a cottimo, rappresentino in realtà i veri vantaggi
per gli stessi lavoratori. Il primo garantisce una flessibilità che si adatta alla perfezione al profilo
medio del rider secondo quanto sostenuto dalle stesse piattaforme: “Oggi ci sono 20 mila
collaboratori che fanno questo lavoro, nella maggior parte dei casi per meno di 6 mesi. Sono ragazzi
che stanno studiando per laurearsi, che con i compensi si pagano una vacanza e che non desiderano
essere assunti. Sono padri e madri di famiglia che hanno già un lavoro e integrano le loro entrate
attraverso questa attività. Queste due categorie rappresentano oltre il 75% delle collaborazioni
esistenti.
Si tratterebbe, quindi, di categorie di persone attratte dalle opportunità lavorative offerte dal settore
del food delivery proprio perché non caratterizzato dalla rigidità della subordinazione, non
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rappresentando la loro principale occupazione e fonte di reddito: non esistono orario o sede fissi di
lavoro, il rider può liberamente concordare i propri turni di lavoro, rifiutarsi di effettuare una
consegna, decidere in che zona della città operare.
Legata all’esigenza di flessibilità ed altrettanto attraente per i rider sarebbe la caratteristica della
retribuzione a cottimo. Tale forma di retribuzione viene preferita a quella legata ad uno stipendio
fisso in considerazione del fatto che si andrebbe in tal modo a premiare il merito: più lavori più
guadagni. Non uno strumento di sfruttamento quindi, quanto piuttosto un sistema che va a tutto
vantaggio dei lavoratori più virtuosi, che invece verrebbero sensibilmente danneggiati dalla
previsione di uno stipendio minimo come previsto dalle nuove norme introdotte con il d.l.
101/2019:
“La normativa prevede un meccanismo complesso e poco chiaro per il calcolo dei compensi dei
rider che a nostro parere va superato, in favore di un ulteriore sviluppo del mercato e di guadagni
adeguati al lavoro svolto. Il compenso orario, secondo la norma, è legato al valore della prima
consegna e non si potrà andare oltre il doppio. Bloccherà la possibilità di guadagnare di più e
porterà a una disincentivazione di merito ed efficienza. La soluzione - prosegue Sarzana - è pertanto
quella di eliminare il concetto di prevalente, così come è stato introdotto nel decreto-legge”.
A supporto di queste posizioni, viene citato in diverse interviste un sondaggio svolto per conto di
Assodelivery da parte di un ente terzo, la società SWG, che riporta un indice di soddisfazione della
condizione lavorativa da parte dell’89% dei riders: sulla base di questi dati viene ribadita la
convinzione di stare operando nella maniera corretta e di non rilevare valide ragioni per cambiare
linea.
Un ultimo aspetto riguarda la sicurezza dei ciclo-fattorini, altro aspetto per il quale le aziende del
comparto sono state al centro di aspre critiche. Si è spesso sostenuto, infatti, che non venisse fornita
alcun tipo di assicurazione (o comunque molto scarsa) ai riders in caso di infortunio e danni verso
terzi. Anche in merito a ciò, la posizione di Assodelivery è quella di totale respingimento delle
accuse: tutte le aziende associate, infatti, prevedono delle assicurazioni in caso di tali eventi.
In conclusione, tuttavia, le aziende di food delivery si dichiarano consapevoli dell’esistenza di una
contrapposizione, all’interno del mercato del lavoro di oggi, tra esigenze di flessibilità e sicurezza e
che sono difficilmente conciliabili alla luce delle normative vigenti; si tratta di un problema non
solo italiano che aziende come ad esempio Deliveroo si dicono disponibili ad affrontare fornendo
piena collaborazione ai diversi governi coinvolti.
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L’emergenza Covid-19
Le problematiche relative all’assenza di un’adeguata e uniforme regolamentazione per la
condizione lavorativa dei riders sono tornate ad essere attuali nel corso dell’emergenza sanitaria del
Coronavirus durante il quale i riders sono stati fortemente esposti al rischio del contagio, essendo
una delle poche professioni ad aver continuato a lavorare anche durante il lockdown. Infatti,
nonostante la situazione di emergenza, le società di delivery hanno da subito rassicurato i propri
clienti garantendo il servizio di consegne a domicilio anche durante il periodo di quarantena, nel
rispetto delle necessarie precauzioni e delle condizioni di sicurezza imposte dal governo.
Dopo un calo iniziale della domanda all’inizio della quarantena, dovuto al timore e all’incertezza
della situazione, nonché al maggior tempo che gli italiani hanno potuto dedicare alla cucina
casalinga, si è successivamente assistito a un forte boom della domanda del food delivery che ha
portato le aziende a ricorrere ad assunzioni di massa per bilanciare l’aumento delle richieste di
ordini online. In base ai risultati della ricerca condotta dall’Osservatorio nazionale di JustEat, per il
primo mese e mezzo del lockdown il 90% degli intervistati (nei quali vanno ricompresi non solo le
persone che ordinano da casa ma anche i ristoranti che utilizzano le piattaforme digitali per
effettuare le consegne a domicilio) avrebbe considerato il food delivery come un servizio di natura
essenziale. Circa il 60% del campione intervistato ha dichiarato anche di aver ordinato a domicilio
durante il periodo di lockdown, mentre coloro che non ne hanno usufruito, hanno motivato la loro
scelta dichiarando di aver voluto approfittare del tempo in casa per dedicarsi alla cucina. È inoltre
aumentata la richiesta di attivazione del servizio da parte di ristoranti che non lo utilizzavano in
precedenza ma che, in tale situazione, hanno visto nel food delivery un’opportunità per continuare il
proprio business nonostante la chiusura.
Se da una parte l’opinione pubblica ha riconosciuto il prezioso contributo fornito dai riders durante
questo periodo, non sempre le autorità si sono dimostrate altrettanto riconoscenti: noto è infatti il
caso, avvenuto a Pisa, di un gruppo di fattorini che, alla fine del turno di lavoro, sono stati multati
per essersi avvicinati troppo tra loro senza rispettare la distanza di sicurezza.
Degno di nota anche il caso del rider che, prestando servizio nella zona di Bresso, vicino Milano, si
è visto comminare una multa di 533 euro per aver cercato di ottimizzare i tempi di consegna
attraversando un parco pubblico chiuso secondo quanto previsto dal decreto ministeriale.
Non pochi sono stati inoltre i problemi organizzativi che i riders hanno dovuto affrontare a causa
della situazione di emergenza: ad esempio, si sono ritrovati spesso a dover percorrere lunghi tratti in
bicicletta per raggiungere il ristorante indicatogli dalla piattaforma, per poi trovarlo chiuso a causa
della mancata segnalazione nell’app della sospensione dell’attività; in altri casi invece, vista
l’elevata richiesta di cibo da asporto, davanti ai ristoranti si sono formate lunghe file di fattorini che
non hanno permesso il rispetto delle norme sul distanziamento.
Non sono mancati segnali di sensibilità da parte delle varie aziende verso la categoria dei riders;
UberEats e Deliveroo, ad esempio, hanno proposto un rimborso individuale di 25 euro sull’acquisto
di mascherine ma, nonostante le buone intenzioni, il risultato non è stato quello sperato: bisogna
infatti considerare che nel pieno dell’epidemia il reperimento delle mascherine è stato molto
difficoltoso; in altri casi invece, il rimborso è stato negato dal momento che, sullo scontrino fiscale,
al posto della dicitura “mascherine” era riportato “prodotti medicinali” e quindi, in quanto tali, non
coperti dal coupon.
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Un ulteriore tentativo di tutela nei confronti dei ciclo-fattorini è stato quello avviato da Deliveroo
che ha provveduto a stipulare delle coperture assicurative per i propri dipendenti nel caso di
contagio: da 30 euro al giorno fino ad un massimo di 30 giorni totali in caso di ospedalizzazione, e
fino a 1500 euro in caso di ricovero in terapia intensiva. Nonostante la bontà delle intenzioni, ci si è
scontrati con le lungaggini burocratiche, le quali per la liquidazione dell’assicurazione,
richiedevano un doppio tampone positivo a prova dell’avvenuto contagio, cosa impossibile da
ottenere nelle strutture pubbliche durante il picco dei contagi.
Va infine menzionata l’iniziativa avviata da diverse regioni del Paese che hanno provveduto a
distribuire mascherine, ma che non ha avuto i risultati sperati dal momento che una buona parte dei
riders non ha potuto usufruirne in quanto composta da immigrati che lavorano in nero e che, per
paura dei controlli, non si sono recati nei centri di distribuzione.
Al fine di garantire la tutela della salute pubblica e la sicurezza del lavoro durante il periodo di
emergenza è stato richiesto ai datori di lavoro di aggiornare il DVR (documento di valutazione dei
rischi) nell’ipotesi di “rischi specifici connessi alla peculiarità dello svolgimento dell’attività
lavorativa, ovvero laddove vi sia un pericolo di contagio da Covid-19 aggiuntivo e differente da
quello della popolazione in generale”. A partire da fine marzo, nel corso di una più ampia indagine
avviata dal pm Tiziana Siciliano sul fenomeno del food delivery, al fine di far luce sugli aspetti
critici del lavoro dei riders che si è avuto modo di considerare in precedenza, è stato richiesto alle
società di food delivery di presentare l’eventuale adeguamento del DVR al nuovo rischio del
contagio da Coronavirus e di documentare la eventuali forniture dei dispositivi di sicurezza
garantite ai propri dipendenti e ai riders, rientrando tale attività in quelle consentite anche in fase di
chiusura. Quello che tuttavia è emerso da tale indagine è che la maggior parte delle società di
delivery non hanno provveduto a adeguare il DVR alle novità previste per la situazione del Covid e
non avrebbero fornito alcun tipo di strumento di protezione, scaricando sui lavoratori stessi la
responsabilità per l’approvvigionamento di Dpi e del rischio sanitario. Dalla relazione del Nucleo
Ispettorato del Lavoro di Milano è risultato che l’unica società ad aver provveduto ad adeguare il
documento valutazione rischi ai nuovi protocolli di sicurezza, inviando ai lavoratori adeguati kit con
mascherine e guanti, sarebbe JustEat, mentre altre società, quali ad esempio Deliveroo e Glovo,
avrebbero omesso di effettuare la relativa valutazione e analisi sull’esposizione al rischio per tutti i
lavoratori, riders compresi, limitandosi soltanto a consegne sporadiche di mascherine. Sarebbe
infine stato impossibile ottenere i documenti da parte di UberEats Italy, dal momento che l’indirizzo
di posta elettronica certificata depositato in Agenzia entrate e in Camera di commercio è risultato
inibito alla ricezione delle mail, né è stato possibile risalire a cassette postali, numeri telefonici o
altri indirizzi. La società, inoltre,è risultata sconosciuta all’Inps.
In merito all’inchiesta condotta, alcune delle società di food delivery hanno replicato tramite i
propri canali ufficiali. La Foodinho srl, società riconducibile a Glovo, ha affermato che pur non
avendo aggiornato il DVR, ha provveduto alla distribuzione di adeguate mascherine. Allo stesso
modo, la società Glovo ha dichiarato di aver “distribuito attivamente nei punti nevralgici” delle città
“oltre 40mila mascherine e guanti in lattice ai riders”. Ci sarebbe stata dunque una distribuzione dei
dispositivi rapida e capillare, anche se si è dovuto far fronte a tempi di attesa più lunghi di quelli
previsti a causa delle difficoltà di rifornimento. Riguardo all’adeguamento del DVR al nuovo
rischio biologico da Covid, Glovo ha chiarito che i riders non sono stati inclusi “poiché la
normativa in merito non prevede tale obbligo per i lavoratori occasionali e/o autonomi. Gli stessi
svolgono i servizi di trasporto in regime di auto-organizzazione e sono responsabili ai sensi dell'art.
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21, comma b) del D.Lgs 81/08 delle modalità con cui svolgono la propria attività”. La società
Glovo, si legge ancora nel comunicato, si sarebbe attivata sin da subito “per informare
tempestivamente i corrieri sui comportamenti da adottare nel pieno rispetto delle disposizioni
emanate dalle autorità competenti, al fine di garantire un servizio e tutelare la salute di tutti gli attori
della filiera: riders, clienti e partners”. Anche la società Deliveroo si è esposta dichiarando che,
nonostante la mancanza dell’adeguamento del DVR, avrebbe comunque provveduto alla consegna
di mascherine ai propri riders, nonché a una policy per il rimborso sull’acquisto di queste da parte
dei fattorini e una campagna di distribuzione dei Dpi, come anche si era accennato poc’anzi in
questa sede. In relazione ai contenuti delle indagini della Procura di Milano, Deliveroo ha invece
dichiarato di aver “intrapreso numerose e importanti iniziative a sostegno dei riders e ogni notizia
che riporti il contrario è priva di fondamento. La società è andata ben oltre quello che è richiesto
dalla legge per proteggere i riders durante questa crisi e di questo siamo orgogliosi. (...) Siamo
sempre stati aperti e trasparenti con le autorità riguardo le iniziative che stiamo portando avanti a
sostegno dei riders - prosegue Deliveroo - e continueremo a farlo”. Avrebbe poi fornito alle
“Autorità Competenti, compreso il Comando Carabinieri per la Tutela del Lavoro, Nucleo
Ispettorato del Lavoro di Milano, tutte le informazioni richieste”. Il documento di valutazione dei
rischi, si legge nella nota, “è stato aggiornato sulla base delle nuove necessità, come richiesto dalla
normativa. I legali che abbiamo consultato ci hanno confermato che il DVR è destinato al solo
personale dipendente. Questa è una pratica comune per tutte le aziende. Per questo motivo non sono
stati inclusi i riders che, come è noto, sono lavoratori autonomi”. Avrebbero inoltre destinato ai
riders “importanti iniziative per la loro tutela”, tra cui il “rimborso dei dispositivi di protezione
individuale”. Le mascherine sono state “distribuite direttamente da Deliveroo come iniziativa di
responsabilità sociale, insieme alle altre piattaforme di AssoDelivery e abbiamo promosso iniziative
analoghe di enti locali, come quella intrapresa dal Comune di Milano”. Si legge ancora: “Viene
istituita una specifica procedura per assicurare il distanziamento sociale di almeno un metro e
l'assenza di contatto. La funzione viene implementata nell'app e comunicata a tutti i riders e clienti”.
Sarebbe stato inoltre garantito a tutti i riders che collaborano con Deliveroo di accedere
“gratuitamente ad un’assicurazione che li copre in caso di contagio da Covid”. In conclusione, la
società afferma poi che “sull’evoluzione dell'emergenza epidemiologica, sulle normative da
rispettare, nonché le linee guida per gestire le consegne in sicurezza”, è stata inserita un’apposita
sezione sul sito dei riders. Nonostante le dichiarazioni di Deliveroo, il 1 maggio 2020 i riders
modenesi si sono radunati in Largo Garibaldi per scioperare denunciando “un inaccettabile
mancanza di tutele salariali e di sicurezza”. Alla luce dell’intervista condotta dalla Gazzetta di
Modena i riders hanno dichiarato non solo di essere ancora in attesa dei dispositivi di protezione
promessi, ma anche che, dall’inizio dell’emergenza sanitaria, Deliveroo, nonostante l’aumento del
lavoro, avrebbe ridotto di circa il 25 % i guadagni a consegna, un fattore che, trattandosi di lavoro a
cottimo, avrebbe fortemente inciso sulla loro retribuzione. Inoltre, data la natura del loro contratto,
ovvero un contratto a prestazione occasionale, neppure avrebbero potuto rifiutarsi di lavorare dal
momento che non è stato previsto alcun tipo di supporto da parte dello Stato.
In base ai comunicati ufficiali delle varie aziende, la scelta di non adeguare il DVR ai nuovi
protocolli di sicurezza è dovuta al fatto che i riders sono da loro considerati come lavoratori
autonomi o occasionali e quindi come unici responsabili per il reperimento degli adeguati strumenti
e dispositivi di protezione. In senso contrario si sono tuttavia posti il Tribunale di Firenze e di
Bologna che, interpellati sulla questione della condizioni di sicurezza dei riders durante il
Food delivery e condizioni lavorative dei riders: cambiare prospettiva per equilibrare flessibilità e sicurezza
Master GIURISTI IN AZIENDA 2020-2021
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Coronavirus, hanno emanato due decreti che dispongono il diritto dei riders di ricevere dal
committente per cui lavorano tutti i dispositivi di sicurezza che sono necessari alla tutela del diritto
alla salute, dimostrando in questo modo di aver compreso la necessità sempre più forte al giorno
d’oggi di estendere diritti e tutela anche a quelle nuove categorie di lavoratori che, essendo legate al
nuovo mondo dell’economia digitale, non risultano ancora perfettamente inquadrate a livello
normativo.
Food delivery e condizioni lavorative dei riders: cambiare prospettiva per equilibrare flessibilità e sicurezza
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Considerazioni conclusive
L’analisi svolta nei paragrafi precedenti, ha messo in evidenza un quadro, quello del settore food
delivery, intricato e per certi versi contraddittorio.
Che esista un problema legato all’inquadramento dei riders ed alla gestione del loro rapporto di
lavoro con le aziende titolari delle piattaforme appare ormai una verità incontestabile. Per certi
versi, anzi, si può addirittura definirla di fatto incontestata, se si pensa che sul sito ufficiale di
Deliveroo si parla apertamente della necessità di collaborare con i governi dei paesi in cui opera per
giungere al superamento del “compromesso tra flessibilità e sicurezza che esiste attualmente nel
diritto del lavoro”.
Come si è avuto modo di illustrare nel presente elaborato, vi sono diverse criticità che pongono la
categoria dei ciclo-fattorini in una posizione di estrema debolezza nei confronti dei loro datori di
lavoro.
Questi, dal canto loro, sono costretti ad operare una decisa politica di contenimento dei costi per far
fronte alle spese elevate legate al funzionamento del loro modello di business, che le entrate da sole
non sono ancora in grado di coprire. Laddove vi siano margini di risparmio, le aziende cercano
quindi di sfruttarli nella misura più ampia possibile: si può ben comprendere, data la posizione di
debolezza di cui si trattava poc’anzi, come siano proprio i riders a pagare in primo luogo il prezzo
di questa politica.
Uno dei motivi principali, a nostro avviso, può ravvisarsi in primo luogo nell’equivoco che si
accompagna al concetto stesso di “gig economy”, a partire dalla sua semplice traduzione letterale:
“economia dei lavoretti”.
Si tratta di una denominazione che forse riflette nella maniera più fedele il principio che ha ispirato
la nascita delle piattaforme digitali protagoniste di tale fenomeno (e quelle di food delivery
rappresentano forse quelle più importanti all’interno di questa categoria) e che ha determinato il
fattore di innovazione e di successo attorno al quale hanno saputo costruire il proprio successo tanto
rapido quanto inarrestabile. Non a caso, la versione proposta dalle stesse aziende di delivery in
difesa delle proprie posizioni, nell’ambito del dibattito di cui qui si tratta, riguardo alla preferenza
rispetto ad un inquadramento dei riders quali lavoratori autonomi, insiste in maniera molto netta su
questo aspetto: quella del rider è un’occupazione concepita per chi è alla ricerca di un “lavoretto”,
per l’appunto, e non di un’occupazione fissa e principale: giovani studenti, o lavoratori in cerca di
un’occasione per “arrotondare” lo stipendio principale. Così configurata l’occupazione, è facile
comprendere come la richiesta di tutele e retribuzioni assimilabili a quelle proprie dei lavoratori
subordinati risulterebbe essere molto meno sacrosanta, se non addirittura esagerata. Come si
potrebbe parlare di tredicesima o di ferie pagate quando, in fondo, si parla di un lavoretto?
Il fatto che queste problematiche siano state prese seriamente in considerazione solo di recente da
parte dell’opinione pubblica e della politica è conseguenza, tra le altre cose, proprio del fatto che il
lavoro del rider fosse tradizionalmente legato a questa concezione. Solo di recente è stato possibile
rendersi conto che la realtà dei fatti è del tutto diversa: sono moltissimi ormai i ciclo-fattorini di
professione, quelli che svolgono questa attività in via principale. Se anche l’inesistenza di dati certi
in merito non renda possibile affermare con certezza che si tratti effettivamente della maggioranza,
rappresentano in ogni caso certamente una quota troppo elevata per poter continuare ad evitare di
prendere atto dell’avvenuto mutamento del panorama di partenza. Che i lavoratori del comparto
abbiano necessità di essere maggiormente tutelati e considerati appare ormai chiaro.
Food delivery e condizioni lavorative dei riders: cambiare prospettiva per equilibrare flessibilità e sicurezza
Master GIURISTI IN AZIENDA 2020-2021
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Va considerato, inoltre, che le principali realtà della gig economy hanno raggiunto dimensioni e
maturità tali da non consentire loro di perseverare nella pretesa di essere inquadrate come “giovani”
(non solo riguardo al modello di business ma anche nel senso di “composta da giovani”) imprese
emergenti che, come tali, possono godere di una generale considerazione in termini positivi da parte
di politica ed opinione pubblica: in un contesto riconosciuto come tradizionalmente “vecchio” ed
allergico ad ogni tipo di innovazione come quello italiano, giovani imprese che abbiano avuto la
capacità di imporsi, nonostante tutto, vengono di norma esaltate come esempi virtuosi che
necessitano di supporto e non di vincoli che possano arrestarne la crescita. Per le aziende di food
delivery, questa particolare sorta di “credito” reputazionale pare essersi ormai esaurito e la linea da
loro adottata nei confronti delle richieste dei riders, caratterizzata da una certa rigidità e chiusura
(tratti, questi, generalmente intesi come lontani dalla mentalità di aziende giovani e moderne),
appare sempre meno comprensibile agli occhi del pubblico, quindi anche dei potenziali
clienti/partners.
Questi pericoli in termini di reputation non sono stati comunque valutati come decisivi per un
cambio di rotta da parte delle principali aziende del settore che, come già si è accennato in
precedenza, hanno scelto di adottare una condotta di chiusura sull’argomento, limitando le prese di
posizione, peraltro sempre molto simili quanto al contenuto, ai soli canali ufficiali (come ci è stato
confermato direttamente dal direttore HR di Deliveroo, al quale abbiamo provato, senza successo, a
richiedere la disponibilità dell’azienda a rispondere ad alcune domande sull’argomento), in
particolare attraverso l’associazione di rappresentanza chiamata Assodelivery. Una scelta, questa,
che pare essersi comunque rivelata vincente se è vero che, numeri alla mano, il settore del food
delivery ha registrato una crescita costante in termini di ricavi negli ultimi anni. In termini
puramente commerciali, quindi, le aziende non hanno alcun motivo di ritenere di dover operare un
cambio di rotta: se c’è stato un peggioramento in termini di reputation, questo non si è rivelato
decisivo per indurre il pubblico a non usufruire dei servizi offerti, anzi. A nostro avviso, la
percezione a livello di immagine da parte della platea dei consumatori molto probabilmente è
peggiorata in maniera sensibile. Al contempo, però, è aumentata l’importanza dell’attività di
consegna di cibi pronti a domicilio, divenuta evidentemente una comodità irrinunciabile in un
contesto in cui il tempo assume sempre più i connotati di una risorsa tanto preziosa quanto scarsa.
Può essere questa, dunque, una delle principali spiegazioni dell’aumento dei volumi di business
registrati dal comparto, nonostante tutto.
Non solo: come si è avuto modo di osservare nel corso di questa analisi, tale successo commerciale
è stato in grado di confermarsi, in termini forse addirittura superiori, durante il periodo di
emergenza dovuta alla pandemia da Coronavirus, nonostante alle problematiche a cui si accennava
poc’anzi si siano aggiunte le polemiche legate all’adozione di misure di sicurezza adeguate per la
salvaguardia della salute di riders e clienti. La previsione di rimborsi per l’acquisto di DPI da parte
dei singoli ciclo-fattorini, infatti, è sembrata una contromisura eccessivamente “passiva”: oltre alle
menzionate difficoltà riscontrate nell’ottenimento del rimborso da parte dei riders, tale soluzione
appare tenere anche scarsamente conto della tutela della salute di partners e consumatori (e quindi
due categorie fondamentali di stakeholders). A nostro avviso, una maggiore cura da parte delle
aziende nell’assicurarsi che ogni rider recante il proprio logo si presentasse alle porte dei ristoranti o
delle case con l’attrezzatura di sicurezza adeguata, al posto di lasciarne la responsabilità al singolo
(di fatto, quindi, disinteressandosi dell’effettiva tutela della sicurezza se non dei riders, almeno dei
Food delivery e condizioni lavorative dei riders: cambiare prospettiva per equilibrare flessibilità e sicurezza
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consumatori), avrebbe potuto rappresentare un’occasione per migliorare la propria immagine ad un
prezzo tutto sommato piuttosto contenuto in termini economici.
Ancora una volta, quindi, le società di food delivery hanno deciso di operare un sacrificio in termini
di immagine al fine di massimizzare i profitti. Scelta che, come detto, si è dimostrata sicuramente
vincente per quanto concerne i ricavi.
Al termine di queste considerazioni, sarebbe legittimo domandarsi perché sarebbe opportuno
cambiare linea d’azione e mostrarsi più aperti alle richieste di tutela e di miglioramento dell’aspetto
retributivo nei confronti dei riders, se si tratta di una questione che comunque non inficia il successo
commerciale che hanno riscontrato le principali piattaforme.
Il rischio, a nostro parere, è quello di porsi in una posizione tale, da non riuscire a far valere quelle
che sono delle legittime considerazioni riguardo alle peculiarità che connotano le attività legate al
mondo gig economy e del settore food delivery in particolare, soprattutto nell’ambito del dialogo
con le Istituzioni impegnate ad elaborare una struttura normativa per questo nuovo fenomeno, che
arrivati a questo punto appare essere ormai una necessità indifferibile. Non a caso, l’emanazione del
D.l. 101/2019 è stata accolta in termini negativi dalle aziende del comparto, in quanto ancorata ai
principi giuslavoristici tradizionali che mal si adattano alle esigenze di un’industria nuova che
necessiterebbe dell’elaborazione di una disciplina innovativa, come sottolineato anche da
Assodelivery in occasione delle audizioni in Parlamento alle quali è stata chiamata a partecipare. La
previsione dell’obbligo di inquadrare i riders come lavoratori subordinati, soprattutto, rischia di
compromettere lo svolgimento di un’attività che richiede necessariamente dei tratti di flessibilità
propri invece dell’attuale disciplina riservata ai lavoratori autonomi. Il fatto che tali aspettative
siano state quasi del tutto disattese dal decreto è il risultato di un’incompatibilità comunicativa tra i
rappresentanti del Governo, spinti a schierarsi al fianco dei riders considerati parte “debole” del
confronto anche sull’onda della percezione da parte dell’opinione pubblica, e le aziende stesse, che
così poco si sono curate di questo aspetto. In questo modo, è andata persa una preziosa occasione
per arrivare rapidamente ad una soluzione condivisa che allo stato attuale appare difficilmente
adottabile in tempi brevi, con tutte le conseguenze che ciò può comportare sul futuro stesso
dell’industria.
Food delivery e condizioni lavorative dei riders: cambiare prospettiva per equilibrare flessibilità e sicurezza
Master GIURISTI IN AZIENDA 2020-2021
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Bibliografia
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chiediamo-un-contratto-vero-e-maggiori-tutele-229700/
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tribunale-non-sono-dipendenti/
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del-reddito-di-quarantena
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carenze_protezioni_mascherine_deliveroo_glovo-255747856/
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poche-mascherine-guanti-rischi-sottovalutati/
Food delivery e condizioni lavorative dei riders: cambiare prospettiva per equilibrare flessibilità e sicurezza
Master GIURISTI IN AZIENDA 2020-2021
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nazionale-firenza-apripista/
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prima-carta-dei-diritti-del-rider/
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digitale-nel-contesto-urbano/
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 https://www.lavorodirittieuropa.it/dottrina/lavori-atipici/438-brevi-note-alla-sentenza-n-
1663-2020-della-cassazione

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Food delivery e condizioni lavorative dei riders: cambiare prospettiva per equilibrare flessibilità e sicurezza

  • 1. Project work CORONAVIRUS, L’INCHIESTA SULLE CONDIZIONI DI SICUREZZA DEI RIDER: “SOCIETA’ DI DELIVERY NON HANNO VALUTATO I RISCHI” Food delivery e condizioni lavorative dei riders: cambiare prospettiva per equilibrare flessibilità e sicurezza Master GIURISTI IN AZIENDA 2020-2021 A cura di (nome e cognome): Partecipante 1 Partecipante 2 Partecipante 3
  • 2. Food delivery e condizioni lavorative dei riders: cambiare prospettiva per equilibrare flessibilità e sicurezza Master GIURISTI IN AZIENDA 2020-2021 1 Gig economy - Di che cosa si tratta? L’ingresso delle nuove tecnologie e lo sviluppo di internet ha avuto un forte impatto sul mercato del lavoro creando nuove opportunità e introducendo nuove categorie di lavoratori che integrano o sostituiscono i ruoli tradizionali. Uno degli esempi più noti di questa rivoluzione del mondo del lavoro è senz’altro quello della gig economy che ha potuto svilupparsi in maniera rapida e consistente proprio grazie all’utilizzo delle piattaforme digitali che permettono di facilitare e velocizzare l’incontro tra lavoratori e datori di lavoro. Il termine gig economy, di derivazione anglosassone, si traduce come “economia dei lavoretti” e sta generalmente ad indicare quei mestieri che le persone svolgono in via secondaria e dunque come non principale fonte di guadagno. In questi lavori la retribuzione è quantificata in base all’attività svolta e il pagamento è mediato dalla piattaforma digitale che mette in contatto allo stesso tempo lavoratori e clienti. La gig economy può quindi essere definita come una nuova forma di organizzazione dell’economia digitale, un mercato dinamico e flessibile, prevalentemente caratterizzato da lavoratori autonomi o con contratti a breve termine, nel quale l’incontro tra domanda e offerta avviene online tramite apposite piattaforme digitali. Nell’ambito di questo fenomeno si individuano tre macro-categorie. In primo luogo, abbiamo il cosiddetto “crowdwork” (lavoro-folla) che permette di rivolgersi a una platea molto vasta in quanto i committenti hanno la possibilità di postare le offerte di lavoro disponibili su una bacheca virtuale, come per esempio avviene nel caso della piattaforma ODesk che consente a freelance o lavoratori indipendenti di trovare piccoli lavori o mansioni specifiche. Un’altra categoria è quella dell’Asset rental, ovvero l’affitto e il noleggio di beni e proprietà, conosciuta anche come “sharing economy”, dove spesso la prestazione lavorativa è assente o solo accessoria, come nel caso del proprietario di un appartamento in affitto su Airbnb. Quando si parla di gig economy, tuttavia, la prima categoria che viene in mente è quella del lavoro on-demand tramite l’utilizzo di app e il caso più emblematico in tal senso è quello delle app di food delivery. Il modello di business del food delivery ha trovato riscontro in numerosi paesi dal momento che risponde alla necessità oggi fortemente sentita dalle persone di avere più tempo: infatti, essendo portati a trascorrere le giornate sempre di più fuori casa per la frenesia della vita quotidiana e lavorativa, le persone non hanno più tempo per cucinare e preferiscono ricorrere a soluzioni veloci e pronte rispetto a quelle che richiedono una preparazione più complessa. Nello scenario italiano le app di food delivery che hanno avuto maggiore successo e che operano nella maggior parte del territorio sono quelle di Foodora, Deliveroo, Uber Eats, Just eat e Glovo. Nonostante questa fetta di mercato sia remunerativa e in rapida espansione, non può riscontrarsi lo stesso per quanto riguarda le condizioni lavorative di tutti quei soggetti che provvedono alle esigenze di logistica e di trasporto in senso stretto: i riders. Con tale termine intendiamo i fattorini che si occupano delle consegne a domicilio e che, a causa dei vuoti normativi presenti nel nostro sistema legislativo, si sono ritrovati spesso privi di adeguate tutele e garanzie. Partendo già dal significato del termine gig economy, è evidente come tale fenomeno non venga percepito come un vero e proprio lavoro, ma più come un’attività che le persone svolgono in via secondaria al fine di arrotondare sullo stipendio principale. La conseguenza di questa percezione è che la categoria dei riders e dei gig workers in generale non sembra essere considerata come bisognosa di tutela giuridico/lavorativa né tantomeno di particolari diritti. Uno studio condotto da due docenti dell’Università degli Studi di Milano ha tuttavia messo in luce che nella categoria dei
  • 3. Food delivery e condizioni lavorative dei riders: cambiare prospettiva per equilibrare flessibilità e sicurezza Master GIURISTI IN AZIENDA 2020-2021 2 riders di Milano rientrerebbero principalmente soggetti stranieri che fanno delle consegne a domicilio la loro unica fonte di reddito. Secondo questa indagine vi sarebbero per lo più giovani soggetti maschili di età compresa tra i 22 e i 30 anni, e, se per quanto riguarda i lavoratori italiani sembrerebbe essere corretta l’associazione studente-lavoratore, lo stesso non vale nell’ipotesi di soggetti di origine straniera per le quali le consegne a domicilio rappresentano la loro principale, e spesso unica, fonte di reddito, ritrovandosi così privi delle relative tutele previste dalla legge e dai contratti collettivi per i lavoratori subordinati. Interessante inoltre lo studio condotto nel 2018 dall’Inps su tutta la platea dei gig workers italiani che ha per primo “smontato” il mito della gig economy come lavoro per i giovani, evidenziando che i gig workers costituiscono una percentuale che oscilla tra il 27% e il 30% nei lavoratori tra i 30 e i 49 anni, del 20% degli over 50, mentre tra i più giovani (18-29 anni) sfiora appena il 10%. Il modello di business delle aziende digitali di food delivery varia da piattaforma a piattaforma e a seconda dei casi, i riders possono essere pagati a orario o a cottimo. In ogni caso, le aziende riescono a ottenere un forte risparmio di circa il 30% sui costi del lavoro grazie all’assenza dei contratti nazionali e dei diritti spettanti al lavoratore subordinato, quali ad esempio i benefit, gli straordinari e i giorni di malattia. Ulteriore aspetto critico per i riders è quello legato al sistema connesso alle piattaforme digitali: secondo questo sistema, i riders sono soggetti a una sorta di posizione in classifica determinata da un algoritmo il cui meccanismo non solo non è ben chiaro ai lavoratori ma è stato più volte accusato di essere penalizzante. Secondo la Cgil, infatti, tale algoritmo nell’elaborare i ranking reputazionali dei fattorini, che determinano di fatto le future opportunità di lavoro e le priorità di prenotazione per le consegne, finirebbe per emarginare e escludere dal ciclo produttivo coloro che non riescono a essere disponibili a loggarsi nelle aree di lavoro loro assegnate. In questo modo, il lavoratore che non segue la logica dell’algoritmo, si ritrova progressivamente escluso dalle richieste di lavoro, arrivando in alcuni casi a essere de-loggato e a vedere i propri account disattivati senza giustificato motivo.
  • 4. Food delivery e condizioni lavorative dei riders: cambiare prospettiva per equilibrare flessibilità e sicurezza Master GIURISTI IN AZIENDA 2020-2021 3 I riders, la normativa e la giurisprudenza L'avvento delle piattaforme digitali (tra cui possiamo citare Glovo, Foodinho, Foodora...) ha costituito una rivoluzione nel campo del food delivery in generale, e nella specie, anche per la disciplina contrattualistica dei relativi fattorini. Tali soggetti, infatti, prima dell'arrivo di queste piattaforme, rivestivano tipicamente una posizione di lavoratore subordinato nei confronti di una specifica pizzeria o ristorante; ora tutto è cambiato: le varie società di food delivery identificano i loro riders come lavoratori autonomi, ponendo l'accento sulla loro indipendenza, sia nel determinare i propri orari e le proprie disponibilità, sia nel decidere i percorsi migliori da seguire per giungere a destinazione. Detto inquadramento, tuttavia, ha generato non poche discussioni dottrinali, oltre a proteste e scioperi da parte dei riders stessi, come quello del 10 febbraio 2019 davanti ad uno dei fast food della catena McDonald's di Bologna, o del 1 maggio 2020, sempre a Bologna, in occasione della Festa dei Lavoratori. Non è un caso che il capoluogo emiliano sia stato più volte teatro di queste proteste e scioperi, in quanto città natale di “Riders Union Bologna”, uno dei maggiori movimenti attivisti in Italia che si adoperano per tutelare la figura del rider, salito agli onori delle cronache già nell'inverno 2017 quando alcuni dei suoi esponenti decisero di appendere le loro biciclette all'albero di Natale consuetamente posizionato in Piazza Maggiore. Tale protesta è servita a suscitare l'interesse del Comune di Bologna, che ha disposto un'udienza conoscitiva per approfondire le condizioni di lavoro e di trattamento di questa categoria di lavoratori, ancora totalmente ignorata dalle istituzioni fino a quel momento. Questo è stato il punto di partenza per quello che diverrà il primo accordo metropolitano in Europa sul food delivery: la Carta dei diritti fondamentali del lavoro digitale nel contesto urbano (spesso nota come Carta di Bologna). Firmata il 31 maggio 2018 dal Comune di Bologna, Riders Union Bologna, CGIL, CISL, UIL, Sgnam e Mymenu (queste ultime le uniche piattaforme di food delivery), i principi fondamentali della Carta sono l'obbligo di assicurazione nei confronti dei lavoratori e dei terzi, un compenso commisurato a quello stabilito nei contratti nazionali dei settori attinenti (come quello della logistica), indennità aggiuntive per il lavoro notturno e le condizioni meteorologiche sfavorevoli, la tutela della privacy. Già nel mese di luglio dello stesso anno, proprio grazie alla Carta, un rider di Glovo vedrà riattivato il suo account, che precedentemente era stato disattivato senza giustificato motivo, e a dicembre (in applicazione dell'art. 4 della Carta stessa) si deciderà di sospendere totalmente il servizio di consegne in tutto il territorio cittadino, a causa dell'eccessiva pericolosità dettata dalle condizioni climatiche avverse. Il 2018 costituisce un anno fondamentale per l'evoluzione della situazione riders anche per un altro motivo: è stata infatti emessa la prima sentenza di quella che diventerà la “saga giudiziaria” per eccellenza in materia di food delivery, la c.d. causa Foodora. Entrando più nel dettaglio, verso la fine del 2016 sorsero proteste tra i riders di Foodora (una delle principali piattaforme digitali di food delivery) per ottenere un'estensione delle loro tutele, avanzando richieste riguardanti ferie, tredicesima e contributi previdenziali; successivamente a tali proteste, sei riders decisero di intentare causa, presso il Tribunale di Torino, contro Foodora stessa, per far accertare la sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato. Nello specifico le richieste dei ciclo-fattorini erano le seguenti: la corresponsione delle differenze retributive dirette e indirette e delle competenze di fine rapporto in forza dell'inquadramento nel Contratto Collettivo Nazionale della Logistica (o, alternativamente, in quello del settore terziario), la reintegrazione presso il loro
  • 5. Food delivery e condizioni lavorative dei riders: cambiare prospettiva per equilibrare flessibilità e sicurezza Master GIURISTI IN AZIENDA 2020-2021 4 posto di lavoro (asserendo l'illegittimità del licenziamento) e il riconoscimento delle cifre loro spettanti per il periodo tra il licenziamento e la ricostituzione del rapporto di lavoro. Tutte queste richieste verranno respinte in blocco dai giudici del Tribunale di Torino, che negheranno l'esistenza di un rapporto di lavoro subordinato, facendo riferimento ad una precedente pronuncia della Corte di Cassazione (la numero 2728 dell'8 febbraio 2010) in cui si stabiliva che per aversi lavoro subordinato era necessaria la presenza di un vincolo di soggezione del lavoratore al potere direttivo, con ordini specifici e un'assidua attività di vigilanza del datore di lavoro; caratteristiche, senza alcun dubbio, assenti nel rapporto di lavoro tra Foodora e i propri riders, i quali non erano obbligati a dare alcuna disponibilità per i turni di lavoro (e, anche se l'avessero revocata all'ultimo minuto, non avrebbero subito alcuna sanzione disciplinare, se non la retrocessione in una sorta di classifica gestita da un algoritmo, utile per determinare i riders più abili), né a seguire percorsi predeterminati per giungere alle destinazioni del caso. Nello specifico, i contratti stipulati da Foodora coi propri riders erano Co.Co.Co., cioè contratti di collaborazione coordinata e continuativa, una fattispecie di lavoro autonomo (c.d. parasubordinato) regolata dall'art. 409 c.p.c. Nucleo essenziale di questa fattispecie è la prestazione personale di un lavoratore nei confronti di un committente, coordinata da quest'ultimo (senza però sfociare in ordini e controlli penetranti, altrimenti si ricadrebbe in un rapporto subordinato in senso stretto) e di carattere continuativo. Poche sono le tutele del lavoro subordinato che possono applicarsi anche ai Co.Co.Co.; tra queste ricordiamo la più rilevante: il dovere, da parte del committente, di dare congruo preavviso in caso di recesso dal rapporto. In ogni caso, ogni tutela non espressamente prevista per questo tipo di contratti (come quella contro il licenziamento o per la retribuzione proporzionata e sufficiente ex art. 36 Cost.) è esclusa. In seguito alla sentenza di primo grado, i sei riders hanno impugnato la sentenza presso la Corte d'Appello di Torino, adducendo che i giudici di primo grado avessero posto troppa attenzione sulla qualificazione che le parti avevano dato al rapporto di lavoro, senza analizzare quelle che erano le caratteristiche della prestazione lavorativa effettivamente offerta. Il loro appello è stato in parte accolto, con la prima applicazione in concreto dell'art. 2 d.lgs. 81/2015 (meglio conosciuto come Jobs Act), definendo quindi il rapporto di lavoro dei riders come una collaborazione etero-organizzata, e non semplicemente coordinata e continuativa. Tale tipo di collaborazione richiede che il lavoratore non sia dotato di una propria organizzazione e che il committente determini luoghi e orari di lavoro (senza però sconfinare nell'esercizio del potere gerarchico, direttivo o disciplinare). Foodora, infatti, individuava luoghi di partenza, disponeva i turni e imponeva tempi di consegna, lasciando però liberi i riders di auto-organizzarsi, sia dal punto di vista degli orari di disponibilità, sia da quello dei percorsi da seguire per giungere a destinazione. Perciò, in applicazione dell'art. 2 del Jobs Act, i riders rimarrebbero lavoratori autonomi, ma per tutti gli aspetti riguardanti igiene, sicurezza, retribuzione (i giudici, infatti, riconoscono ai riders il diritto di vedersi corrispondere quanto maturato durante l'attività lavorativa prestata a Foodora sulla base della retribuzione stabilita per i dipendenti del V livello nel CCNL Logistica), limiti di orario, ferie e previdenza si applicherebbe la disciplina del lavoro subordinato. Rimarrebbe in ogni caso fuori la tutela contro i licenziamenti illegittimi, inapplicabile a rapporti di natura non subordinata. Detto questo, i giudici della Corte d'Appello di Torino hanno precisato che l'applicazione dell'art. 2 non legittima l'accoglimento della domanda avanzata dai riders in via principale (cioè il riconoscimento della natura subordinata del rapporto). Infatti, oltre alla mancanza di un potere
  • 6. Food delivery e condizioni lavorative dei riders: cambiare prospettiva per equilibrare flessibilità e sicurezza Master GIURISTI IN AZIENDA 2020-2021 5 direttivo, gerarchico o disciplinare, nella fattispecie ad hoc rileva anche l'assenza dell'obbligatorietà della prestazione da parte dei fattorini (requisito indispensabile per aversi lavoro subordinato, ex art. 2094 c.c.). Vediamo ora brevemente i profili delle tutele prevenzionistiche, che saranno comunque trattati più approfonditamente nel prosieguo dell'elaborato: se prima della sentenza della Corte d'Appello di Torino, essendo considerati lavoratori completamente autonomi, i riders godevano solamente delle tutele previste dal d.lgs. 81/2008 (che imponeva di utilizzare attrezzature di lavoro e dispositivi di protezione individuale conformi al Testo Unico sulla sicurezza sul lavoro e concedeva la possibilità di avvalersi della sorveglianza sanitaria prevista nel decreto stesso e di partecipare a corsi di formazione sulla salute e sicurezza sul lavoro), ora, essendo categorizzati come collaboratori etero- organizzati ai sensi dell'art. 2 Jobs Act, godranno di tutte le tutele applicabili al lavoro subordinato (designazione del responsabile del servizio di prevenzione e protezione dei rischi, nomina di un medico competente per la sorveglianza sanitaria, ecc.). Esauriti primo e secondo grado di giudizio, Foodora, insoddisfatta della sentenza giunta dalla Corte d'Appello di Torino, decide di ricorrere in Cassazione, lamentando un'errata applicazione da parte dei giudici di secondo grado dell'art. 2 del Jobs Act. C'era ovviamente grande curiosità attorno all'ultimo capitolo del caso Foodora, ed effettivamente le attese non sono state deluse. I giudici di legittimità avalleranno sostanzialmente l'applicazione dell'art. 2 da parte della Corte d'Appello di Torino, sottolineando però come le collaborazioni etero-organizzate non costituiscano un tertium genus rispetto a lavoro subordinato e autonomo. In particolare, la Corte evidenzia come non abbia senso interrogarsi sotto quale categoria il rapporto dei riders possa sussumersi, dal momento che sussistono quegli indici fattuali idonei a far constatare una debolezza del lavoratore nel rapporto. Ciò avrà una rilevante conseguenza: l'applicazione delle norme di tutela del lavoro subordinato non può essere selettiva (quindi limitata a sicurezza, igiene, retribuzione, orario, ferie e previdenza, come specificato dalla Corte d'Appello), ma generalizzata a tutti i campi di tutela del lavoro subordinato. La Corte di Cassazione coglie l'occasione della sentenza n. 1663 anche per approfondire cosa si intende per etero-organizzazione. Secondo la Corte, caratteristica principale dell'etero- organizzazione consiste nel potere unilaterale del committente di imporre le modalità del coordinamento; quindi, laddove le modalità di coordinamento saranno stabilite di comune accordo tra le parti, la collaborazione non sarà disciplinata dall'art. 2, mentre quando saranno determinate unilateralmente dal committente, ricadranno sotto la sua disciplina. In futuro sarà compito dei giudici inquadrare le fattispecie ad hoc in una delle due caselle individuate dalla Corte. Prima di andare a vedere gli interventi legislativi sul tema riders, può essere utile soffermarsi su alcune pronunce di tribunali esteri in merito, partendo dalla Corte d'Appello di Parigi (a novembre 2017), che aveva posto l'accento sulla libertà dei riders di selezionare i propri turni, riconducendo, quindi, il rapporto ad una natura autonoma. Di opinione contraria sarà la Corte di Cassazione di Parigi (novembre 2018), che, partendo dal presupposto che la piattaforma digitale oggetto della sentenza (Take Eat Easy) esercitava un potere sanzionatorio attraverso un meccanismo di bonus-malus e si avvaleva della geo-localizzazione dei riders come metodo di controllo, ha ricondotto la fattispecie ad hoc sotto quella del lavoro subordinato.
  • 7. Food delivery e condizioni lavorative dei riders: cambiare prospettiva per equilibrare flessibilità e sicurezza Master GIURISTI IN AZIENDA 2020-2021 6 Dello stesso avviso un giudice di Valencia (giugno 2018), che, facendo leva sul fatto che il tracciato ed i tempi di consegna dei riders potevano essere rilevati via GPS e che i fattorini necessitavano della piattaforma per svolgere il lavoro (non disponendo di una propria organizzazione), ha propeso per la subordinazione. Esaminate le principali pronunce giurisprudenziali sul tema del food delivery, sia a livello nazionale che estero, passiamo ora a esplorare l'aspetto legislativo della faccenda. Seguendo un ordine cronologico, la legge regionale 4/2019 del Lazio è il primo intervento a livello locale in Italia sulla questione riders (eccettuando la Carta di Bologna, che come abbiamo visto, è stata firmata dal Comune stesso). Approvata in data 20 marzo 2019, tale legge mira ad uno sviluppo responsabile dell'economia legata alle piattaforme digitali, cercando di proteggere i relativi lavoratori a prescindere dalla natura del rapporto (autonoma o subordinata) che li lega al datore di lavoro. Gli strumenti di cui si dota la Regione per raggiungere tali finalità sono un portale del lavoro digitale (composto dall'anagrafe regionale del lavoro digitale e dal registro regionale delle piattaforme digitali), una Consulta dell'economia e del lavoro digitale, che funge come organismo di consultazione, un programma annuale degli interventi da effettuarsi in materia di lavoro digitale e dei protocolli d'intesa con INPS ed INAIL per le tutele assicurative e previdenziali. Meno di quattro mesi più tardi, è stata pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale dell'UE dell'11 luglio la Direttiva 2019/1152 relativa alle condizioni di lavoro trasparenti nell’area comunitaria (da recepire in Italia entro il 1° agosto 2022). Concepita in origine per tutelare i lavoratori più precari (specie quelli delle piattaforme digitali), secondo molti ha deluso le aspettative. Infatti, mentre l'idea iniziale di Commissione e Parlamento era quella di estendere il più possibile l'ambito di applicazione (con tutele quali la trasparenza in tema di orari di lavoro, di retribuzione e di durata del contratto, e il diritto per i fattorini di ricevere il proprio compenso anche in caso di cancellazione all'ultimo minuto dell'incarico), in seguito all'opposizione di vari Stati membri si è deciso di andare a regolare solamente il campo del lavoro subordinato; anche se, è da tenere in conto, che la Direttiva fa riferimento alla nozione di lavoro subordinato fatta propria dalla Corte di Giustizia europea, che è ben più ampia rispetto a quelle adottate dai vari ordinamenti nazionali. Ultimo, e sicuramente più importante, testo legislativo da esaminare in materia è il D.l. 101 del 3 settembre 2019, convertito con la legge 128 del 2 novembre 2019. Tale intervento normativo aveva una duplice finalità: tutelare categorie deboli di lavoratori (come i riders ed i disabili) e arginare due imponenti crisi industriali in corso in quel momento, cioè quelle di Whirlpool e Ilva. Le tutele dei ciclo-fattorini sono contenute nell'art. 1 del decreto, il quale va a modificare il sopra discusso art. 2 del Jobs Act, rendendolo applicabile anche ai rapporti di collaborazione che si concretano in prestazioni prevalentemente personali (e non più solo esclusivamente personali) ed eliminando il riferimento ai tempi e luoghi di lavoro nell'ambito dell'organizzazione del committente. Inoltre, viene espressamente statuito che il riformato comma 1 dell'art. 2 si applicherà anche alle prestazioni di lavoro organizzate mediante piattaforme digitali. Tuttavia le innovazioni introdotte dal D.l. 101 del 3 settembre 2019 non finiscono qui. Viene infatti inserito un capo totalmente nuovo all'art. 47 del Jobs Act, intitolato “Tutela del lavoro tramite piattaforme digitali”. Questo prevede una specifica disciplina per i lavoratori autonomi che svolgono attività di consegna, in ambito urbano e con l'ausilio di velocipedi o veicoli a motore, attraverso piattaforme anche digitali (tuttavia l'entrata in vigore degli artt. 47-quater, riguardante la retribuzione, e 47-septies, riguardante la copertura assicurativa obbligatoria INAIL, è prevista solo per il novembre 2020).
  • 8. Food delivery e condizioni lavorative dei riders: cambiare prospettiva per equilibrare flessibilità e sicurezza Master GIURISTI IN AZIENDA 2020-2021 7 Risulta a questo punto chiaro come il Governo, mediante tale intervento, sia voluto andare a tutelare i rapporti di lavoro dei riders in ogni loro configurazione possibile: infatti, in presenza di un contratto di lavoro autonomo, il lavoratore potrà essere tutelato quali che siano le modalità di organizzazione del rapporto. Nel caso sia etero-organizzato (e quindi con i caratteri visti sopra) ricadrà sotto l'egida dell'art. 2 del Jobs Act, con la conseguente integrale applicazione della disciplina del rapporto di lavoro subordinato; mentre, qualora non abbia i requisiti dell'etero- organizzazione, sarà disciplinato dal nuovo capo V-bis dell'art. 47 Jobs Act, specificamente volto a tutelare quei lavoratori non in regime di etero-organizzazione, ma comunque bisognosi di protezione. Ovviamente le tutele disposte mediante questo nuovo capo, creato ad hoc per i riders, non sono parificabili a quelle derivanti dall'applicazione della disciplina del lavoro subordinato, ma senza dubbio costituiscono un primo passo per colmare una lacuna legislativa fin troppo rilevante in una società sempre più digitale come la nostra.
  • 9. Food delivery e condizioni lavorative dei riders: cambiare prospettiva per equilibrare flessibilità e sicurezza Master GIURISTI IN AZIENDA 2020-2021 8 Il problema delle tutele L'emergenza sanitaria relativa al Covid-19, ha portato nuovamente sotto i riflettori un tema che è stato sempre molto sentito dall’opinione pubblica ovvero quello delle tutele nello svolgimento dell’attività lavorativa. Nonostante la pandemia abbia comportato gravi perdite economiche per il nostro Paese, non tutti i settori sono stati colpiti allo stesso modo, infatti il volume di affari delle società di delivery è cresciuto esponenzialmente. Basti pensare che, secondo alcune stime, nelle regioni italiane in cui era permesso, il 30% dei titolari di ristoranti che fruivano delle piattaforme digitali collegate a varie società di delivery sono rimasti aperti solamente per garantire il servizio di consegna del cibo durante il lockdown. Si stima inoltre che questo trend possa continuare a crescere anche dopo la fine della pandemia in quanto gli utenti, proprio a causa di quest’ultima, hanno iniziato a modificare le proprie abitudini avvicinandosi sempre di più al mondo degli acquisti e degli ordini online. L’aumento delle transazioni digitali utilizzando lo smartphone al posto del classico volantino promozionale, infatti, non va ad inficiare il movimento all’interno delle sale dei ristoranti in quanto si tratterebbe di un reddito aggiuntivo e non “sostitutivo”. Ciò che rende ancora più chiaro il potenziale economico di queste piattaforme digitali si ravvisa nel fatto che i ristoranti hanno delle spese fisse per il noleggio dell’hardware e che, in media, in quanto intermediari tra il cliente e il ristoratore, trattengono anche fino al 35% dall’ammontare complessivo dell’ordine. Stando alle statistiche della Federazione Italiana pubblici esercenti (Fipe), le varie società di delivery, tra le quali Glovo, Just Eat, Foodora, UberEats e Deliveroo, hanno permesso ai ristoratori italiani di incassare una somma pari a quasi 500 milioni di euro; al momento, le entrate che scaturiscono dalla consegna del cibo sono minori rispetto a quelle che derivano dalla somministrazione classica, ma si prevede un aumento del fatturato che potrebbe sfiorare anche i 2.5 miliardi di euro entro la fine del 2020. Ancora prima dello scoppio della pandemia, la categoria dei riders lamentava pessime condizioni lavorative; non sono rari infatti i casi di aggressione fisica durante il loro turno di lavoro, allo scopo di rubare il denaro contante eventualmente raccolto durante il servizio o addirittura il cibo trasportato. A ciò, si aggiunga un altro problema: quello dei lavoratori stranieri irregolari. In Italia, ad oggi, ci sono almeno 3,5 milioni di lavoratori che operano con contratti precari e con forme di prestazione atipiche o discontinue. Con l’imminente ingresso in quella che verrà definita “la quarta rivoluzione industriale”, si prevede un’ulteriore espansione di questo fenomeno. Secondo recenti stime, a causa delle riorganizzazioni industriali si perderanno 5 milioni di posti di lavoro e a quel punto le scelte possono essere quelle di re-inventarsi come freelance o di sottostare al sistema dei contratti a termine da dipendente per le figure più “professionalizzate” o, per chi non lo è, una delle poche alternative rimanenti, sarà quella di accettare le proposte delle big della sharing economy per lavorare come rider/fattorino accettando di sottostare a regole spesso ingiuste dettate da soggetti che non sono sempre facilmente identificabili. A questa categoria appartengono tendenzialmente persone di giovane età tra cui molti richiedenti asilo e in generale persone in stato di bisogno che, attratti dal guadagno immediato e dall’orario flessibile, sono disposti ad accettare lavori poco qualificati e con tutele limitate, pur di essere occupati in attesa del permesso di soggiorno entrando così nel mondo del “caporalato digitale”. Questa forma di sfruttamento è direttamente collegato alle piattaforme digitali, ovvero dei contenitori virtuali che permettono all’azienda di inserire ed offrire le proposte di lavoro;
  • 10. Food delivery e condizioni lavorative dei riders: cambiare prospettiva per equilibrare flessibilità e sicurezza Master GIURISTI IN AZIENDA 2020-2021 9 potenzialmente questo meccanismo dovrebbe garantire un alto grado di tutela per il lavoratore in quanto, non essendo esso in prima persona ad offrirsi, non correrebbe il rischio di svendere la propria professionalità ma, nella pratica, accade l’opposto e si apre una guerra al ribasso delle tariffe previste per i fattorini. Sono ravvisabili almeno due forme di caporalato. La prima di carattere più trasversale e sussidiario: un soggetto si iscrive regolarmente ad uno dei tanti siti di food delivery, riceve l’attrezzatura necessaria, il codice identificativo che permette il ritiro del cibo al ristorante e la consegna al cliente, e lo cede un soggetto terzo. Il soggetto attivo, in questa fattispecie, è colui che recluta la manodopera, ossia l’intermediario. Questa forma è molto comune nei rapporti tra immigrati che si organizzano in questo modo per spirito di solidarietà tra connazionali. Ai fini dell’elemento soggettivo necessario alla configurabilità del reato di caporalato, così come previsto dall’articolo 603-bis c.p, si richiede il dolo che in questa specifica ipotesi deve essere “specifico” ovvero caratterizzato dall’intenzione di destinare la manodopera al lavoro presso terzi e in condizioni di sfruttamento. Sempre nel caso della prima ipotesi, una seconda forma che si va a creare è invece tra italiani ed immigrati. Considerando che per un immigrato spesso avere tutti i documenti necessari all’iscrizione al sito risulta complicato, questo compito viene sopperito da un complice italiano il quale, dopo essersi registrato a suo nome, vende la propria sottoscrizione al primo proponendola come una offerta di lavoro indiretta. La riuscita di questa pratica scorretta spesso è facilitata dall’inerzia delle aziende che, pur di fatto ripudiando ogni forma di caporalato, difficilmente si attivano con una denuncia preferendo un approccio più “soft” che consiste nella semplice chiusura dell’account e nella perdita del codice identificativo. Inoltre, considerando che la società non può in alcun modo sapere chi stia utilizzando il device, in quanto non sono informazioni alle quali può accedere se non in modo illecito (spionaggio), la diffusione del fenomeno in questione è resa ancor più semplice. Va da sé che, in caso di contagio nel periodo pandemico o, nel caso di infortunio sul lavoro, nessun rider potrebbe far valere le tutele che spetterebbero al dipendente regolarmente registrato sulla piattaforma digitale. Non a caso, in caso di incidente, il caporale si assicura di non far intervenire ambulanze o forze dell’ordine con conseguenze spesso fatali per il malcapitato. Oltre al corrispettivo derivante dalla vendita dell’account, il cedente chiede anche una percentuale sulle consegne. La seconda forma di caporalato è quella che avviene direttamente tra l’azienda e il fattorino, cioè colui che utilizza, assume o impiega manodopera, ovvero il datore di lavoro che è l’utilizzatore finale dei dipendenti. In questa seconda accezione, a differenza della prima, viene richiesto il dolo “generico”: il datore di lavoro deve essere consapevole della condizione di sfruttamento cui sottopone i lavoratori. Il caporalato viene accentuato anche dalla tendenza di sostituire le società “concrete” con applicazioni/piattaforme digitali o con appalti di gestione che spesso rendono difficoltoso il compito di andare ad individuare i soggetti che ci lavorano dietro o che perpetuano queste forme di sfruttamento. Basti pensare al caso in cui una società di delivery deleghi la gestione dei riders ad un’altra entità per scongiurare il rischio di ricadere nell’ipotesi del dolo generico e camuffare ogni forma di sfruttamento. Esplicativo del caso è la vicenda che ha portato al commissariamento di UberEats, la nota società di logistica legata al colosso statunitense Uber, per il reato di “intermediazione illecita e sfruttamento
  • 11. Food delivery e condizioni lavorative dei riders: cambiare prospettiva per equilibrare flessibilità e sicurezza Master GIURISTI IN AZIENDA 2020-2021 10 del lavoro”. Le indagini della Guardia di Finanza hanno portato alla scoperta di ipotesi di caporalato perpetuate da “Flash Road City”, società terza che ha ricevuto l’appalto da Uber, nei confronti di alcuni riders attraverso messaggi minatori scovati all’interno del gruppo Whatsapp dei riders torinesi. Tutto è nato dalla condotta tenuta da alcuni riders che, rifiutandosi di lavorare in alcune particolari fasce orarie, hanno ricevuto messaggi intimidatori da parte dei loro datori di lavoro dai quali emergevano diverse minacce tra cui decurtazioni di 50 centesimi a consegna, nel caso in cui le consegne fossero state inferiori al 95% degli ordini. Considerando che la paga ammontava a 3/3,50€, la quale non teneva conto della distanza da percorrere, spesso lunga e insidiosa nelle maggiori città italiane, specialmente negli orari di punta, il trattamento appare sproporzionato. Per quanto attiene alle mance, se queste fossero state consegnate direttamente al fattorino non vi sarebbero stati problemi ma, nel caso in cui fossero state somministrate tramite applicazione una parte di esse veniva incassata dall’azienda. Sempre all’interno di alcune chat su Whatsapp, sono state evidenziate diverse conversazioni intercorse tra manager di Uber e gli amministratori delle società intermediarie, nelle quali si parlava di “sentinelle” da piazzare in punti strategici che consentissero di controllare i riders e di sanzionarli se sorpresi a non lavorare. La risposta dei sindacati al problema, nonostante la volontà di proteggere la categoria, non può essere considerata risolutiva visto che la loro proposta consiste nell’applicazione della contrattazione collettiva che però, a causa delle situazioni esposte, specialmente quella dei lavoratori stranieri, presta il fianco ad uno spazio dai confini incerti che permette la penetrazione di forme di regressione delle tutele lavorative portando ad ipotesi di sfruttamento non più accettabili in una società moderna ed evoluta come la nostra. Siamo in presenza di un lavoro flessibile, praticato da una fetta di lavoratori molto diversi tra loro e dai confini ambigui rispetto al classico lavoro subordinato e che perciò necessita di una regolamentazione ad hoc. Non a caso, il numero di riders iscritti regolarmente a sindacati sono un numero basso in quanto le loro esigenze ed il loro sentirsi “autonomi” contrasta con la soluzione poco innovativa proposta dal sindacato. Per questo, il rider preferirebbe avere la possibilità di contrattare direttamente con l’azienda senza l’intermediazione sindacale. Nonostante in alcune città come Milano siano sorte associazioni di tutela efficaci, spesso per loro è difficile raggiungere l’intera categoria per via dei contratti atipici utilizzati dalle società di delivery, o dalla mancanza degli stessi nelle ipotesi di caporalato, che spesso si tramuta in una chiusura totale dei fattori nel loro mondo che sempre più spesso ricorrono ad ipotesi di auto-organizzazione. La naturale conseguenza è che la politica, di fronte ad una scarsa rappresentanza della categoria, non riesce a mettere in atto dei piani regolatori che siano efficaci e che vadano ad allineare il gap normativo. La situazione complessiva suggerisce l’ipotesi che, le già scarse tutele previste per i riders prima della pandemia, durante il lockdown si siano accentuate e in alcuni casi si siano create addirittura nuove ipotesi di mancata tutela. La situazione così delineata, fa intendere chiaramente che si stia andando incontro, sull’ondata della gig economy, a nuove forme di precariato. Un’altra mancata forma di tutela è implicita nelle modalità di assunzione del ciclo-fattorino. Per candidarsi bastano pochi minuti, si svolge tutto online, ed entro le successive 24 ore si ha l’esito della selezione e, in caso positivo, tutto il materiale necessario (pettorina, cassone o borsa per le consegne, power banks, supporto smartphone da polso) ti viene spedito direttamente a casa dietro pagamento di una tantum o in comodato d’uso gratuito. In considerazione del fatto che stiamo
  • 12. Food delivery e condizioni lavorative dei riders: cambiare prospettiva per equilibrare flessibilità e sicurezza Master GIURISTI IN AZIENDA 2020-2021 11 parlando di un lavoro fisico, sarebbero necessari dei controlli medici da parte delle aziende o almeno dei certificati di sana e robusta costituzione reperibili dal medico di base. Se ad esempio venisse assunto un rider, che poi effettivamente non dovesse trovarsi nelle condizioni fisiche ottimali per svolgere la propria mansione, ci sarebbero una serie di conseguenze negative non solo sul lavoro ma indirettamente anche nei confronti dell’azienda. La scelta del mezzo di trasporto è tendenzialmente libera ma tutti i costi di acquisto o manutenzione sono a carico del fattorino. È facile immaginare quindi che molti riders lavorano con mezzi in cattive condizioni meccaniche (scooter o bicicletta con impianto frenante rovinati) o con dotazioni insufficienti come ad esempio la mancanza degli strumenti di illuminazione e acustici per rendersi visibile in strada; tutto ciò spesso è causa di molte lamentele da parte degli utenti della strada che, specialmente la sera, vedono i riders sfrecciare in strada senza nessun presidio alla guida, spesso viaggiando contromano o stazionando sul marciapiede. Situazione in parte appianata dalla pronuncia emersa in Procura a Milano a settembre 2019 che ha attivato i controlli ed il sequestro delle biciclette non a norma utilizzate dai riders. È recentemente nato a Bari un progetto chiamato “riders on the storm” che si presenta come un luogo in cui poter ricevere assistenza e manutenzione del mezzo. Non sono rare, infatti, le lamentele di riders che spesso chiedono che almeno parte dei costi di manutenzione del mezzo siano a carico della società di delivery visto che a volte gli introiti non sono sufficienti per mantenere il mezzo funzionante. Bisogna anche dire che nonostante alcune società, come ad esempio Deliveroo, abbiano aumentato i massimali per le spese mediche e gli infortuni sul lavoro, al di fuori di questi ogni danno arrecato a sé o ad altri rimane a carico del rider. Un'importante svolta in tal senso è quella che impone l’obbligo per le società di delivery di iscrivere i fattori all’INAIL entro il 1 febbraio 2020. Se l’impresa non gode già di una posizione assicurativa territoriale (PAT) dovrà inviare telematicamente all’INPS la denuncia di iscrizione al registro con tutte le informazioni necessarie alla quantificazione del rischio e al computo del premio assicurativo per ogni attività, ivi compresa quella svolta dal rider, avendo cura di indicare anche il mezzo utilizzato dallo stesso. Diverso il caso nel quale l’impresa sia già registrata in quanto dovrà solamente trasmettere la comunicazione di variazione delle attività inserendo quella svolta dai fattorini anche qualora fossero inquadrati come lavoratori autonomi. Se la questione dell’assicurazione appare normativamente regolata e chiara, diverso è il discorso sulla retribuzione, in quanto essa dipende non solo dalla forma contrattuale stessa (lavoratore autonomo a partita IVA o dipendente), ma anche dal mezzo utilizzato per le consegne e dal giorno/fascia oraria di consegna. Partendo da un'analisi effettuata a livello Europeo dall’Eurofound (Fondazione Europea per il miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro), si nota come in Svezia i fattorini siano pagati rispettivamente 11 euro all’ora durante la settimana e 13 nei fine settimana (anche se in questo caso occorre tener conto dell’alto costo della vita). Diverso in Francia che, per incentivare il lavoro durante il weekend sono pagati 7,50 nei giorni feriali e 11,50 nel fine settimana + 2 euro di bonus a consegna. In Italia invece la ricerca di Eurofound si concentra su due compagnie Deliveroo e Foodora (quest’ultima prima dell’acquisizione da parte di Glovo). In Foodora un rider guadagna 8 euro all’ora e 4 a consegna mentre Deliveroo, inserendo di fatto un rimborso carburante implicito, paga 7 euro a chi si muove in bici e 8.50 euro per chi va in motorino/scooter.
  • 13. Food delivery e condizioni lavorative dei riders: cambiare prospettiva per equilibrare flessibilità e sicurezza Master GIURISTI IN AZIENDA 2020-2021 12 Anche dall’analisi del sito “Jobbydoo” emerge che lo stipendio medio di un rider è di 850 euro netti al mese (7,50 euro lordi all’ora): una somma inferiore di circa 700 euro (-45%) rispetto al salario medio italiano con possibilità di carriera essenzialmente nulle. L’ex Ministro del Lavoro Luigi Di Maio aveva fatto della lotta per l’ottenimento di migliori tutele verso i riders uno dei punti principali del suo programma elettorale: in particolare chiedeva che venissero inquadrati come lavoratori dipendenti nonostante questi soggetti siano un gruppo molto eterogeneo, tale da comportare l’impossibilità di riconduzione sotto un'unica categoria. Dopo una lunga trattativa, con la forte opposizione dei colossi del delivery, il Decreto Rider ha stabilito la possibilità per il rider di essere inquadrato nel CCNL Logistica, di avere accesso all’assicurazione obbligatoria INAIL e di avere una retribuzione risultante da un mix tra cottimo e paga oraria. La soluzione oltre a lasciare scontente le società di delivery non ha incontrato nemmeno il favore di alcuni riders dal momento che alcuni di loro, facendolo come secondo lavoro, ritengono la flessibilità una condizione essenziale. O ancora, ci sono riders che vogliono mantenere il cottimo per non avere una soglia massima di guadagno o anche per poter decidere in quale periodo dell’anno lavorare e guadagnare di più.
  • 14. Food delivery e condizioni lavorative dei riders: cambiare prospettiva per equilibrare flessibilità e sicurezza Master GIURISTI IN AZIENDA 2020-2021 13 E le aziende? Il momento che stanno attraversando le aziende che gestiscono le diverse piattaforme di food delivery non è facile da decifrare. Tra i principali protagonisti della rivoluzione della gig economy, i vari Deliveroo, Glovo, UberEats hanno infatti avuto un impatto travolgente su un settore, quello del food delivery appunto, già esistente nel panorama italiano ma che nelle sue forme tradizionali mai aveva ottenuto peso e numeri tali da consentirgli di acquisire una rilevanza degna di nota. A partire dai primi anni 2010, però, l’avvento delle nuove tecnologie ha aperto nuove possibilità per il settore, rivoluzionandolo e rinnovandolo a fondo. L’apparizione delle prime piattaforme digitali (JustEat su tutte) ha segnato l’introduzione del primo dei due principali modelli di business esistenti nel mercato attuale, ovvero quello dell’intermediazione: gli operatori che adottano questa forma si occupano di mettere in contatto clienti e ristoranti, senza però occuparsi direttamente della delivery, per la quale rimangono invece responsabili gli stessi ristoratori. Quest’ultimo aspetto permette agli intermediari di contenere i costi, tuttavia il funzionamento di tale sistema è fortemente condizionato dalla capacità dei locali partner di gestire autonomamente l’attività di delivery, cosa che esclude forzatamente tutti gli altri. Dopo qualche anno, al modello sopra citato se ne è aggiunto un altro, che vede i gestori delle piattaforme che l’hanno adottato (per citare i principali, Foodora, Deliveroo, Glovo) nelle vesti di veri e propri fornitori di servizi logistici più che di semplici intermediari, in quanto si occupano anche di gestire direttamente le consegne. Rispetto alla forma dell’intermediazione, a scapito della quale è parsa rapidamente affermarsi, quella in oggetto porta con sé il vantaggio di ampliare notevolmente il novero dei potenziali partners, ma comporta per contro dei costi di gestione nettamente superiori. Dato il contesto, dopo un iniziale periodo “movimentato” che ha visto la nascita e la rapida ascesa (ed in alcuni casi anche il repentino declino, vedi il caso di Foodora) a livello locale ed internazionale di nuove aziende di food delivery, la situazione attuale si presenta piuttosto stabile. Vi sono dei players definiti e consolidati a fare da traino ad un comparto che nel 2019 ha visto una crescita del 56% rispetto al 2018, con un valore generato di 566 milioni di euro, ma che ancora non è in grado di far fronte ai costi elevati che gravano sui bilanci delle aziende, costringendole a dipendere dagli investimenti provenienti dall’esterno e ad attuare decise politiche di contenimento delle spese. Se però, l’adozione di modelli di business innovativi e basati su tecnologie all’avanguardia è stato il fattore che più ha inciso sulla notevole capacità di imporsi da parte di queste realtà, dall’altra sono proprio questi tratti rivoluzionari e difficilmente inquadrabili secondo i canoni classici dell’industria e del diritto a determinarne le difficoltà attuali, in particolar modo per quanto riguarda le critiche riguardo alla gestione del rapporto di lavoro dei riders, nonostante il riconoscimento del merito di aver creato un notevole numero di nuove opportunità di lavoro. Nell’infuriare del dibattito attorno alle varie questioni che li hanno visti nell’occhio del ciclone, i principali players italiani del settore food delivery si sono dimostrati capaci di mettere da parte ogni rivalità commerciale (si tratta pur sempre di concorrenti) e di affrontare le critiche in maniera compatta ed unitaria, al contrario invece di quanto talvolta pare accadere al fronte “opposto” dei riders. Tale situazione ha trovato una concreta manifestazione nella nascita nel 2018 di Assodelivery, un’associazione di rappresentanza che ha riunito sotto un’unica insegna tutte le principali
  • 15. Food delivery e condizioni lavorative dei riders: cambiare prospettiva per equilibrare flessibilità e sicurezza Master GIURISTI IN AZIENDA 2020-2021 14 piattaforme di food delivery operanti sul territorio italiano, ovvero Deliveroo, Glovo, UberEats, JustEat e SocialFood, arrivando a rappresentare oltre il 90% del mercato. Queste aziende hanno quindi deciso di adottare un basso profilo sul merito, limitando al minimo ogni presa di posizione a riguardo e affidando ad Assodelivery il compito di esprimere la loro posizione sui punti più “scottanti” del dibattito. In particolare, ciò è avvenuto in occasione delle audizioni tenutesi in Parlamento legate alla genesi del d.lgs. 101/2019 e, invero, in poche altre occasioni. Il Presidente dell’associazione e principale portavoce è Matteo Sarzana, General Manager di Deliveroo Italia; le sue dichiarazioni, rilasciate nel corso di diverse interviste ed audizioni presso le Istituzioni, rappresentano pertanto una delle poche attendibili fonti che consentono di comprendere la posizione delle maggiori aziende del comparto sui temi più controversi. Come detto, la linea adottata da Assodelivery è quella di mantenere un profilo basso e particolarmente chiuso, rifiutando di concedere interviste in contesti potenzialmente “svantaggiosi” (tali rifiuti sono stati ad esempio resi noti dalla nota trasmissione televisiva Report). Nelle poche dichiarazioni che sono state rilasciate, la posizione delle aziende ruota attorno ad alcuni aspetti ricorrenti. Un primo punto sul quale l’associazione rappresentativa delle aziende di delivery insiste con decisione è il rifiuto dell’accusa di sfruttare e sottopagare i lavoratori. Tale nomea sarebbe, a detta di Sarzana, sostanzialmente frutto di un malinteso, di un’incapacità del legislatore (e da quella parte ostile dell’opinione pubblica) di comprendere le esigenze e le nuove sfide di un’industria nuova e ricca di opportunità: “Siamo davanti a un’industria innovativa che sta creando ricchezza e occupazione in tante forme in un settore che continuerà a crescere: abbiamo 400 occupati diretti, collaboriamo con 20 mila rider e abbiamo un indotto di oltre 5 mila occupati. Senza dimenticare il business aggiuntivo creato nella ristorazione che, nel 2019, vale quasi 600 milioni di euro e che continuerà a crescere nei prossimi anni. Serve responsabilità e maturità per tutelare gli interessi dei lavoratori e delle imprese, evitando interventi restrittivi, non necessari e soprattutto dannosi, perché determinerebbero conseguenze negative non solo sulle imprese, ma anzitutto sui lavoratori. Il governo si apra all’innovazione e al mondo del lavoro che cambia”. L’idea che sta alla base di queste dichiarazioni è chiara: il mercato del food delivery rappresenta un’opportunità per tutti, sia per le aziende che per i numerosi lavoratori, che grazie ad esse hanno trovato un’occupazione. Ciò è possibile a patto di non renderlo eccessivamente vincolato ed irrigidito da una normativa ancorata a principi desueti che mal si adatterebbero alle sue caratteristiche, finendo con il danneggiare in primo luogo gli stessi riders che vedrebbero così svanire tutti i vantaggi che questo tipo di occupazione offre loro. Infatti, è convinzione di Assodelivery che proprio gli aspetti oggetto delle critiche più feroci, ovvero il contratto di lavoro autonomo e la retribuzione a cottimo, rappresentino in realtà i veri vantaggi per gli stessi lavoratori. Il primo garantisce una flessibilità che si adatta alla perfezione al profilo medio del rider secondo quanto sostenuto dalle stesse piattaforme: “Oggi ci sono 20 mila collaboratori che fanno questo lavoro, nella maggior parte dei casi per meno di 6 mesi. Sono ragazzi che stanno studiando per laurearsi, che con i compensi si pagano una vacanza e che non desiderano essere assunti. Sono padri e madri di famiglia che hanno già un lavoro e integrano le loro entrate attraverso questa attività. Queste due categorie rappresentano oltre il 75% delle collaborazioni esistenti. Si tratterebbe, quindi, di categorie di persone attratte dalle opportunità lavorative offerte dal settore del food delivery proprio perché non caratterizzato dalla rigidità della subordinazione, non
  • 16. Food delivery e condizioni lavorative dei riders: cambiare prospettiva per equilibrare flessibilità e sicurezza Master GIURISTI IN AZIENDA 2020-2021 15 rappresentando la loro principale occupazione e fonte di reddito: non esistono orario o sede fissi di lavoro, il rider può liberamente concordare i propri turni di lavoro, rifiutarsi di effettuare una consegna, decidere in che zona della città operare. Legata all’esigenza di flessibilità ed altrettanto attraente per i rider sarebbe la caratteristica della retribuzione a cottimo. Tale forma di retribuzione viene preferita a quella legata ad uno stipendio fisso in considerazione del fatto che si andrebbe in tal modo a premiare il merito: più lavori più guadagni. Non uno strumento di sfruttamento quindi, quanto piuttosto un sistema che va a tutto vantaggio dei lavoratori più virtuosi, che invece verrebbero sensibilmente danneggiati dalla previsione di uno stipendio minimo come previsto dalle nuove norme introdotte con il d.l. 101/2019: “La normativa prevede un meccanismo complesso e poco chiaro per il calcolo dei compensi dei rider che a nostro parere va superato, in favore di un ulteriore sviluppo del mercato e di guadagni adeguati al lavoro svolto. Il compenso orario, secondo la norma, è legato al valore della prima consegna e non si potrà andare oltre il doppio. Bloccherà la possibilità di guadagnare di più e porterà a una disincentivazione di merito ed efficienza. La soluzione - prosegue Sarzana - è pertanto quella di eliminare il concetto di prevalente, così come è stato introdotto nel decreto-legge”. A supporto di queste posizioni, viene citato in diverse interviste un sondaggio svolto per conto di Assodelivery da parte di un ente terzo, la società SWG, che riporta un indice di soddisfazione della condizione lavorativa da parte dell’89% dei riders: sulla base di questi dati viene ribadita la convinzione di stare operando nella maniera corretta e di non rilevare valide ragioni per cambiare linea. Un ultimo aspetto riguarda la sicurezza dei ciclo-fattorini, altro aspetto per il quale le aziende del comparto sono state al centro di aspre critiche. Si è spesso sostenuto, infatti, che non venisse fornita alcun tipo di assicurazione (o comunque molto scarsa) ai riders in caso di infortunio e danni verso terzi. Anche in merito a ciò, la posizione di Assodelivery è quella di totale respingimento delle accuse: tutte le aziende associate, infatti, prevedono delle assicurazioni in caso di tali eventi. In conclusione, tuttavia, le aziende di food delivery si dichiarano consapevoli dell’esistenza di una contrapposizione, all’interno del mercato del lavoro di oggi, tra esigenze di flessibilità e sicurezza e che sono difficilmente conciliabili alla luce delle normative vigenti; si tratta di un problema non solo italiano che aziende come ad esempio Deliveroo si dicono disponibili ad affrontare fornendo piena collaborazione ai diversi governi coinvolti.
  • 17. Food delivery e condizioni lavorative dei riders: cambiare prospettiva per equilibrare flessibilità e sicurezza Master GIURISTI IN AZIENDA 2020-2021 16 L’emergenza Covid-19 Le problematiche relative all’assenza di un’adeguata e uniforme regolamentazione per la condizione lavorativa dei riders sono tornate ad essere attuali nel corso dell’emergenza sanitaria del Coronavirus durante il quale i riders sono stati fortemente esposti al rischio del contagio, essendo una delle poche professioni ad aver continuato a lavorare anche durante il lockdown. Infatti, nonostante la situazione di emergenza, le società di delivery hanno da subito rassicurato i propri clienti garantendo il servizio di consegne a domicilio anche durante il periodo di quarantena, nel rispetto delle necessarie precauzioni e delle condizioni di sicurezza imposte dal governo. Dopo un calo iniziale della domanda all’inizio della quarantena, dovuto al timore e all’incertezza della situazione, nonché al maggior tempo che gli italiani hanno potuto dedicare alla cucina casalinga, si è successivamente assistito a un forte boom della domanda del food delivery che ha portato le aziende a ricorrere ad assunzioni di massa per bilanciare l’aumento delle richieste di ordini online. In base ai risultati della ricerca condotta dall’Osservatorio nazionale di JustEat, per il primo mese e mezzo del lockdown il 90% degli intervistati (nei quali vanno ricompresi non solo le persone che ordinano da casa ma anche i ristoranti che utilizzano le piattaforme digitali per effettuare le consegne a domicilio) avrebbe considerato il food delivery come un servizio di natura essenziale. Circa il 60% del campione intervistato ha dichiarato anche di aver ordinato a domicilio durante il periodo di lockdown, mentre coloro che non ne hanno usufruito, hanno motivato la loro scelta dichiarando di aver voluto approfittare del tempo in casa per dedicarsi alla cucina. È inoltre aumentata la richiesta di attivazione del servizio da parte di ristoranti che non lo utilizzavano in precedenza ma che, in tale situazione, hanno visto nel food delivery un’opportunità per continuare il proprio business nonostante la chiusura. Se da una parte l’opinione pubblica ha riconosciuto il prezioso contributo fornito dai riders durante questo periodo, non sempre le autorità si sono dimostrate altrettanto riconoscenti: noto è infatti il caso, avvenuto a Pisa, di un gruppo di fattorini che, alla fine del turno di lavoro, sono stati multati per essersi avvicinati troppo tra loro senza rispettare la distanza di sicurezza. Degno di nota anche il caso del rider che, prestando servizio nella zona di Bresso, vicino Milano, si è visto comminare una multa di 533 euro per aver cercato di ottimizzare i tempi di consegna attraversando un parco pubblico chiuso secondo quanto previsto dal decreto ministeriale. Non pochi sono stati inoltre i problemi organizzativi che i riders hanno dovuto affrontare a causa della situazione di emergenza: ad esempio, si sono ritrovati spesso a dover percorrere lunghi tratti in bicicletta per raggiungere il ristorante indicatogli dalla piattaforma, per poi trovarlo chiuso a causa della mancata segnalazione nell’app della sospensione dell’attività; in altri casi invece, vista l’elevata richiesta di cibo da asporto, davanti ai ristoranti si sono formate lunghe file di fattorini che non hanno permesso il rispetto delle norme sul distanziamento. Non sono mancati segnali di sensibilità da parte delle varie aziende verso la categoria dei riders; UberEats e Deliveroo, ad esempio, hanno proposto un rimborso individuale di 25 euro sull’acquisto di mascherine ma, nonostante le buone intenzioni, il risultato non è stato quello sperato: bisogna infatti considerare che nel pieno dell’epidemia il reperimento delle mascherine è stato molto difficoltoso; in altri casi invece, il rimborso è stato negato dal momento che, sullo scontrino fiscale, al posto della dicitura “mascherine” era riportato “prodotti medicinali” e quindi, in quanto tali, non coperti dal coupon.
  • 18. Food delivery e condizioni lavorative dei riders: cambiare prospettiva per equilibrare flessibilità e sicurezza Master GIURISTI IN AZIENDA 2020-2021 17 Un ulteriore tentativo di tutela nei confronti dei ciclo-fattorini è stato quello avviato da Deliveroo che ha provveduto a stipulare delle coperture assicurative per i propri dipendenti nel caso di contagio: da 30 euro al giorno fino ad un massimo di 30 giorni totali in caso di ospedalizzazione, e fino a 1500 euro in caso di ricovero in terapia intensiva. Nonostante la bontà delle intenzioni, ci si è scontrati con le lungaggini burocratiche, le quali per la liquidazione dell’assicurazione, richiedevano un doppio tampone positivo a prova dell’avvenuto contagio, cosa impossibile da ottenere nelle strutture pubbliche durante il picco dei contagi. Va infine menzionata l’iniziativa avviata da diverse regioni del Paese che hanno provveduto a distribuire mascherine, ma che non ha avuto i risultati sperati dal momento che una buona parte dei riders non ha potuto usufruirne in quanto composta da immigrati che lavorano in nero e che, per paura dei controlli, non si sono recati nei centri di distribuzione. Al fine di garantire la tutela della salute pubblica e la sicurezza del lavoro durante il periodo di emergenza è stato richiesto ai datori di lavoro di aggiornare il DVR (documento di valutazione dei rischi) nell’ipotesi di “rischi specifici connessi alla peculiarità dello svolgimento dell’attività lavorativa, ovvero laddove vi sia un pericolo di contagio da Covid-19 aggiuntivo e differente da quello della popolazione in generale”. A partire da fine marzo, nel corso di una più ampia indagine avviata dal pm Tiziana Siciliano sul fenomeno del food delivery, al fine di far luce sugli aspetti critici del lavoro dei riders che si è avuto modo di considerare in precedenza, è stato richiesto alle società di food delivery di presentare l’eventuale adeguamento del DVR al nuovo rischio del contagio da Coronavirus e di documentare la eventuali forniture dei dispositivi di sicurezza garantite ai propri dipendenti e ai riders, rientrando tale attività in quelle consentite anche in fase di chiusura. Quello che tuttavia è emerso da tale indagine è che la maggior parte delle società di delivery non hanno provveduto a adeguare il DVR alle novità previste per la situazione del Covid e non avrebbero fornito alcun tipo di strumento di protezione, scaricando sui lavoratori stessi la responsabilità per l’approvvigionamento di Dpi e del rischio sanitario. Dalla relazione del Nucleo Ispettorato del Lavoro di Milano è risultato che l’unica società ad aver provveduto ad adeguare il documento valutazione rischi ai nuovi protocolli di sicurezza, inviando ai lavoratori adeguati kit con mascherine e guanti, sarebbe JustEat, mentre altre società, quali ad esempio Deliveroo e Glovo, avrebbero omesso di effettuare la relativa valutazione e analisi sull’esposizione al rischio per tutti i lavoratori, riders compresi, limitandosi soltanto a consegne sporadiche di mascherine. Sarebbe infine stato impossibile ottenere i documenti da parte di UberEats Italy, dal momento che l’indirizzo di posta elettronica certificata depositato in Agenzia entrate e in Camera di commercio è risultato inibito alla ricezione delle mail, né è stato possibile risalire a cassette postali, numeri telefonici o altri indirizzi. La società, inoltre,è risultata sconosciuta all’Inps. In merito all’inchiesta condotta, alcune delle società di food delivery hanno replicato tramite i propri canali ufficiali. La Foodinho srl, società riconducibile a Glovo, ha affermato che pur non avendo aggiornato il DVR, ha provveduto alla distribuzione di adeguate mascherine. Allo stesso modo, la società Glovo ha dichiarato di aver “distribuito attivamente nei punti nevralgici” delle città “oltre 40mila mascherine e guanti in lattice ai riders”. Ci sarebbe stata dunque una distribuzione dei dispositivi rapida e capillare, anche se si è dovuto far fronte a tempi di attesa più lunghi di quelli previsti a causa delle difficoltà di rifornimento. Riguardo all’adeguamento del DVR al nuovo rischio biologico da Covid, Glovo ha chiarito che i riders non sono stati inclusi “poiché la normativa in merito non prevede tale obbligo per i lavoratori occasionali e/o autonomi. Gli stessi svolgono i servizi di trasporto in regime di auto-organizzazione e sono responsabili ai sensi dell'art.
  • 19. Food delivery e condizioni lavorative dei riders: cambiare prospettiva per equilibrare flessibilità e sicurezza Master GIURISTI IN AZIENDA 2020-2021 18 21, comma b) del D.Lgs 81/08 delle modalità con cui svolgono la propria attività”. La società Glovo, si legge ancora nel comunicato, si sarebbe attivata sin da subito “per informare tempestivamente i corrieri sui comportamenti da adottare nel pieno rispetto delle disposizioni emanate dalle autorità competenti, al fine di garantire un servizio e tutelare la salute di tutti gli attori della filiera: riders, clienti e partners”. Anche la società Deliveroo si è esposta dichiarando che, nonostante la mancanza dell’adeguamento del DVR, avrebbe comunque provveduto alla consegna di mascherine ai propri riders, nonché a una policy per il rimborso sull’acquisto di queste da parte dei fattorini e una campagna di distribuzione dei Dpi, come anche si era accennato poc’anzi in questa sede. In relazione ai contenuti delle indagini della Procura di Milano, Deliveroo ha invece dichiarato di aver “intrapreso numerose e importanti iniziative a sostegno dei riders e ogni notizia che riporti il contrario è priva di fondamento. La società è andata ben oltre quello che è richiesto dalla legge per proteggere i riders durante questa crisi e di questo siamo orgogliosi. (...) Siamo sempre stati aperti e trasparenti con le autorità riguardo le iniziative che stiamo portando avanti a sostegno dei riders - prosegue Deliveroo - e continueremo a farlo”. Avrebbe poi fornito alle “Autorità Competenti, compreso il Comando Carabinieri per la Tutela del Lavoro, Nucleo Ispettorato del Lavoro di Milano, tutte le informazioni richieste”. Il documento di valutazione dei rischi, si legge nella nota, “è stato aggiornato sulla base delle nuove necessità, come richiesto dalla normativa. I legali che abbiamo consultato ci hanno confermato che il DVR è destinato al solo personale dipendente. Questa è una pratica comune per tutte le aziende. Per questo motivo non sono stati inclusi i riders che, come è noto, sono lavoratori autonomi”. Avrebbero inoltre destinato ai riders “importanti iniziative per la loro tutela”, tra cui il “rimborso dei dispositivi di protezione individuale”. Le mascherine sono state “distribuite direttamente da Deliveroo come iniziativa di responsabilità sociale, insieme alle altre piattaforme di AssoDelivery e abbiamo promosso iniziative analoghe di enti locali, come quella intrapresa dal Comune di Milano”. Si legge ancora: “Viene istituita una specifica procedura per assicurare il distanziamento sociale di almeno un metro e l'assenza di contatto. La funzione viene implementata nell'app e comunicata a tutti i riders e clienti”. Sarebbe stato inoltre garantito a tutti i riders che collaborano con Deliveroo di accedere “gratuitamente ad un’assicurazione che li copre in caso di contagio da Covid”. In conclusione, la società afferma poi che “sull’evoluzione dell'emergenza epidemiologica, sulle normative da rispettare, nonché le linee guida per gestire le consegne in sicurezza”, è stata inserita un’apposita sezione sul sito dei riders. Nonostante le dichiarazioni di Deliveroo, il 1 maggio 2020 i riders modenesi si sono radunati in Largo Garibaldi per scioperare denunciando “un inaccettabile mancanza di tutele salariali e di sicurezza”. Alla luce dell’intervista condotta dalla Gazzetta di Modena i riders hanno dichiarato non solo di essere ancora in attesa dei dispositivi di protezione promessi, ma anche che, dall’inizio dell’emergenza sanitaria, Deliveroo, nonostante l’aumento del lavoro, avrebbe ridotto di circa il 25 % i guadagni a consegna, un fattore che, trattandosi di lavoro a cottimo, avrebbe fortemente inciso sulla loro retribuzione. Inoltre, data la natura del loro contratto, ovvero un contratto a prestazione occasionale, neppure avrebbero potuto rifiutarsi di lavorare dal momento che non è stato previsto alcun tipo di supporto da parte dello Stato. In base ai comunicati ufficiali delle varie aziende, la scelta di non adeguare il DVR ai nuovi protocolli di sicurezza è dovuta al fatto che i riders sono da loro considerati come lavoratori autonomi o occasionali e quindi come unici responsabili per il reperimento degli adeguati strumenti e dispositivi di protezione. In senso contrario si sono tuttavia posti il Tribunale di Firenze e di Bologna che, interpellati sulla questione della condizioni di sicurezza dei riders durante il
  • 20. Food delivery e condizioni lavorative dei riders: cambiare prospettiva per equilibrare flessibilità e sicurezza Master GIURISTI IN AZIENDA 2020-2021 19 Coronavirus, hanno emanato due decreti che dispongono il diritto dei riders di ricevere dal committente per cui lavorano tutti i dispositivi di sicurezza che sono necessari alla tutela del diritto alla salute, dimostrando in questo modo di aver compreso la necessità sempre più forte al giorno d’oggi di estendere diritti e tutela anche a quelle nuove categorie di lavoratori che, essendo legate al nuovo mondo dell’economia digitale, non risultano ancora perfettamente inquadrate a livello normativo.
  • 21. Food delivery e condizioni lavorative dei riders: cambiare prospettiva per equilibrare flessibilità e sicurezza Master GIURISTI IN AZIENDA 2020-2021 20 Considerazioni conclusive L’analisi svolta nei paragrafi precedenti, ha messo in evidenza un quadro, quello del settore food delivery, intricato e per certi versi contraddittorio. Che esista un problema legato all’inquadramento dei riders ed alla gestione del loro rapporto di lavoro con le aziende titolari delle piattaforme appare ormai una verità incontestabile. Per certi versi, anzi, si può addirittura definirla di fatto incontestata, se si pensa che sul sito ufficiale di Deliveroo si parla apertamente della necessità di collaborare con i governi dei paesi in cui opera per giungere al superamento del “compromesso tra flessibilità e sicurezza che esiste attualmente nel diritto del lavoro”. Come si è avuto modo di illustrare nel presente elaborato, vi sono diverse criticità che pongono la categoria dei ciclo-fattorini in una posizione di estrema debolezza nei confronti dei loro datori di lavoro. Questi, dal canto loro, sono costretti ad operare una decisa politica di contenimento dei costi per far fronte alle spese elevate legate al funzionamento del loro modello di business, che le entrate da sole non sono ancora in grado di coprire. Laddove vi siano margini di risparmio, le aziende cercano quindi di sfruttarli nella misura più ampia possibile: si può ben comprendere, data la posizione di debolezza di cui si trattava poc’anzi, come siano proprio i riders a pagare in primo luogo il prezzo di questa politica. Uno dei motivi principali, a nostro avviso, può ravvisarsi in primo luogo nell’equivoco che si accompagna al concetto stesso di “gig economy”, a partire dalla sua semplice traduzione letterale: “economia dei lavoretti”. Si tratta di una denominazione che forse riflette nella maniera più fedele il principio che ha ispirato la nascita delle piattaforme digitali protagoniste di tale fenomeno (e quelle di food delivery rappresentano forse quelle più importanti all’interno di questa categoria) e che ha determinato il fattore di innovazione e di successo attorno al quale hanno saputo costruire il proprio successo tanto rapido quanto inarrestabile. Non a caso, la versione proposta dalle stesse aziende di delivery in difesa delle proprie posizioni, nell’ambito del dibattito di cui qui si tratta, riguardo alla preferenza rispetto ad un inquadramento dei riders quali lavoratori autonomi, insiste in maniera molto netta su questo aspetto: quella del rider è un’occupazione concepita per chi è alla ricerca di un “lavoretto”, per l’appunto, e non di un’occupazione fissa e principale: giovani studenti, o lavoratori in cerca di un’occasione per “arrotondare” lo stipendio principale. Così configurata l’occupazione, è facile comprendere come la richiesta di tutele e retribuzioni assimilabili a quelle proprie dei lavoratori subordinati risulterebbe essere molto meno sacrosanta, se non addirittura esagerata. Come si potrebbe parlare di tredicesima o di ferie pagate quando, in fondo, si parla di un lavoretto? Il fatto che queste problematiche siano state prese seriamente in considerazione solo di recente da parte dell’opinione pubblica e della politica è conseguenza, tra le altre cose, proprio del fatto che il lavoro del rider fosse tradizionalmente legato a questa concezione. Solo di recente è stato possibile rendersi conto che la realtà dei fatti è del tutto diversa: sono moltissimi ormai i ciclo-fattorini di professione, quelli che svolgono questa attività in via principale. Se anche l’inesistenza di dati certi in merito non renda possibile affermare con certezza che si tratti effettivamente della maggioranza, rappresentano in ogni caso certamente una quota troppo elevata per poter continuare ad evitare di prendere atto dell’avvenuto mutamento del panorama di partenza. Che i lavoratori del comparto abbiano necessità di essere maggiormente tutelati e considerati appare ormai chiaro.
  • 22. Food delivery e condizioni lavorative dei riders: cambiare prospettiva per equilibrare flessibilità e sicurezza Master GIURISTI IN AZIENDA 2020-2021 21 Va considerato, inoltre, che le principali realtà della gig economy hanno raggiunto dimensioni e maturità tali da non consentire loro di perseverare nella pretesa di essere inquadrate come “giovani” (non solo riguardo al modello di business ma anche nel senso di “composta da giovani”) imprese emergenti che, come tali, possono godere di una generale considerazione in termini positivi da parte di politica ed opinione pubblica: in un contesto riconosciuto come tradizionalmente “vecchio” ed allergico ad ogni tipo di innovazione come quello italiano, giovani imprese che abbiano avuto la capacità di imporsi, nonostante tutto, vengono di norma esaltate come esempi virtuosi che necessitano di supporto e non di vincoli che possano arrestarne la crescita. Per le aziende di food delivery, questa particolare sorta di “credito” reputazionale pare essersi ormai esaurito e la linea da loro adottata nei confronti delle richieste dei riders, caratterizzata da una certa rigidità e chiusura (tratti, questi, generalmente intesi come lontani dalla mentalità di aziende giovani e moderne), appare sempre meno comprensibile agli occhi del pubblico, quindi anche dei potenziali clienti/partners. Questi pericoli in termini di reputation non sono stati comunque valutati come decisivi per un cambio di rotta da parte delle principali aziende del settore che, come già si è accennato in precedenza, hanno scelto di adottare una condotta di chiusura sull’argomento, limitando le prese di posizione, peraltro sempre molto simili quanto al contenuto, ai soli canali ufficiali (come ci è stato confermato direttamente dal direttore HR di Deliveroo, al quale abbiamo provato, senza successo, a richiedere la disponibilità dell’azienda a rispondere ad alcune domande sull’argomento), in particolare attraverso l’associazione di rappresentanza chiamata Assodelivery. Una scelta, questa, che pare essersi comunque rivelata vincente se è vero che, numeri alla mano, il settore del food delivery ha registrato una crescita costante in termini di ricavi negli ultimi anni. In termini puramente commerciali, quindi, le aziende non hanno alcun motivo di ritenere di dover operare un cambio di rotta: se c’è stato un peggioramento in termini di reputation, questo non si è rivelato decisivo per indurre il pubblico a non usufruire dei servizi offerti, anzi. A nostro avviso, la percezione a livello di immagine da parte della platea dei consumatori molto probabilmente è peggiorata in maniera sensibile. Al contempo, però, è aumentata l’importanza dell’attività di consegna di cibi pronti a domicilio, divenuta evidentemente una comodità irrinunciabile in un contesto in cui il tempo assume sempre più i connotati di una risorsa tanto preziosa quanto scarsa. Può essere questa, dunque, una delle principali spiegazioni dell’aumento dei volumi di business registrati dal comparto, nonostante tutto. Non solo: come si è avuto modo di osservare nel corso di questa analisi, tale successo commerciale è stato in grado di confermarsi, in termini forse addirittura superiori, durante il periodo di emergenza dovuta alla pandemia da Coronavirus, nonostante alle problematiche a cui si accennava poc’anzi si siano aggiunte le polemiche legate all’adozione di misure di sicurezza adeguate per la salvaguardia della salute di riders e clienti. La previsione di rimborsi per l’acquisto di DPI da parte dei singoli ciclo-fattorini, infatti, è sembrata una contromisura eccessivamente “passiva”: oltre alle menzionate difficoltà riscontrate nell’ottenimento del rimborso da parte dei riders, tale soluzione appare tenere anche scarsamente conto della tutela della salute di partners e consumatori (e quindi due categorie fondamentali di stakeholders). A nostro avviso, una maggiore cura da parte delle aziende nell’assicurarsi che ogni rider recante il proprio logo si presentasse alle porte dei ristoranti o delle case con l’attrezzatura di sicurezza adeguata, al posto di lasciarne la responsabilità al singolo (di fatto, quindi, disinteressandosi dell’effettiva tutela della sicurezza se non dei riders, almeno dei
  • 23. Food delivery e condizioni lavorative dei riders: cambiare prospettiva per equilibrare flessibilità e sicurezza Master GIURISTI IN AZIENDA 2020-2021 22 consumatori), avrebbe potuto rappresentare un’occasione per migliorare la propria immagine ad un prezzo tutto sommato piuttosto contenuto in termini economici. Ancora una volta, quindi, le società di food delivery hanno deciso di operare un sacrificio in termini di immagine al fine di massimizzare i profitti. Scelta che, come detto, si è dimostrata sicuramente vincente per quanto concerne i ricavi. Al termine di queste considerazioni, sarebbe legittimo domandarsi perché sarebbe opportuno cambiare linea d’azione e mostrarsi più aperti alle richieste di tutela e di miglioramento dell’aspetto retributivo nei confronti dei riders, se si tratta di una questione che comunque non inficia il successo commerciale che hanno riscontrato le principali piattaforme. Il rischio, a nostro parere, è quello di porsi in una posizione tale, da non riuscire a far valere quelle che sono delle legittime considerazioni riguardo alle peculiarità che connotano le attività legate al mondo gig economy e del settore food delivery in particolare, soprattutto nell’ambito del dialogo con le Istituzioni impegnate ad elaborare una struttura normativa per questo nuovo fenomeno, che arrivati a questo punto appare essere ormai una necessità indifferibile. Non a caso, l’emanazione del D.l. 101/2019 è stata accolta in termini negativi dalle aziende del comparto, in quanto ancorata ai principi giuslavoristici tradizionali che mal si adattano alle esigenze di un’industria nuova che necessiterebbe dell’elaborazione di una disciplina innovativa, come sottolineato anche da Assodelivery in occasione delle audizioni in Parlamento alle quali è stata chiamata a partecipare. La previsione dell’obbligo di inquadrare i riders come lavoratori subordinati, soprattutto, rischia di compromettere lo svolgimento di un’attività che richiede necessariamente dei tratti di flessibilità propri invece dell’attuale disciplina riservata ai lavoratori autonomi. Il fatto che tali aspettative siano state quasi del tutto disattese dal decreto è il risultato di un’incompatibilità comunicativa tra i rappresentanti del Governo, spinti a schierarsi al fianco dei riders considerati parte “debole” del confronto anche sull’onda della percezione da parte dell’opinione pubblica, e le aziende stesse, che così poco si sono curate di questo aspetto. In questo modo, è andata persa una preziosa occasione per arrivare rapidamente ad una soluzione condivisa che allo stato attuale appare difficilmente adottabile in tempi brevi, con tutte le conseguenze che ciò può comportare sul futuro stesso dell’industria.
  • 24. Food delivery e condizioni lavorative dei riders: cambiare prospettiva per equilibrare flessibilità e sicurezza Master GIURISTI IN AZIENDA 2020-2021 23 Bibliografia  https://www.osservatori.net/it_it/osservatori/comunicati-stampa/food-grocery-online- crescita-valore-2019  https://assodelivery.it/chi-siamo/  https://formiche.net/2019/10/innovazione-industria-lavoro-sarzana-food-delivery/  https://www.ilmessaggero.it/economia/news/dl_imprese_assodelivery_guadagni_riders_risc hiano_di_essere_quasi_dimezzati-4759005.html  https://www.jobbydoo.it/descrizione-lavoro/rider  https://www.rollingstone.it/politica/parla-jamy-ex-rider-di-foodora-lavoravo-40-ore-per- 400-euro/408293/  https://www.avvenire.it/economia/pagine/tutele-insufficienti-per-i-rider-relazione-cc-milano  https://milano.corriere.it/notizie/cronaca/20_maggio_05/coronavirus-inchiesta-delivery- alcune-societa-carenti-rischi-rider-b284921c-8ed1-11ea-8162- 438cc7478e3a.shtml?refresh_ce-cp  https://www.tio.ch/dal-mondo/attualita/1435894/riders-lavoro-milano-food-delivery- lavoratori-domicilio-pizza-rischio-euro  https://www.filodiritto.com/obbligo-le-piattaforme-di-food-delivery-di-consegnare-ai-rider- mascherine-e-guanti  https://www.avvenire.it/economia/pagine/tutele-insufficienti-per-i-rider-relazione-cc-milano  https://milano.corriere.it/notizie/cronaca/20_maggio_05/coronavirus-inchiesta-delivery- alcune-societa-carenti-rischi-rider-b284921c-8ed1-11ea-8162- 438cc7478e3a.shtml?refresh_ce-cp  https://www.tio.ch/dal-mondo/attualita/1435894/riders-lavoro-milano-food-delivery- lavoratori-domicilio-pizza-rischio-euro  https://www.filodiritto.com/obbligo-le-piattaforme-di-food-delivery-di-consegnare-ai-rider- mascherine-e-guanti  https://tg24.sky.it/milano/2020/05/05/coronavirus-milano-food-delivery-indagini-rider  https://www.ilgiorno.it/cronaca/rider-covid-1.5136659  https://www.genova24.it/2020/01/cibo-a-domicilio-a-genova-un-esercito-di-300-rider- chiediamo-un-contratto-vero-e-maggiori-tutele-229700/  https://www.money.it/Riders-tutele-compensi-minimi-infortuni-cosa-prevede-legge  https://www.ilsole24ore.com/art/per-rider-si-apre-difficile-tavolo-contrattazione-AC0o9Rp  https://www.laleggepertutti.it/322516_rider-nuove-tutele  https://www.corrierecomunicazioni.it/digital-economy/riders-licenziati-foodora-vince-il- tribunale-non-sono-dipendenti/  https://bologna.repubblica.it/cronaca/2019/02/11/news/riders_bologna-218862970/  https://www.avvenire.it/economia/pagine/i-rider-chiedono-di-fermare-le-consegne-e-lavvio- del-reddito-di-quarantena  https://milano.repubblica.it/cronaca/2020/05/05/news/coronavirus_rider_indagine_procura_ carenze_protezioni_mascherine_deliveroo_glovo-255747856/  https://www.open.online/2020/05/05/coronavirus-documento-carabinieri-rider-societa- poche-mascherine-guanti-rischi-sottovalutati/
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