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1. La mente sensoriale
1.1 L’equilibrio dinamico dei processi sensoriali
I nostri sensi rappresentano l’origine di quel processo di adattamento in
continuo equilibrio dinamico che ci permette di sopravvivere e di intera-
gire con il mondo. Il concetto di equilibrio dinamico è alla base della vita
stessa: un organismo sopravvive perché riesce a mantenere un equilibrio tra
l’energia che accumula e quella che consuma, allo stesso modo una specie
sopravvive perché riesce a mantenere un equilibrio tra le risorse disponi-
bili e il consumo che ne fa. La vita, quindi, per creare un equilibrio di tal
fatta, deve continuamente trovare nuove soluzioni che possano portarla a
ottimizzare il consumo delle risorse oppure ad adattarsi per poterne consu-
mare di nuove. Su questo dinamismo si fonda il concetto di esistenza ed è su
questo stesso principio che si regola l’attività dei nostri sensi: quest’ultima,
attraverso l’elaborazione operata dal cervello, è volta continuamente all’ot-
timizzazione del nostro interagire con il mondo e con gli artefatti. Seppur
l’equilibrio dinamico sia il risultato di continue mutazioni che avvengono
tanto internamente quanto esternamente ai nostri corpi, la mente cerca in-
varianti e modelli per orientarsi. Ciò favorisce la percezione di una realtà
in cui le forme, i materiali, le illuminazioni e l’angolazione degli oggetti del
mondo giungono a noi mescolati alla rinfusa, ma vengono subitamente “or-
dinati” per farci vedere un’unica forma, con un solo colore, con una precisa
angolazione sotto una determinata luce (Pinker 1997). Questa sorprendente
facoltà di “ricombinazione” non va relegata alla sola percezione visiva, ma
si deve estendere alla grande capacità multisensoriale del nostro cervello che
vede intersecarsi continuamente sensi apparentemente distinti per rispondere
congiuntamente o alternativamente all’elaborazione della realtà. Siamo in
grado di conferire un significato a ciò che percepiamo e siamo convinti, per
istinto, di cogliere un aspetto differente del mondo in virtù del senso che
utilizziamo: crediamo di ascoltare un racconto con le orecchie, di gustare un
cibo con la lingua, di orientarci in uno spazio con gli occhi. Invece, quando
6
l’informazione sensoriale raggiunge il cervello a conferirle un significato
è l’attività collaborativa, continua e simultanea di aree sensoriali molto di-
verse. Nell’ascoltare un discorso non ci accorgiamo di quanto il movimento
labiale del nostro interlocutore incida sulla comprensione di ciò che “sentia-
mo”, così come non rileviamo i suoni riflessi che concorrono a farci orientare
meglio in un ambiente o non ci rendiamo conto che il colore di una bevanda
contribuisce a determinarne il sapore. Ascoltare gli ambienti che occupiamo,
comprendere la provenienza degli odori, gustare con la vista o toccare con i
suoni, rappresentano tutti esempi di questo mondo multisensoriale che non è
al di fuori, quanto piuttosto dentro la nostra mente (Rosemblum 2011).
È stupefacente rilevare quanti aspetti ci accomunano agli altri esseri vi-
venti, ma è altrettanto affascinante scoprire quante micro-varianti adattive
sono state messe in pratica non soltanto tra le diverse specie, ma anche all’in-
terno della stesse: ecolocalizziamo analogamente ai pipistrelli, sentiamo gli
odori in modo simile a quello dei cani, abbiamo una vista tridimensionale
come quella degli scimpanzé, e molto altro ancora. Tuttavia, ogni specie pre-
senta modelli di organizzazione sensoriale differenti e capacità di astrazione
adeguate al proprio ambiente. Diventa, pertanto, fondamentale comprendere
le priorità evolutive che, nell’uomo, ne hanno determinato abilità specifiche,
operando una prima categorizzazione “per funzioni” in risposta a un preci-
puo contesto adattivo.
1.2 Le realtà multisensoriali
I sensi concorrono continuamente a persuaderci che qualcosa esiste dav-
vero, che ciò che percepiamo è “reale”. Questa ingegnosa attività non è es-
clusiva degli esseri umani, ma di ogni singola specie presente sulla terra che,
per il solo fatto di esistere, si rivela adeguata alla propria “realtà”. Così, se
consideriamo l’enorme varietà del mondo vivente1
e le sue infinite possibilità
di mutazione, possiamo facilmente inferire che esistono tante “realtà” almeno
quante sono le specie che lo compongono (Dawkins 2011). Le innumerevoli
differenti soluzioni percettive, selezionate dall’evoluzione per ogni singola
specie, mettono in luce come ogni essere vivente si sia evoluto per sfruttare
un particolare tipo di risorse in un determinato ambiente o “nicchia2
”. In
quest’ottica, il sistema percettivo rappresenta parte di un meccanismo atto
1
Le specie esistenti note agli scienziati sono circa 1,5 milioni, ma sembra che molte
siano ancora da scoprire e, queste ultime, comprenderebbero una cifra che va dai 2 agli 8
milioni di specie appartenenti a tutti i regni del vivente (Bellone M. 2013, p. 28).
7
2
L’idea di “nicchia” (dal latino nidus) intesa come cavità o incavo la cui funzione è
quella di accoglienza e di protezione, include un aspetto portante del processo evolutivo
rimandando a quella condizione di separazione e di isolamento, spesso geografici, che ha
visto popolazioni, anche molto prossime, allontanarsi le une dalle altre e dare avvio a una
vita evolutiva autonoma. Questo rappresenta il contesto grazie al quale è iniziato il processo
di ramificazione che ha dato origine a tutte le specie presenti sul pianeta (Dawkins R. 2011).
ad individuare soluzioni utili alla sopravvivenza, all’interno di una specifica
nicchia di appartenenza, in cui specie viventi condividono strumenti e mo-
dalità di uso di questi, concentrando soluzioni simili ai medesimi problemi.
Se la diversità contiene già di per sé un’infinita gamma di brillanti solu-
zioni adattative, è innanzitutto nell’aggregazione di tale diversità che possia-
mo individuare le “invenzioni” altamente creative volte alla conservazione.
Sappiamo, infatti, che molti organismi sono in grado di mutare più volte du-
rante il loro sviluppo. Tali mutazioni comprendono, spesso, livelli più vicini
alla “metamorfosi” che a un vero e proprio processo lineare di crescita. Quel-
lo che varia sembra essere più la velocità della mutazione piuttosto che l’en-
tità della stessa. Anche la metamorfosi fisica che compie l’essere umano fa sì
che riconoscerci da adulti nelle nostre foto da bambini richieda una capacità
di astrazione molto elevata. Gli elementi biologici si adattano costantemente
alle esigenze scaturite dalla nicchia, pur mantenendo funzioni simili. Basti
pensare che le zone visive del nostro cervello si ri-mappano completamente
circa sette volte durante la nostra crescita e questo per seguire l’aumento
delle dimensioni del volto e il conseguente allontanamento degli occhi. Solo
attraverso queste continue mutazioni, l’essere umano può mantenere la per-
cezione visiva binoculare, elemento basilare della visione in tre dimensioni.
Il tasso di metamorfosi anche di un solo organo, implica che vi sia una
struttura fisica in grado di supportarlo. Le grandi mutazioni tipiche dei verte-
brati sono più difficilmente sostenibili da parte delle specie dotate di un eso-
scheletro. Lo stesso principio di “riorganizzazione” fa sì che ciò che non sa-
rebbe possibile in termini di dimensioni e di volumi per un essere umano, lo
diventa, ad esempio, per un insetto: gli insetti non hanno vertebre e neanche
ossa ma la loro pelle secerne un rivestimento esteriore che forma uno sche-
letro solido, composto di chitina, che permette a un animale di nascondersi
e di proteggersi senza compromettere l’attività di volo, grazie al peso ridotto
di tale materiale. In una comune mosca domestica gli occhi ricoprono quasi
tutta la testa e sono composti per la maggior parte da ommatidi che, come dei
minuscoli telescopi stretti tra loro, guardano a tutte le direzioni dello spazio;
le immagini accurate, puntuali e raccolte in modo indipendente dai singoli
ommatidi si raggruppano come le pietre di un mosaico a generare un’imma-
gine globale. Rispetto all’occhio umano con il cristallino e l’immagine che
8
proietta, è un modo diverso di guardare alla realtà, ma non si può giudicare
migliore o peggiore, quanto piuttosto funzionale alla scala dimensionale e
alle sue necessità di interazione con il proprio ambiente.
L’acuità olfattiva della mosca, decisamente superiore a quella degli esseri
umani, non si può paragonare all’apparato respiratorio, infatti si situa a livel-
lo delle antenne e consente a questi insetti di raggrupparsi in modo estrema-
mente rapido intorno a un pezzo di carne o a un escremento. Per selezionare
il gusto, la mosca assaggia il cibo innanzitutto con le zampe, operando una
prima selezione altamente strategica che può prevenire l’intossicazione o
l’avvelenamento.
Quando un violinista esegue un trillo, la frequenza con cui tocca la corda
va dai 7 agli 8 secondi. Una mosca domestica batte le ali 190 volte al secon-
do: questa sorprendente agilità rappresenta la ragione per cui la mosca può
scappare facilmente ai pericoli e alle minacce della propria realtà (Von Frisch
1959).
Per la maggior parte delle specie di cui oggi siamo a conoscenza, è pos-
sibile ipotizzare un modello del mondo guidato e accomodato dai dati sen-
soriali, ma costruito affinché possa essere funzionale all’interazione con il
mondo circostante. In quest’ottica, “realmente” assume un significato estre-
mamente vario in quanto la natura del modello è intimamente correlata al
tipo di animale che lo percepisce: un animale che vola ha bisogno di un tipo
di modello differente rispetto a quello di un animale che cammina, si arram-
pica o nuota. Il cervello di una scimmia deve possedere un software capace
di simulare un mondo tridimensionale di rami e di tronchi, così il software di
una talpa sarà adeguato a un mondo sotterraneo.
“Realmente” per un animale è qualsiasi cosa di cui il suo cervello neces-
sita per assisterlo nella sua sopravvivenza e siccome specie diverse vivono in
mondi differenti, la varietà di “realtà” può assumere dimensioni sconcertanti.
La natura del modello appare governata da come questo deve essere utiliz-
zato, piuttosto che dal modello sensoriale utilizzato. Ogni specie ha quindi
evoluto un meccanismo di elaborazione dell’informazione designato a ri-
solvere i propri specifici problemi all’interno di una determinata nicchia di
riferimento.
1.3 La realtà dell’uomo: un mondo di mezze misure
Il biologo evoluzionista, Richard Dawkins, considera il processo evo-
lutivo dell’uomo nella sua imprescindibile interazione con la materia. In
quest’ottica, il cervello umano si sarebbe evoluto in funzione degli ordini di
9
magnitudine, di grandezza e di velocità in cui operano i nostri corpi. Anche
se percepiamo come “solidi” oggetti quali cristalli e rocce questi sono “soli-
di” soltanto all’apparenza: infatti, se ci soffermiamo a pensare alla smisurata
distanza che caratterizza lo spazio vuoto tra gli elettroni e il nucleo all’inter-
no degli atomi, dobbiamo chiederci perché l’uomo percepisca gli aspetti di
“solidità” di “durezza” e di “impenetrabilità” degli oggetti. In quest’ottica,
afferma Dawkins: «se un neutrino avesse un cervello, che si fosse evoluto da
antenati della taglia di un neutrino, esso direbbe che le rocce consistono real-
mente in uno spazio vuoto» (Dawkins R. 2007). Allo stesso modo, anche se
le nostre vite sono governate dalla gravità, non risentono in modo particolare
della forza della tensione superficiale. Un piccolo insetto ha, invece, priorità
decisamente opposte. Così, Dawkins definisce un “mondo di mezze misure”
l’ambiente di medie dimensioni in cui l’uomo ha evoluto abilità specifiche
per interagire con una “realtà” che gli è propria. Per gli esseri umani il mon-
do di mezze misure è rappresentato dalla gamma di taglie e di velocità con
cui ci sentiamo istintivamente a nostro agio perché è con queste che ci siamo
evoluti. L’uomo è consapevole di un ricco campo di sensazioni: i colori e le
forme del mondo che lo circondano, i suoni e gli odori che lo avvolgono, le
pressioni e i dolori della pelle, delle ossa e dei muscoli.Aquesto si aggiungo-
no anche gli aspetti emotivi che possono rendere una sensazione “piacevole”
o “spiacevole”, “eccitante” o “rilassante” e molto altro ancora. Tuttavia, è
sufficiente pensare alla ristretta gamma dello spettro elettromagnetico che
percepiamo come luce di colori differenti, restando ciechi alle frequenze al
di fuori di questo, a batteri troppo piccoli o a galassie troppo lontane per
essere osservate con il solo occhio nudo, per comprendere che sono moltis-
sime e spesso insospettabili le cose del mondo che, invece, non percepiamo.
Il nostro mondo uditivo è limitato e non ci permette di accedere a frequenze
troppo basse: non possiamo sentire gli infrasuoni3
ampiamente presenti nel
nostro ambiente e prodotti da comuni dispositivi quali condizionatori d’aria,
bollitori, areoplani e automobili, ma anche dalle vibrazioni della terra (fat-
tore per cui si ipotizza che alcuni animali possano percepire un terremoto
imminente attraverso la percezione di questi suoni per noi inudibili). Non
percepiamo le micro variazioni della temperatura che ci avvolge, così come
non sentiamo molte sfumature del sapore dei cibi che gustiamo. Il mondo
di mezze misure rappresenta la ristretta gamma di realtà che giudichiamo
essere “normale”, contrapponendola all’inafferrabilità del molto piccolo, del
molto grande o del molto veloce (Dawkins 2007). Risulta evidente come,
3
L’infrasuono è un suono a frequenze più basse di quelle udibili dall’orecchio umano,
circa al di sotto dei 20Hz, non udibili dall’uomo.
10
in un’ottica evolutiva, la tendenza alla vita non sia mai verso una maggio-
re complessità, quanto piuttosto verso un livello di adattamento ottimale.
Nell’uomo, il cervello e l’organizzazione delle relative capacità sensoriali
si presentano come una delle soluzioni adattive possibili a questo mondo di
mezze misure. In quest’ottica, anche l’accesso all’informazione sensoriale
appare situarsi a livelli intermedi di consapevolezza: durante il processo di
elaborazione visiva, ad esempio, non percepiamo la prima attività dei coni
e dei bastoncelli presenti nella retina, quanto piuttosto un livello intermedio
fatto di bordi, di profondità e di superfici, fino al riconoscimento degli ogget-
ti; non comprendiamo il linguaggio a partire dal suono grezzo, ma attraverso
rappresentazioni di sillabe, di parole e di frasi, che ci portano gradualmente
alla comprensione del contenuto di un messaggio (Jakendoff 1987). Non sia-
mo soltanto inconsapevoli dei livelli inferiori della sensazione, ma anche i
livelli di rappresentazione superiori non appaiono essere toccati dalla nostra
consapevolezza immediata: il livello superiore, come i contenuti del mondo
o il significato di un testo, tende a fissarsi nella memoria a lungo termine
giorni e anni dopo un’esperienza, ma, mentre l’esperienza è in corso, ciò
di cui siamo consapevoli scaturisce da visioni e da suoni (Pinker 1997). Il
risultato di un’analisi testuale non contiene quell’insieme di sfumature pa-
ralinguistiche, fatte ad esempio di tonalità e di ritmo della voce, che da un
lato ci permettono di ascoltare “fra le righe”, dall’altro lato lasciano una
traccia emotiva che accompagna i nostri ricordi di quel testo. Pertanto, se i
livelli inferiori non sono necessari a livello cosciente, quelli superiori non
potrebbero sussistere senza un’elaborazione intermedia. Ciò che percepiamo
e, di conseguenza, ciò che comprendiamo, è il risultato di una scelta, di un
processo selettivo e di trasformazione che rende la realtà diversa da ciò che
è, ma utilizzabile dalla nostra mente e dal nostro corpo. La maggior parte di
queste modificazioni avvengono al di sotto del nostro livello di consapevo-
lezza, grazie a processi automatizzati la cui origine è imputabile, in maniera
diretta, all’architettura fisiologica del nostro encefalo.
1.4 Il cervello multisensoriale
È sufficiente mettere a confronto il cervello umano con quello di una
scimmia generica per renderci conto di come, a livello evoluzionistico, le ris-
trutturazioni di questo organo si siano evolute in favore di uno sviluppo sen-
soriale adeguato al nostro ambiente: i bulbi olfattori, responsabili del senso
dell’olfatto, si sono ridotti a un terzo della dimensione di quella dei primati
e le aree corticali adibite alla visione e al movimento si sono anch’esse con-
11
tratte. A livello di sistema visivo, la corteccia visiva primaria, in cui ha luogo
la primissima elaborazione dell’informazione, occupa una parte minore nel
cervello mentre si sono ingrandite le aree più tardive responsabili dell’elab-
orazione di forme più complesse; lo stesso vale per le aree temporo-parietali
che conducono l’informazione visiva verso le regioni del linguaggio e con-
cettuali. Sono cresciute le aree inerenti all’udito e alla comprensione del par-
lato e i lobi frontali responsabili del pensiero deliberato e della pianificazione
si sono sviluppati fino a diventare due volte più grandi di quelli che un pri-
mate delle nostre dimensioni dovrebbe avere. Mentre i cervelli delle scimmie
mostrano asimmetrie irrilevanti, il cervello umano, in modo particolare nelle
aree destinate al linguaggio, è così asimmetrico che i due emisferi si possono
distinguere chiaramente per la loro forma (Pinker 1997).
La percezione multisensoriale nell’uomo è il risultato di sintesi e di astra-
zioni successive, che integrano le informazioni provenienti dai singoli sensi
in un continuum spazio temporale. Negli ultimi anni, gli studi con le tecni-
che di neuroimaging4
hanno rilevato che di fronte a una perdita sensoriale,
ulteriori aree suppliscono in modo incrociato5
: l’area visiva, in caso di dan-
4
Si definisce neuroimaging funzionale l’insieme di tecniche in grado di misurare il me-
tabolismo cerebrale al fine di analizzare e comprendere la relazione tra l’attività di determi-
nate aree e funzioni cerebrali specifiche. Mediante queste tecniche, attraverso il rilevamento
del comportamento elettrochimico del cervello, si rende possibile l’osservazione diretta delle
attività cerebrali, permettendo di valutare quantitativamente le variazioni osservabili. È pos-
sibile, pertanto, distinguere tra più tecniche di scansione encefalografica che si differenziano
per tecnica di misurazione prevista, ad esempio: PET (Positron Emission Tomography),
FRMI (Functional Magnetic Resonance Imaging), SPECT (Single Photon Emission), NIRS
(Near Infrared Spectroscopy).
5
Questa specifica abilità si definisce “flessibilità cross sensoriale dell’area percettiva del
cervello” (Rosemblum 2011, p. 404).
12
neggiamenti relativi a quella uditiva, può rispondere a input sonori e tattili,
viceversa quella uditiva a input tattili e visivi.
In natura nulla è sprecato e la capacità di riconvertire aree cerebrali dimo-
stra che la plasticità del nostro cervello è un elemento dominante, frutto di
quell’equilibrio dinamico prodromico di qualsivoglia attività naturale. An-
che quando la perdita sensoriale è indotta e temporanea, gli esperimenti con
le tecniche di neuroimaging evidenziano modifiche significative: bendare
una persona per un’ora abbondante prepara la corteccia visiva a rispondere
al tatto, acuendo quest’ultima sensibilità; anche una semplice miopia accre-
sce le abilità uditive e spaziali, anche quando i soggetti portano gli occhiali
(Déspres 2005). Siamo di fronte a ciò che si definisce “neuroplasticità com-
pensatoria”, finalizzata a controbilanciare la benché minima riduzione sen-
soriale. Ciò conferma le ipotesi più recenti per cui le aree percettive del cer-
vello sarebbero collegate tra loro in un continuo dialogo tra i sensi, anche
per quelle aree ritenute, soltanto fino a una decina di anni fa, specifiche di un
unico senso. Si presumeva, infatti, che le influenze cross-sensoriali si verifi-
cassero in aree superiori del cervello: «immaginiamo un pranzo tra amici. In
passato si pensava che il suono delle voci altrui venisse registrato nell’area
uditiva del cervello e la visione degli interlocutori in quella visiva. Qualsi-
asi tipo di integrazione dei volti visti con il dialogo ascoltato aveva luogo
in aree superiori del cervello» (Rosemblum 2011, p. 406). L’idea a lungo
radicata che vedeva l’area percettiva del cervello composta di parti deputate
ai singoli sensi è oggi in corso di ridefinizione. Il cervello sembra piuttosto
essere riprogettato intorno a input multisensoriali e appare altresì indifferen-
te alla provenienza del sistema sensoriale di origine. In questo modo, scom-
pare il concetto di “input prevalente” su di un altro: se, ad esempio, doves-
simo afferrare una palla che emette un suono, dal suo lancio la “velocità di
cambiamento” resterebbe la stessa sia per le dimensioni, sia per l’intensità
del segnale sonoro (DeLucia 2004). In tal modo, le informazioni appaiono
equilibrate per la vista e per l’udito (Lee D.N et al. 1992). Quando tocchia-
mo una chiave nella nostra tasca, senza vederla, di solito non la “sentiamo”
attraverso un insieme di caratteristiche distinte di forma, di dimensioni, di
peso, di superficie, ma la riconosciamo tramite le dita, attraverso una fusione
di percezioni sensoriali necessaria alla generazione dell’immagine mentale
completa della “chiave” (Bear F.M, Connors B.W, Paradiso M.A. 2007, p.
429).
Il cervello non separa le informazioni sensoriali, ma crea una sintesi volta
a percepire “quanto tempo manca all’arrivo della palla”, al fine di fornire una
risposta ottimale al compito di afferrarla o al discernimento di una chiave da
un biglietto da visita dentro a una tasca (Rosemblum 2011).
13
Ovviamente, questo non esclude che vi siano delle aree cerebrali speci-
fiche all’elaborazione di ogni senso, ma evidenzia il fatto che tali aree sono
fortemente interconnesse e gestite da un controllo olistico finalizzato a creare
la nostra “idea del mondo”.
1.5 La sensorialità e gli artefatti
Fin dagli albori della specie6
, gli esseri umani hanno iniziato a costruire
artefatti e strumenti i quali hanno vincolato la nostra storia evolutiva tanto
da influire sui geni che si replicheranno nelle generazioni future. La diffu-
sione della miopia giovanile, in parte ereditabile, sarebbe stata selezionata
negativamente in una società di cacciatori-raccoglitori, almeno fino a quando
gli esseri umani non hanno inventato gli occhiali (Keil 1979; 1989; Dennet
1990; Putnam 1975; Bloom 1996).
Gli artefatti accompagnano la nostra esistenza fin dalla nascita, infatti, già
dopo pochi mesi di vita, sviluppiamo la capacità di utilizzarli, anche come
strumenti di relazione con il mondo esterno. Un oggetto può essere definito
come una porzione del campo visivo dotato di una sagoma ben delineata.
Tuttavia, in linea generale, è il movimento comune a essere decisivo e già a
livello naturale il movimento discerne ciò che è animato da ciò che è inerte,
diventando rivelatore fondamentale di una qualsivoglia presenza.
Le specie di insetti che hanno adottato forme mimetiche di protezione
possono assomigliare a rami o foglie, addirittura a escrementi di uccelli ma
raramente fanno riferimento a pietre o a sassolini; le pietre sono inerti e per
un animale che volesse simularne le sembianze lo spostamento potrebbe
essere molto rischioso. Al contrario, seppur gli escrementi siano immobili,
hanno comunque la possibilità di essere mossi dal vento o di rotolare giù da
una foglia senza destare troppa attenzione. L’immobilità totale non è, quindi,
in nessun modo funzionale, perché implica trascurare attività fondamentali,
quali la ricerca di cibo o del partner con cui riprodursi. Il movimento, invece,
unisce le parti e le separa dallo sfondo, rendendo un organismo o un oggetto
percettivamente identificabile (Bressan P. 2007).
Gli esseri umani, già all’età 3-4 mesi, percepiscono come un unico ele-
mento oggetti anche molto differenti che però si muovono insieme. Inoltre,
è presente la consapevolezza che un oggetto non può passare attraverso un
altro e se viene percepito un oggetto prima a sinistra e poi a destra in assenza
6
Le prime pietre lavorate con lo scopo di diventare strumenti volti a potenziare l’azione
manuale, risalgono a circa due milioni e mezzo di anni fa (Legrenzi 2002).
14
di movimento nello spazio, un bambino presume che si tratti di due oggetti
diversi. I neonati di 3-4 mesi non vedono soltanto gli oggetti e li ricordano,
ma si attendono che siano rispettate le leggi fondamentali della continuità,
della coesione e del contatto. Non sanno camminare e parlare, ma sono già
consapevoli del fatto che il mondo è stabile e governato da leggi fondamen-
tali (Spelke 1995). Fin da molto piccoli, i bambini dividono il mondo tra
animato e inerte, utilizzano oggetti per avvicinarne altri, ma generano un
rumore per avvicinare un’altra persona. Verso i 6-7 mesi discernono l’intera-
zione tra le mani e gli oggetti dall’interazione di oggetti con altri oggetti. A
12 mesi, vedendo un cartone animato con puntini che si muovono, lo inter-
pretano come se i puntini perseguano un obiettivo e riescono a distinguere gli
esseri animati dagli oggetti inanimati che lo rappresentano (Premack 1990;
German, Durgin, Kaufman 1995). A 18 mesi i bambini sono in grado di asse-
gnare delle funzioni agli oggetti e comprendono la relazione tra gli artefatti
e il materiale di cui si compongono, conferendo maggiore importanza agli
aspetti di durezza e di forma rispetto a quelli relativi al colore e alla decora-
zione (Brown 1990). Questa “ricomposizione” del mondo esterno attraverso
i sensi appare, come sempre, avvantaggiare il nostro relazionarci con esso.
Infatti, seppur la nostra percezione visiva avvenga tramite due occhi, essa è
sintetizzabile nel concetto di occhio ciclopico, ossia una rappresentazione
mentale univoca delle singole informazioni oculari che ci permette di vedere
ciò che singolarmente gli occhi non potrebbero rilevare (Vannoni 2009). Un
sistema stereoscopico più semplice (grazie al quale prima si riconoscono gli
oggetti e successivamente vengono sommati tra loro) non avrebbe permesso
ai nostri antenati che si sono evoluti sugli alberi, di districarsi tra il fogliame
misto a rami. Infatti, la visione ciclopica consente di visualizzare forme e
oggetti posti su di uno sfondo, attraverso alcuni principi generali a cui si rifà
il nostro sistema nervoso centrale. Il modo secondo il quale organizziamo il
rapporto tra figura e sfondo rappresenta un’eccellente strategia sfruttata da-
gli esseri viventi per raggiungere uno tra gli obiettivi principali relativi alla
sopravvivenza: farsi vedere oppure non farsi vedere, ossia nascondersi per
assomigliare al proprio sfondo oppure mettersi in mostra differenziandosi
dallo sfondo.
Grazie alla capacità di mimetizzarsi, molte specie possono assumere un
colore il più vicino possibile all’ambiente circostante per ridurre la propria
visibilità, e ciò può avvenire in modi differenti: alcuni, come il camaleonte,
tendono a formare un’unità con lo sfondo, mentre altri insetti si cospargo-
no direttamente lo sfondo addosso (ad esempio, con il fango) o si lasciano
crescere sul corpo dei micro terreni di alghe, licheni e muschio, altri si ri-
coprono direttamente delle spoglie delle proprie prede. Altre specie, inve-
15
ce, necessitano di farsi riconoscere, ad esempio, mostrando la loro tossicità,
evitando, al contempo, di essere assaggiate o comunque di essere mangiate
nuovamente (Bressan P. 2007).
Il nostro cervello compie continuamente un notevole sforzo per suddi-
videre il campo visivo in superfici e decidere quale parte si pone davanti
e quale dietro. Il contesto è determinante a farci percepire gli oggetti in un
certo modo: illuminazioni, distanze, cromatismi e profondità differenti rap-
presentano gli “indizi”, per lo più corretti, grazie ai quali percepiamo le ca-
ratteristiche relative a un oggetto anche se gli stessi possono renderci, altresì,
vittime inconsapevoli delle “illusioni percettive”. Grazie a una sola fonte di
luce naturale il cervello ha imparato a fidarsi delle ombre o dei cromatismi,
della profondità, della distanza quali fonti infallibili per apprendere il mo-
vimento e la posizione degli oggetti nello spazio. Ciò avviene in modo del
tutto involontario e dipende dall’informazione emessa dalle retine, secondo
una moltitudine di principi (che affronteremo oltre) che regolano la nostra
organizzazione percettivo- sensoriale.
1.6 L’affordance
L’istintivo atteggiamento progettuale dell’uomo nel suo stretto rapporto
con il mondo materiale trova un valido contributo nella teoria dell’affordan-
ce7
, termine coniato da James Jerome Gibson nel 1979 e finalizzato a descri-
vere la reciproca relazione che si instaura tra un animale e il suo ambiente.
Nello specifico, l’affordance consiste in un insieme di risorse che l’ambiente
offre a un animale il quale, a sua volta, deve possedere le capacità per perce-
pirle o utilizzarle (Gibson 1979). In questo modo, l’affordance definisce un
processo di interazione e di selezione tra una specie e un gruppo di risorse
ambientali. Tali risorse possiedono proprietà percepibili (a cui daremo la de-
finizione di “percettili”) che oltre a renderli individuabili, contengono anche
una serie di “istruzioni” utili per poterle utilizzare. Esempi di affordance
includono sia oggetti naturali, sia artefatti che contengono, attraverso forme
e dimensioni, segnali sul come utilizzarli. Ad esempio, l’aspetto fisico di
una caraffa d’acqua permette all’utilizzatore di dedurne le funzionalità anche
senza averla mai vista prima, una superficie piatta possiede l’affordance di
camminare sopra di essa, una superficie verticale dà l’affordance di ostaco-
lare un movimento o di blocco di un movimento.
Se da un lato il termine “affordance” può essere tradotto attraverso il
7
Letteralmente “autorizzazione”, ossia l’insieme delle cose permesse (Norman, 1988).
16
concetto di “invito”, dall’altro lato questo concetto non appartiene né all’og-
getto stesso né al suo fruitore in quanto si viene a creare dalla relazione che
si instaura fra di essi. È, infatti, definibile come una “proprietà distribuita”:
in questo senso, le proprietà dell’affordance devono essere specificate in sti-
moli informativi poiché anche se un animale è equipaggiato degli attributi
appropriati, potrebbe avere bisogno di imparare a riconoscere le informa-
zioni e perfezionare le attività che rendono utile l’affordance o di elimina-
re quelle pericolose. Superfici e sostanze che invitano all’utilizzo o ritenute
pericolose per gli esseri umani, possono essere del tutto irrilevanti per una
specie che nuota o che vola, e sostanze che invitano a essere mangiate da un
esemplare adulto, possono non essere appropriate per una larva. La recipro-
ca relazione di affordance tra nicchia di riferimento e una specie definisce
“l’ambiente di riferimento ideale per un animale” (Gibson J.J. 1979). Utiliz-
zare un’affordance implica un’ulteriore reciproca relazione tra percezione e
azione: la percezione procura l’informazione per l’azione, e l’azione genera
conseguenze che informano la percezione. Una volta individuata, l’affordan-
ce diventa significativa e acquisisce un valore semantico. Ciò potrà essere
trasmesso attraverso l’apprendimento e l’addestramento di generazione in
generazione e rimarrà tale finché non si evolverà l’oggetto dell’affordance o
non muterà l’abitudine del soggetto. In questo modo, l’affordance può rap-
presentare un’indicazione per comprendere l’interazione con gli oggetti in
modo in parte pre-organizzato. Gli organismi interpretano, quindi, le forme
che incontrano nel mondo sulla base di usi e comportamenti che associano
ad essi, attraverso un meccanismo di base automatizzato e naturale (Gibson
1977, 1979).
1.6.1 L’affordance naturale
L’affordance che si instaura tra un essere vivente e la sua nicchia, rappre-
senta un ulteriore esempio di quell’equilibrio dinamico che contraddistingue
ogni specie. In qualunque forma di evoluzione, si tratti delle ali di una mosca
o di quelle di un aeroplano, è implicata l’affordance. In quest’ottica, vengo-
no ottimizzate e continuamente adattate le risorse disponibili, dell’animale
e dell’ambiente. È una condizione nella quale questi due mondi entrano in
relazione, modificandosi e venendo modificati per selezione. L’evoluzione
delle ali della mosca non ha alle sue spalle un progetto, è piuttosto il risul-
tato di un armonico adattamento, o meglio, di una exaptation8
tra ciò che si
è rivelato utile e ciò che, invece, è stato eliminato in quanto inadatto. Ogni
variante subisce il più duro processo di collaudo che si possa immaginare in
17
cui anche il minimo fallimento porta allo scarto del prodotto, o meglio, alla
morte dell’esemplare. L’agilità della mosca domestica, in grado di decele-
rare durante un volo veloce, di restare sospesa per aria, di volare a testa in
giù, di disegnare dei cerchi, di atterrare sul soffitto in meno di un secondo,
è il risultato di un’evoluzione delle ali le cui funzioni sono, in origine, assai
diverse da quelle dell’attività di volo. I piccoli animali a sangue freddo come
gli insetti, compiono, infatti, grandi sforzi per mantenere sotto controllo la
propria temperatura. Così, le ali della mosca hanno iniziato a evolversi come
radiatori capaci di assorbire energia solare nei periodi freddi e di disperderla
in quelli caldi. L’aumento di dimensione delle ali, avvenuto per selezione
naturale, oltre all’ottenimento di un punto ottimale per lo scambio di calo-
re, ha permesso un’ulteriore grande “invenzione” del mondo degli insetti: il
volo (Kingsolver, Koehl 1985). Volare implica anche evolvere altre capacità
e funzioni somatiche. In questo modo, il mondo degli insetti volanti diventa
più grande, le fonti di cibo più ampie e il sistema sensoriale incomincia ad
adattarsi a una nuova affordance, in cui sensi ed elaborazione degli stessi
diventano la chiave per l’orientamento, l’ulteriore sviluppo e la sopravvi-
venza di un intero gruppo di specie. Le ali sono un ottimo esempio di come il
processo evolutivo abbia come denominatore comune, per tutte le specie vi-
venti, l’affordance naturale in tutti i suoi stadi di sviluppo. In tal senso, anche
il progetto delle ali di un aeroplano è parte di un processo evolutivo di cui il
soggetto è la mente dell’uomo. Un aeroplano possiede la propria affordance:
i nuovi jet richiedono sensori, radar, elementi di connessione e di output
sempre più evoluti e adatti alle nuove performances dell’oggetto. Certo, per
il nostro modo di categorizzare, le ali di un aereo sono elementi artificiali, ma
questa distinzione, allontanando la lente dal punto di vista antropocentrico,
sembra quanto mai insoddisfacente. Come potremmo definire la tela di un
ragno o il nido di una rondine: un elemento naturale o artificiale? Da questo
punto di vista la diga costruita da un castoro non è molto diversa da una
diga costruita dall’uomo. La mediazione della mente non è necessariamente
il confine tra il mondo naturale e quello artificiale. Anzi, potremmo perfino
affermare che, essendo la mente un organo “naturale”, altrettanto lo siano i
suoi prodotti e le sue invenzioni, allo stesso modo per cui le ghiandole del
ragno producono “tele naturali”. Le capacità cognitive e creative dell’uomo
sono, a loro volta, quindi, un esempio di affordance naturale che gli consente
8
Il termine exaptation introdotto da Gould significa “utile a partire da” (ex-aptus) e
designa l’adattamento di un vecchio organo a una nuova funzione o l’adattamento di un
non-organo (pezzetti di osso o di tessuto) a un organo con una funzione. La spiegazione
sta nella complessità della struttura. In alcuni casi una macchina progettata per svolgere un
compito complesso, improbabile, può essere a servizio di qualcosa di più semplice.
18
di sfruttare la conoscenza delle cose, per individuare soluzioni utili al proprio
adattamento.
Gli empiristi ricordavano che: “nihil est in intellectu quod prius non fuerit
in sensu9
” a significare che il mondo della nostra mente raccoglie i suoi pen-
sieri e le sue ispirazioni dal mondo che ci circonda. Oggi le tecnologie ci per-
mettono di ottenere livelli di osservazione molto più profondi e dettagliati e
quindi di comprendere processi e meccanismi selezionati dalla natura. Que-
ste soluzioni evolutive sono state molto spesso soluzioni “tecnologiche” del
mondo degli artefatti che abbiamo costruito. Infatti, la nostra mente rielabora
creativamente soluzioni spesso già frutto di evoluzioni di milioni di anni. Il
progetto di un aeroplano contiene la capacità mentale dell’uomo di osservare
le potenzialità delle ali di altri organismi, reinterpretandole e adeguandole
alle tecnologie e ai materiali disponibili. La nostra mente non copia, ma,
grazie alla sua capacità di astrazione, individua l’essenza di funzioni e cerca,
attraverso il processo naturale del pensiero, di adattarle alle proprie capacità
tecnologiche. È cercando tra questi presupposti che possiamo comprendere
alcuni dei vantaggi che hanno favorito l’evoluzione di un organo tanto com-
plesso, energivoro, ingombrante e lento quale è il cervello. Il cervello uma-
no adulto rappresenta circa il 2% del peso corporeo, pesa tra i 1.300-1.400
grammi, possiede 100 miliardi di neuroni e 100 trilioni di interconnessioni
tra questi e con il resto del corpo. Un organo molto complesso che implica,
necessariamente, un’elevata richiesta di risorse: il cervello umano consuma
in media il 20% delle energie e delle sostanze nutritive. È sufficiente pensare
che il nostro sistema nervoso consuma quantità di glucosio maggiori rispetto
a quasi tutte le altre parti del corpo: anche quando la nostra mente appare
disimpegnata spendiamo comunque una certa quantità di energia sia in pen-
sieri casuali, sia nel monitoraggio continuo di ciò che accade intorno a noi e,
quando l’attività mentale si rivela impegnativa, il glucosio cala drasticamen-
te nei livelli del sangue (Gaillot M.T. et al. 2007; Gaillot M.T., Baumeister
R. F. 2007).
È ingombrante tanto da imporre alle donne, il cui bacino deve ospitare
stentatamente la testa del nascituro, un bilanciamento dell’andatura che le
rende peggiori camminatrici rispetto agli uomini. Inoltre, la posizione della
testa sobbalzante sul collo, costringe gli esseri umani a una continua e ri-
schiosa esposizione a potenziali danneggiamenti. Infine, il cervello umano è
lento e limitato, basti paragonare i tempi di reazione anche in risposta a com-
piti molto semplici come schiacciare un pulsante, rispetto a quelli di alcuni
insetti capaci di mordere in meno di un millisecondo. Il cervello ha un costo
elevato e, per poterlo sostenere, la specie umana ha dovuto rinunciare a mol-
9
Letteralmente: “Nulla è nell’intelletto che non sia stato prima nei sensi”.
19
te abilità che contraddistinguono altri organismi. Tuttavia, se il cervello si
pone come organo imprescindibile alla sopravvivenza è in gran parte dovuto
alla straordinaria capacità di raccogliere, elaborare, trattenere e utilizzare un
bene importantissimo e immateriale quale è l’informazione. Importantissimo
poiché le scelte fondate su informazioni corrette hanno più probabilità di ge-
nerare risultati positivi per l’individuo, contribuendo alla sua sopravvivenza;
immateriale poiché l’informazione può essere scambiata senza portare a una
privazione da parte di chi la cede e facendo, al contempo, acquisire un bene
a chi la riceve. Questo scambio non determina alcun costo e rappresenta la
ragione principale di molti comportamenti dell’uomo e delle nostre società,
ma è soprattutto la ragione per cui manteniamo e abbiamo subito la spinta
evolutiva di un organo tanto complesso (Pinker 1997; Vannoni 2007). È in
tal senso che la nicchia evolutiva in cui agiscono gli esseri umani può defi-
nirsi “nicchia cognitiva” sottendendo la capacità dell’uomo di utilizzare la
conoscenza di come le cose funzionano per raggiungere obiettivi di fronte a
ostacoli (Toboby e deVore 1987).
1.6.1.1 Bioispirazioni (scheda)
Gli esempi di come l’uomo si sia ispirato alla natura per trovare nuove
soluzioni sono molteplici, ne citiamo alcuni tra i più attuali: una nuova gene-
razione di jeans è stata pensata per respirare e per produrre ossigeno, proprio
come fanno le piante10
, si stanno studiando l’iperelasticità della tela del ra-
gno per la sua singolare sinergia tra materiale e strutture per la progettazione
di edifici11
, le ventose dei gechi per la loro capacità reversibile di adesione,
la funzione autopulente di alcuni tipi di foglie, per la costruzione di superfici
vetrate12
. Alcuni tipi di materiali, come la pelle dello squalo, sono in grado
di ridurre l’attrito dell’acqua e di autoeliminare gli ecto-parassiti dalla sua
superficie, fattore che ha ispirato i costruttori di barche a progettare degli
scafi con una migliore forma e levigatezza per migliorarne l’efficienza ener-
getica. Il modellamento del muso del treno sulla struttura del becco del mar-
10
Il trattamento del denim con nanoparticelle di biossido di titanio sarebbe in grado di
distruggere in generale gli ossidi di azoto, tra le maggiori cause di inquinamento dell’area
urbana con seri effetti sulla salute dell’uomo in combinazione con altri elementi dell’aria.
Le nanoparticelle si integrerebbero con i tessuti e avrebbero la funzione di fotocatalizzatore:
in presenza di luce catalizzano e quindi spezzano i legami degli inquinanti assorbiti sulla
superficie del tessuto (Il sole24Ore, 21 ottobre 2012 - Nova).
11
Ad esempio, nel caso di un impatto con un aereo, la struttura non collasserebbe proprio
per la sua iperelasticità.
20
tin-pescatore (che per catturare un pesce passa dall’aria all’acqua sollevando
piccolissimi spruzzi) ha permesso all’ingegnere giapponese Eiji Nakatsu di
produrre treni più areodinamici, meno rumorosi e meno energivori con una
riduzione del 15% di elettricità viaggiando a una velocità superiore del 10%.
L’IBM sta concentrando la maggior parte delle proprie risorse nella ricerca
sensoriale, intravedendo nel connubio tra i sensi e la tecnologia, le poten-
zialità di creare un “settimo senso”: i nuovi computer si pongono l’obiettivo
di possedere il senso dell’olfatto, di udire e comprendere ciò che accade, di
farci toccare le cose attraverso lo schermo entro i prossimi cinque anni. Le
nuove tecnologie saranno dotate di ricettori sensoriali, in cui papille gustati-
ve digitali, nasi elettronici, orecchie digitali potenzieranno ulteriormente la
nostra percezione di “realtà”.
Gli esempi “bioispiratori” sono innumerevoli e ci fanno riflettere su quan-
to lo stato vivente della materia, nella sua scala del molto piccolo o del molto
grande, diventi fonte indispensabile per la progettazione di nuovi materiali,
di ulteriori tecniche di costruzione, di soluzioni innovative anche nel rispetto
della sostenibilità ambientale, se si tiene conto dell’affordance naturale che
ne regola i principi. L’uomo, quindi, seleziona e trasforma i prodotti naturali
(Keil F.C 1979; 1989; Dennet D.C. 1990; Putnam H. 1975; Bloom P. 1996)
portandoci a ribadire che qualunque artefatto non è prodotto dall’uomo, ma
dalla natura, attraverso la mediazione dell’uomo (Crane T. 1995).
1.6.2 L’affordance cognitiva
La maggior parte delle affordance utili per l’uomo deve poter avere ac-
cesso all’informazione conferendo a questo concetto anche una dimensione
cognitiva. Quotidianamente, ci troviamo ad avere a che fare con un nume-
ro spropositato di oggetti; Norman nel 1988 (Norman 1988) ne ipotizzava
almeno ventimila, tra apparecchi d’illuminazione, elettrodomestici, abiti e
accessori, oggetti per scrivere, varietà di materiali e di chiusure ma basta
osservare il nostro tavolo di lavoro per convincerci della mole di oggetti con
cui costantemente ci troviamo ad avere a che fare. Il modo in cui riusciamo
a districarci al meglio in questo mondo ricco di artefatti, abituali o del tutto
12
Le goccioline d’acqua che cadono sulle foglie del loto, ad esempio, si imperlano e
quando la superficie si inclina leggermente, le goccioline rotolano via, raccogliendo nel con-
tempo piccole particelle di sporcizia. Di conseguenza, le superfici rimangono secche anche
durante forti temporali.
21
nuovi, dipende principalmente da due fattori: il primo consiste nell’informa-
zione che ci fornisce l’aspetto degli oggetti, il secondo deriva dall’abilità del
progettista di renderne chiaro e intuitivo il funzionamento.
La struttura visibile di un artefatto è principalmente conferita dagli inviti
e dai vincoli di utilizzo nonché dalle correlazioni spaziali che vengono forni-
te da un adeguato modello concettuale. In tal senso, un modello concettuale
corretto ci permette di prevedere gli effetti delle nostre azioni, fattore che
non presenta particolari criticità per gli oggetti di uso quotidiani (forbici,
penne, interruttori della luce sono dispositivi assai semplici da utilizzare) ma
che diventano determinanti per interfacce nuove o particolarmente comples-
se. Anche gli oggetti altamente tecnologici, un tempo complicati e difficili da
utilizzare, oggi rispettano spesso le regole sottostanti agli inviti e ai vincoli
di utilizzo: ad esempio, la nuova generazione di tablet computer contiene un
determinato numero di icone sullo schermo che invitano ad essere “premute”
e i cui contenuti possono essere ingranditi, sfogliati o scorsi, simulando la
nostra naturale e istintiva gestualità (Ware C. 2008). Le affordance cognitive
rappresentano, in tal senso, delle immediate possibilità percettive che con-
ducono all’azione.
Questo legame tra percezione e azione coinvolge i pattern cerebrali spe-
cializzati nello svolgimento di un dato compito. Creiamo mappe che conten-
gono le coordinate della retina, le coordinate del corpo e le coordinate del
mondo esterno; ogni mappa lega l’informazione percettiva a una determinata
forma in un determinato spazio che guida un determinato movimento.
Non dobbiamo pensare a mappe statiche e permanenti. Queste sono, in-
fatti, in continuo cambiamento e molto ricche di dettagli: per esempio, la
mappa spaziale dell’occhio viene aggiornata ogni volta che muoviamo i no-
stri occhi e contiene una grezza ma sufficiente rappresentazione dell’allo-
cazione di pochi oggetti rilevanti per un dato compito in uno determinato
spazio. Le funzioni di tali rappresentazioni hanno lo scopo di supportare le
attività in cui siamo continuamente implicati e contengono un numero di
informazioni soddisfacenti a guidare queste azioni.
Molto di ciò che avviene a livello di pattern è inconsapevole: la maggior
parte delle volte non siamo consapevoli di muovere gli occhi, così come non
siamo consapevoli di molti movimenti delle nostre mani; se camminiamo su
di un terreno impervio, aggiustiamo continuamente il passo per evitare di
cadere, ma non ci facciamo caso. Il nostro sistema motorio registra silenzio-
samente la presenza di piccoli ostacoli e misura, ad esempio, la dimensione
degli scalini sincronizzando il segnale muscolare affinché possiamo dare la
22
“spinta” corretta per salire il gradino successivo.
Anche gran parte delle nostre abilità a dirigere lo sguardo su determinati
target è innata, tuttavia diventiamo sempre più esperti e abili con il passare
del tempo (Spelke E.S., Breinlinger K., Macomber J., Jacobsen K. 1992).
Le capacità visive motorie come camminare, toccare un oggetto, guidare
una macchina o giocare a tennis, passano attraverso l’apprendimento di pat-
tern ben definiti, affinando le nostre abilità in un processo che dapprima può
richiedere un grande sforzo e una richiesta attentiva impegnativa ma che
via via diventa automatizzato. Aumentando i livelli di abilità, i pattern che
legano percezione e azione si rafforzano, richiedendo sempre minori risorse
attentive.
Le persone che giocano con i videogames per centinaia e centinaia di ore
sviluppano un pattern visivo motorio per navigare attraverso l’artificiale spa-
zio tridimensionale. Quando i pattern sono ottimizzati, le specifiche confi-
gurazioni dei tasti vengono mappate in modo da ottenere un riconoscimento
immediato, senza che il giocatore debba cercarle con lo sguardo.
Nei videogames interattivi, le affordance critiche sono di tipo virtuale: il
nostro modello mentale dello spazio e della gravità deriva innanzitutto dalla
nostra esperienza con lo spazio fisico e non attraverso quello della rappresen-
tazione di oggetti di un mondo virtuale. Si rende, quindi, necessario che gli
oggetti esibiscano in modo approssimativo il comportamento fisico corretto
per sembrare reali quando interagiamo con questi. Infatti, i modelli che sono
incorporati nel nostro sistema nervoso sono solo una grezza e approssimata
rappresentazione di una complessa reazione fisica dei pattern. Una conse-
guenza di ciò è che possiamo creare mondi virtuali dove le basi della fisica
possono venire distorte senza che le persone se ne accorgano. Il progettista
può utilizzare numerose analogie che rimandano alla nostra esperienza sen-
soriale con il mondo reale: per sollevare un oggetto si può richiedere di muo-
vere il comando verso l’alto, per segnalare una situazione di avvicinamento
può utilizzare un suono crescente, per arrestare una situazione può richiedere
di premere un pulsante.
I videogames alterano spesso la fisica delle azioni e delle reazioni in modo
estremo e, anche quando ce ne accorgiamo, possiamo adattarci molto rapi-
damente a questa distorsione, finché il pattern che lega percezione e azione
viene conservato. Solitamente i game designer riducono la forza di gravità
reale e i giocatori si mostrano ancora capaci di controllare più funzioni del
gioco con poca o senza alcuna difficoltà, anche quando saltano e cadono
decisamente più rapidamente di ciò che sarebbe nella realtà.
Un design efficiente per l’informazione progetta sulle capacità visive mo-
torie di cui siamo già in possesso. Per esempio, anche se il mouse di un com-
23
puter è completamente disconnesso dal cursore dello schermo, il cursore va
a destra quando muoviamo la mano a destra. Se si prova a ruotare il mouse
di 90° e a selezionare delle icone sullo schermo ci si può rendere conto di
quante difficoltà può portare la violazione della corrispondenza di base tra il
movimento della mano e il movimento del cursore.
1.6.2.1 Il mapping naturale
Un esempio di come un’adeguata disposizione delle informazioni pos-
sa favorire il corretto utilizzo degli oggetti e delle interfacce ci è dato dal
concetto di mapping, ossia la capacità di rappresentare le indicazioni ma-
nifestando il tipo di relazione tra due oggetti. Ciò può avvenire attraver-
so la sistematizzazione di analogie e di modelli culturali che portano a una
comprensione immediata da parte dell’utente, favorendo l’adeguato utilizzo
delle modalità sensoriali di tipo spaziale (sterzare un volante in senso ora-
rio o anti orario per decidere una direzione) visivo (l’utilizzo del medesimo
schema di distribuzione per comandare un insieme di luci), uditivo (l’utilizzo
di un suono più forte per indicare una quantità maggiore) o tattile (l’utilizzo
di forme che tattilmente riportano all’oggetto da comandare).
In quest’ottica, le modalità di disposizione di una serie di comandi in re-
lazione a una qualsiasi interfaccia, possono diventare determinanti a genera-
re un’affordance ottimale nell’interazione tra fruitore e artefatto. Prendiamo
ad esempio un comune piano cottura a quattro fuochi: se, come nel primo
caso i comandi fossero distribuiti in maniera arbitraria, l’utente si troverebbe
davanti a un numero di combinazioni decisamente alta (24) implicando un
tipo di elaborazione troppo complessa. Nel secondo caso i comandi sono
suddivisi per metà a destra e metà a sinistra, comportando due alternative
per ognuno dei quattro fuochi. Le combinazioni si riducono ma resta sem-
pre l’incertezza relativamente a quale manopola comandi il fuoco davanti e
quale quello dietro. Il mapping corretto e completo (fig. 1) è conferito da una
disposizione che rispecchia lo stesso schema dei fuochi, imponendo una na-
turale correlazione spaziale. Qui, il numero delle possibili sequenze si riduce
a una sola. Un mapping corretto svincola, inoltre, il progettista dall’utilizzo
di etichette informative supplementari rendendo, al contempo, un’interfaccia
facilmente utilizzabile.
Un ulteriore aspetto che contribuisce a un’interazione efficace tra infor-
mazione e azione consiste nel rispetto del feedback, ossia quell’informazio-
ne di ritorno che informa l’utente sul tipo di azione che ha eseguito o è stata
24
Fig. 1 - Mapping corretto fuochi / manopole
eseguita dall’oggetto in modo automatizzato e, quale risultato, si è effettiva-
mente realizzato.
Nei Porsche Carrera 911s l’alettone posteriore si apre automaticamente
quando si superano i 90 km/h al fine di conferire maggiore stabilità all’auto-
mobile in corsa. Tuttavia, dall’abitacolo non è possibile verificare l’effettiva
apertura dell’alettone e questa non è segnalata nemmeno sul display della
consolle. Quest’ultima consente invece, grazie a un pulsante, di aprire l’a-
lettone anche a velocità inferiori, ma non di generare un feedback riguardo
all’avvenuta apertura. L’utente resta, quindi, nell’incertezza circa l’effettiva
stabilità del veicolo a causa di una totale assenza di informazione e di con-
trollo a riguardo. Indubbiamente, in caso di mancato funzionamento, la con-
solle segnalerebbe il guasto, tuttavia la condizione di incertezza del guidato-
re è la stessa che si proverebbe nel parlare a qualcuno senza udire la nostra
voce o nel disegnare con una matita che non lascia segni. Paradossalmente,
la tecnologia tende a generare dei processi sempre più automatizzati senza
tenere conto di aspetti determinanti relativi all’utente che possono andare dal
bisogno di controllo alla percezione di sicurezza, elementi cruciali in condi-
zioni rischiose, quali, ad esempio, l’alta velocità.
La primissima fase progettuale deve quindi tenere conto di alcuni modelli
concettuali fondamentali per un corretto utilizzo degli oggetti, in particolare:
• il modello progettuale ossia il modello concettuale dell’ideatore rap-
presentato da un modello tecnicamente accurato che viene utilizzato
25
dal progettista per pensare e distribuire le funzioni del sistema.
• Il modello mentale dell’utente che riguarda la rappresentazione
dell’artefatto e delle sue principali caratteristiche e funzioni di utiliz-
zo.
• Il modello del sistema ossia la rappresentazione dell’artefatto con cui
si viene in contatto, la sua interfaccia e le modalità di attivazione delle
sue funzioni (Norman D. 1988).
Se la tecnologia ha il compito di rendere il nostro agire più facile e più
gradevole, è bene tenere conto, in modo biunivoco, sia della “psicologia de-
gli oggetti” sia dei meccanismi psicologici dell’uomo che con questi si trova
a interagire. Il concetto di affordance si genera proprio grazie a questo tipo
di relazione tra uomo e gli artefatti. Il progettista ha innanzitutto il compito
di individuare il giusto equilibrio che tra questi si rende possibile stabilire.
26
2. La mente automatica
2.1 L’azione sensoriale
Il nostro cervello riceve messaggi del mondo esterno solo attraverso i
sensi: sorge spontaneo chiedersi come possa creare una realtà attendibile
basandosi unicamente su un’infinitesima parte di informazioni che questi
ultimi riescono a percepire.
In quest’ottica, prima di addentrarci nell’analisi di ogni singolo senso, si
rende necessario comprendere, in linea più generale, le principali modalità
di elaborazione della realtà che il nostro cervello mette in atto per rispondere
in modo efficace al mondo che ci circonda.
In ogni momento della nostra vita cerchiamo soluzioni, pianifichiamo
strategie e ci comportiamo di conseguenza: tutto ciò che la nostra mente per-
cepisce, elabora, comprende è finalizzato a farci fare, ma che si tratti di scelte
importanti o di comuni azioni del vivere quotidiano, nulla è più dispendioso
dell’agire.
Il processo che porta all’azione è, dunque, per sua indole, estremamente
gravoso e per tale ragione, nel corso dell’evoluzione, la natura ha elaborato
strategie e scorciatoie per permetterci di operare in modo risolutivo e co-
sciente, non solo rispondendo a necessità contingenti, ma posponendo desi-
deri, autolimitandosi a fronte di obiettivi più importanti. Se, infatti, nell’arco
della nostra vita disponessimo del tempo e delle energie necessarie per ap-
prendere ed elaborare tutto ciò che una particolare decisione può richiedere,
saremmo infallibili. La realtà è, però, assai diversa. Molto spesso non abbia-
mo le informazioni necessarie, altre volte non abbiamo acquisito le abilità
di comportamento per eseguire un compito o, ancora, siamo limitati nella
capacità di elaborare un determinato contesto, insomma, siamo inesperti
(Baldwin C.L. 2003). Poiché continuamente la realtà ci propone situazioni
sempre diverse, il nostro cervello sceglie spesso la via della similitudine,
27
così comportamenti che nel passato hanno prodotto buoni risultati in situa-
zioni che riteniamo simili, tendono a essere ripetuti (Biehal G., Chakravart
D. 1986).
In questo l’uomo si differenzia dalle altre specie, non vivendo in un eter-
no presente contingente, ma costruendo continuamente proposizioni future,
frutto di una visione strategica della propria esistenza. È qui che risiede la
grande capacità della nostra mente di raccogliere informazioni utili dal pas-
sato (la nostra memoria), di pianificare il futuro (la nostra immaginazione) e
di agire nel presente (la nostra capacità di decidere).
In tal senso, se da un lato gran parte delle azioni che compiamo quotidia-
namente avvengono in modo del tutto automatico e richiedono uno sforzo
cognitivo minimo, altre lo diventano soltanto dopo una pratica assidua e pro-
lungata, impegnando gran parte delle nostre risorse cognitive.
A questo proposito, si rende utile analizzare come quattro principali li-
velli della nostra esperienza e del nostro apprendimento, siano fondamentali
per poter agire in modo automatico. A titolo esemplificativo, prenderemo in
considerazione il linguaggio benché questi differenti livelli possano appli-
carsi a qualsiasi tipologia di apprendimento:
1. il primo livello, che definiamo skill, si costruisce con grande fatica, sia in
termini di input, sia in termini di outup. Quando incominciamo a par-
lare dapprima impariamo a emettere i suoni, prima singoli frammenti
(monoremi) poi frammenti integrati (duoremi) e, infine, impariamo
a pronunciare le parole (Eliot L. 1999). Questo livello implica un
insieme di funzioni coordinate tra il nostro cervello, la nostra respira-
zione, le nostre corde vocali, i movimenti delle nostre labbra e della
nostra lingua. Successivamente, impariamo a utilizzare dei segni e ad
associare ad essi dei suoni collegandoli ai concetti e agli oggetti che
simboleggiano mentre, in contemporanea, impariamo a coordinare in
maniera fine le nostre mani per riprodurre tali segni su di un foglio di
carta. Il mondo viene così a comporsi di nomi, di oggetti e di situazio-
ni. Tuttavia, ciò non sarebbe sufficiente né a farci leggere né a farci
comprendere se non intervenissero i livelli di competenza superiori;
2. il secondo livello, detto ruled based, consiste nell’apprendimento delle
regole. Le regole, infatti, non sono solo fonetiche o grafiche, ma rap-
presentano un vero e proprio motore generativo a livello semantico.
Queste ci dicono come selezionare e comporre tra loro le parole, come
costruire le frasi rendendoci capaci di generare un infinito numero di
proposizioni corrette e comprensibili anche agli altri. Le regole non
servono solo per parlare, le troviamo anche nella scrittura e nella let-
28
tura. Tutto ciò sarebbe, almeno parzialmente, eseguibile anche da un
computer che avesse alle spalle un buon programmatore. In realtà,
nulla di questo avrebbe senso se non esistesse il terzo livello di com-
petenza;
3. nel terzo livello o knowledge based si crea la comprensione, ovvero la
capacità cosciente di dare un significato pieno alle frasi e ai discorsi
costruiti. Attraverso questo livello siamo in grado di attribuire valori
di verità o di falsità ai discorsi prodotti; siamo anche in grado di ade-
guarli ai contesti reali nei quali li produciamo e di adoperarli al fine di
ottenere un risultato precedentemente utilizzato. Potremmo dire che
questo livello è il luogo di composizione e di finalizzazione delle re-
gole, o meglio, degli algoritmi di cui ci serviamo. Siamo tutti degli
esperti di un determinato linguaggio, ma ancora possono presentarsi
ulteriori livelli di approfondimento, come quello che definiremo “me-
talinguistico”, l’ultimo livello di competenza che si prenderà in con-
siderazione;
4. il livello metalinguistico non si traduce necessariamente in miglioramenti
nei livelli degli skill, delle regole o della comprensione, ma rappresen-
ta un ulteriore livello di astrazione e rappresenta la capacità di costru-
ire “linguaggi sul linguaggio”, di estrapolarne le regole e di crearne di
nuove. Esso non si presenta come un corollario della capacità genera-
tiva, ma ne è essenzialmente il suo motore.
Attraverso questi processi, che implicano anni di fatica e di investimento
di risorse, diventiamo padroni del nostro linguaggio. Questo percorso si è
evoluto con l’uomo in centinaia di migliaia di anni.
Il linguaggio è solo un esempio di come agiscano le nostre competenze
specifiche in un particolare dominio, infatti i livelli di skill, ruled e knowled-
ge e gli ulteriori meta-livelli sono individuabili in ogni processo che richieda
abilità e apprendimento1
.
Le nostre memorie non diventano quindi dei “database passivi”, ma strut-
ture biologiche in continua trasformazione e adattamento in cui le informa-
zioni si integrano per permetterci il fine ultimo della nostra esistenza: l’agire.
Non bisogna quindi confondere l’agire automatico con situazioni di non
pensiero o di scarsa elaborazione, ma come risultato di grandi sforzi di ap-
prendimento ripetuti che nel loro applicarsi hanno portato a situazioni soddi-
sfacenti o di successo tali da essere state giudicate, dal nostro approssimativo
1
È principalmente ad Anderson (Anderson J. R. 1996) che si deve la considerazione dei
processi di apprendimento nelle diverse fasi sopradescritte (skill, ruled, knowledge).
29
2
Gli automatismi sono formati da mappe consistenti tra gli stimoli e le categorizzazioni
mentali e tendono a essere rapidi, accurati e a basse risorse. In tale contesto si spiegano le
elaborazioni automatiche di stimoli familiari come, ad esempio, le lettere dell’alfabeto ma
anche le sequenze più complesse di stimoli. La caratteristica principale dei processi auto-
matici è che possono essere rapidamente ed efficacemente ripartiti temporalmente con altri
compiti a maggior consumo di risorse.
3
La memoria ha una natura di tipo associativo: quando proviamo a ricordare qualcosa
vi è una corrispondenza diretta con la forza dell’associazione. Più l’associazione tra due
elementi è forte, maggiore sarà la probabilità che il secondo elemento venga richiamato
all’attivazione del primo.
sistema di valutazione, come degne di essere punti di riferimento per azioni
future2
(Schneider W., Fisk A.D. 1982, pp. 261-278).
2.2 La teoria del doppio processo
I meccanismi che ci portano a rispondere in maniera automatica, (quindi
in parte o del tutto inconsapevole) oppure in modo intenzionale e oculato
dipendono da due principali sistemi mentali distinti, ma in continuo dialo-
go tra loro. Kahneman (2011) definisce questi due sistemi rispettivamente
sistema 1 e sistema 2, attribuendo al primo le facoltà basilari di valutazione
della realtà, al secondo quelle riflessive di controllo e di esecuzione del com-
portamento.
Il sistema 1 è prevalentemente intuitivo e impulsivo, opera in fretta e in
modo automatico, non richiede nessun controllo volontario, quindi nessuno
sforzo e, per questa ragione, consuma anche poche risorse mentali. Si rifà
prevalentemente alle risposte emotive primarie e alla memoria associativa3
,
elaborando di continuo un’interpretazione coerente di quello che accade nel
nostro mondo (Kahmneman, 2011).
Il sistema 2, invece, è caratterizzato da processi controllati, deliberati e
cognitivi che ci permettono di elaborare le informazioni in maniera logica
e analitica. Questo sistema, rispetto al sistema 1 è più lento non per la sua
struttura, ma per il modo stesso con cui opera: infatti, è predisposto a cercare
nuove informazioni, a valutarle e a ricercarne ulteriori nella memoria a lungo
termine, per poi integrare il tutto.
30
31

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capitolo1-2

  • 1. 1
  • 2. 2
  • 3. 3
  • 4. 4
  • 5. 5 1. La mente sensoriale 1.1 L’equilibrio dinamico dei processi sensoriali I nostri sensi rappresentano l’origine di quel processo di adattamento in continuo equilibrio dinamico che ci permette di sopravvivere e di intera- gire con il mondo. Il concetto di equilibrio dinamico è alla base della vita stessa: un organismo sopravvive perché riesce a mantenere un equilibrio tra l’energia che accumula e quella che consuma, allo stesso modo una specie sopravvive perché riesce a mantenere un equilibrio tra le risorse disponi- bili e il consumo che ne fa. La vita, quindi, per creare un equilibrio di tal fatta, deve continuamente trovare nuove soluzioni che possano portarla a ottimizzare il consumo delle risorse oppure ad adattarsi per poterne consu- mare di nuove. Su questo dinamismo si fonda il concetto di esistenza ed è su questo stesso principio che si regola l’attività dei nostri sensi: quest’ultima, attraverso l’elaborazione operata dal cervello, è volta continuamente all’ot- timizzazione del nostro interagire con il mondo e con gli artefatti. Seppur l’equilibrio dinamico sia il risultato di continue mutazioni che avvengono tanto internamente quanto esternamente ai nostri corpi, la mente cerca in- varianti e modelli per orientarsi. Ciò favorisce la percezione di una realtà in cui le forme, i materiali, le illuminazioni e l’angolazione degli oggetti del mondo giungono a noi mescolati alla rinfusa, ma vengono subitamente “or- dinati” per farci vedere un’unica forma, con un solo colore, con una precisa angolazione sotto una determinata luce (Pinker 1997). Questa sorprendente facoltà di “ricombinazione” non va relegata alla sola percezione visiva, ma si deve estendere alla grande capacità multisensoriale del nostro cervello che vede intersecarsi continuamente sensi apparentemente distinti per rispondere congiuntamente o alternativamente all’elaborazione della realtà. Siamo in grado di conferire un significato a ciò che percepiamo e siamo convinti, per istinto, di cogliere un aspetto differente del mondo in virtù del senso che utilizziamo: crediamo di ascoltare un racconto con le orecchie, di gustare un cibo con la lingua, di orientarci in uno spazio con gli occhi. Invece, quando
  • 6. 6 l’informazione sensoriale raggiunge il cervello a conferirle un significato è l’attività collaborativa, continua e simultanea di aree sensoriali molto di- verse. Nell’ascoltare un discorso non ci accorgiamo di quanto il movimento labiale del nostro interlocutore incida sulla comprensione di ciò che “sentia- mo”, così come non rileviamo i suoni riflessi che concorrono a farci orientare meglio in un ambiente o non ci rendiamo conto che il colore di una bevanda contribuisce a determinarne il sapore. Ascoltare gli ambienti che occupiamo, comprendere la provenienza degli odori, gustare con la vista o toccare con i suoni, rappresentano tutti esempi di questo mondo multisensoriale che non è al di fuori, quanto piuttosto dentro la nostra mente (Rosemblum 2011). È stupefacente rilevare quanti aspetti ci accomunano agli altri esseri vi- venti, ma è altrettanto affascinante scoprire quante micro-varianti adattive sono state messe in pratica non soltanto tra le diverse specie, ma anche all’in- terno della stesse: ecolocalizziamo analogamente ai pipistrelli, sentiamo gli odori in modo simile a quello dei cani, abbiamo una vista tridimensionale come quella degli scimpanzé, e molto altro ancora. Tuttavia, ogni specie pre- senta modelli di organizzazione sensoriale differenti e capacità di astrazione adeguate al proprio ambiente. Diventa, pertanto, fondamentale comprendere le priorità evolutive che, nell’uomo, ne hanno determinato abilità specifiche, operando una prima categorizzazione “per funzioni” in risposta a un preci- puo contesto adattivo. 1.2 Le realtà multisensoriali I sensi concorrono continuamente a persuaderci che qualcosa esiste dav- vero, che ciò che percepiamo è “reale”. Questa ingegnosa attività non è es- clusiva degli esseri umani, ma di ogni singola specie presente sulla terra che, per il solo fatto di esistere, si rivela adeguata alla propria “realtà”. Così, se consideriamo l’enorme varietà del mondo vivente1 e le sue infinite possibilità di mutazione, possiamo facilmente inferire che esistono tante “realtà” almeno quante sono le specie che lo compongono (Dawkins 2011). Le innumerevoli differenti soluzioni percettive, selezionate dall’evoluzione per ogni singola specie, mettono in luce come ogni essere vivente si sia evoluto per sfruttare un particolare tipo di risorse in un determinato ambiente o “nicchia2 ”. In quest’ottica, il sistema percettivo rappresenta parte di un meccanismo atto 1 Le specie esistenti note agli scienziati sono circa 1,5 milioni, ma sembra che molte siano ancora da scoprire e, queste ultime, comprenderebbero una cifra che va dai 2 agli 8 milioni di specie appartenenti a tutti i regni del vivente (Bellone M. 2013, p. 28).
  • 7. 7 2 L’idea di “nicchia” (dal latino nidus) intesa come cavità o incavo la cui funzione è quella di accoglienza e di protezione, include un aspetto portante del processo evolutivo rimandando a quella condizione di separazione e di isolamento, spesso geografici, che ha visto popolazioni, anche molto prossime, allontanarsi le une dalle altre e dare avvio a una vita evolutiva autonoma. Questo rappresenta il contesto grazie al quale è iniziato il processo di ramificazione che ha dato origine a tutte le specie presenti sul pianeta (Dawkins R. 2011). ad individuare soluzioni utili alla sopravvivenza, all’interno di una specifica nicchia di appartenenza, in cui specie viventi condividono strumenti e mo- dalità di uso di questi, concentrando soluzioni simili ai medesimi problemi. Se la diversità contiene già di per sé un’infinita gamma di brillanti solu- zioni adattative, è innanzitutto nell’aggregazione di tale diversità che possia- mo individuare le “invenzioni” altamente creative volte alla conservazione. Sappiamo, infatti, che molti organismi sono in grado di mutare più volte du- rante il loro sviluppo. Tali mutazioni comprendono, spesso, livelli più vicini alla “metamorfosi” che a un vero e proprio processo lineare di crescita. Quel- lo che varia sembra essere più la velocità della mutazione piuttosto che l’en- tità della stessa. Anche la metamorfosi fisica che compie l’essere umano fa sì che riconoscerci da adulti nelle nostre foto da bambini richieda una capacità di astrazione molto elevata. Gli elementi biologici si adattano costantemente alle esigenze scaturite dalla nicchia, pur mantenendo funzioni simili. Basti pensare che le zone visive del nostro cervello si ri-mappano completamente circa sette volte durante la nostra crescita e questo per seguire l’aumento delle dimensioni del volto e il conseguente allontanamento degli occhi. Solo attraverso queste continue mutazioni, l’essere umano può mantenere la per- cezione visiva binoculare, elemento basilare della visione in tre dimensioni. Il tasso di metamorfosi anche di un solo organo, implica che vi sia una struttura fisica in grado di supportarlo. Le grandi mutazioni tipiche dei verte- brati sono più difficilmente sostenibili da parte delle specie dotate di un eso- scheletro. Lo stesso principio di “riorganizzazione” fa sì che ciò che non sa- rebbe possibile in termini di dimensioni e di volumi per un essere umano, lo diventa, ad esempio, per un insetto: gli insetti non hanno vertebre e neanche ossa ma la loro pelle secerne un rivestimento esteriore che forma uno sche- letro solido, composto di chitina, che permette a un animale di nascondersi e di proteggersi senza compromettere l’attività di volo, grazie al peso ridotto di tale materiale. In una comune mosca domestica gli occhi ricoprono quasi tutta la testa e sono composti per la maggior parte da ommatidi che, come dei minuscoli telescopi stretti tra loro, guardano a tutte le direzioni dello spazio; le immagini accurate, puntuali e raccolte in modo indipendente dai singoli ommatidi si raggruppano come le pietre di un mosaico a generare un’imma- gine globale. Rispetto all’occhio umano con il cristallino e l’immagine che
  • 8. 8 proietta, è un modo diverso di guardare alla realtà, ma non si può giudicare migliore o peggiore, quanto piuttosto funzionale alla scala dimensionale e alle sue necessità di interazione con il proprio ambiente. L’acuità olfattiva della mosca, decisamente superiore a quella degli esseri umani, non si può paragonare all’apparato respiratorio, infatti si situa a livel- lo delle antenne e consente a questi insetti di raggrupparsi in modo estrema- mente rapido intorno a un pezzo di carne o a un escremento. Per selezionare il gusto, la mosca assaggia il cibo innanzitutto con le zampe, operando una prima selezione altamente strategica che può prevenire l’intossicazione o l’avvelenamento. Quando un violinista esegue un trillo, la frequenza con cui tocca la corda va dai 7 agli 8 secondi. Una mosca domestica batte le ali 190 volte al secon- do: questa sorprendente agilità rappresenta la ragione per cui la mosca può scappare facilmente ai pericoli e alle minacce della propria realtà (Von Frisch 1959). Per la maggior parte delle specie di cui oggi siamo a conoscenza, è pos- sibile ipotizzare un modello del mondo guidato e accomodato dai dati sen- soriali, ma costruito affinché possa essere funzionale all’interazione con il mondo circostante. In quest’ottica, “realmente” assume un significato estre- mamente vario in quanto la natura del modello è intimamente correlata al tipo di animale che lo percepisce: un animale che vola ha bisogno di un tipo di modello differente rispetto a quello di un animale che cammina, si arram- pica o nuota. Il cervello di una scimmia deve possedere un software capace di simulare un mondo tridimensionale di rami e di tronchi, così il software di una talpa sarà adeguato a un mondo sotterraneo. “Realmente” per un animale è qualsiasi cosa di cui il suo cervello neces- sita per assisterlo nella sua sopravvivenza e siccome specie diverse vivono in mondi differenti, la varietà di “realtà” può assumere dimensioni sconcertanti. La natura del modello appare governata da come questo deve essere utiliz- zato, piuttosto che dal modello sensoriale utilizzato. Ogni specie ha quindi evoluto un meccanismo di elaborazione dell’informazione designato a ri- solvere i propri specifici problemi all’interno di una determinata nicchia di riferimento. 1.3 La realtà dell’uomo: un mondo di mezze misure Il biologo evoluzionista, Richard Dawkins, considera il processo evo- lutivo dell’uomo nella sua imprescindibile interazione con la materia. In quest’ottica, il cervello umano si sarebbe evoluto in funzione degli ordini di
  • 9. 9 magnitudine, di grandezza e di velocità in cui operano i nostri corpi. Anche se percepiamo come “solidi” oggetti quali cristalli e rocce questi sono “soli- di” soltanto all’apparenza: infatti, se ci soffermiamo a pensare alla smisurata distanza che caratterizza lo spazio vuoto tra gli elettroni e il nucleo all’inter- no degli atomi, dobbiamo chiederci perché l’uomo percepisca gli aspetti di “solidità” di “durezza” e di “impenetrabilità” degli oggetti. In quest’ottica, afferma Dawkins: «se un neutrino avesse un cervello, che si fosse evoluto da antenati della taglia di un neutrino, esso direbbe che le rocce consistono real- mente in uno spazio vuoto» (Dawkins R. 2007). Allo stesso modo, anche se le nostre vite sono governate dalla gravità, non risentono in modo particolare della forza della tensione superficiale. Un piccolo insetto ha, invece, priorità decisamente opposte. Così, Dawkins definisce un “mondo di mezze misure” l’ambiente di medie dimensioni in cui l’uomo ha evoluto abilità specifiche per interagire con una “realtà” che gli è propria. Per gli esseri umani il mon- do di mezze misure è rappresentato dalla gamma di taglie e di velocità con cui ci sentiamo istintivamente a nostro agio perché è con queste che ci siamo evoluti. L’uomo è consapevole di un ricco campo di sensazioni: i colori e le forme del mondo che lo circondano, i suoni e gli odori che lo avvolgono, le pressioni e i dolori della pelle, delle ossa e dei muscoli.Aquesto si aggiungo- no anche gli aspetti emotivi che possono rendere una sensazione “piacevole” o “spiacevole”, “eccitante” o “rilassante” e molto altro ancora. Tuttavia, è sufficiente pensare alla ristretta gamma dello spettro elettromagnetico che percepiamo come luce di colori differenti, restando ciechi alle frequenze al di fuori di questo, a batteri troppo piccoli o a galassie troppo lontane per essere osservate con il solo occhio nudo, per comprendere che sono moltis- sime e spesso insospettabili le cose del mondo che, invece, non percepiamo. Il nostro mondo uditivo è limitato e non ci permette di accedere a frequenze troppo basse: non possiamo sentire gli infrasuoni3 ampiamente presenti nel nostro ambiente e prodotti da comuni dispositivi quali condizionatori d’aria, bollitori, areoplani e automobili, ma anche dalle vibrazioni della terra (fat- tore per cui si ipotizza che alcuni animali possano percepire un terremoto imminente attraverso la percezione di questi suoni per noi inudibili). Non percepiamo le micro variazioni della temperatura che ci avvolge, così come non sentiamo molte sfumature del sapore dei cibi che gustiamo. Il mondo di mezze misure rappresenta la ristretta gamma di realtà che giudichiamo essere “normale”, contrapponendola all’inafferrabilità del molto piccolo, del molto grande o del molto veloce (Dawkins 2007). Risulta evidente come, 3 L’infrasuono è un suono a frequenze più basse di quelle udibili dall’orecchio umano, circa al di sotto dei 20Hz, non udibili dall’uomo.
  • 10. 10 in un’ottica evolutiva, la tendenza alla vita non sia mai verso una maggio- re complessità, quanto piuttosto verso un livello di adattamento ottimale. Nell’uomo, il cervello e l’organizzazione delle relative capacità sensoriali si presentano come una delle soluzioni adattive possibili a questo mondo di mezze misure. In quest’ottica, anche l’accesso all’informazione sensoriale appare situarsi a livelli intermedi di consapevolezza: durante il processo di elaborazione visiva, ad esempio, non percepiamo la prima attività dei coni e dei bastoncelli presenti nella retina, quanto piuttosto un livello intermedio fatto di bordi, di profondità e di superfici, fino al riconoscimento degli ogget- ti; non comprendiamo il linguaggio a partire dal suono grezzo, ma attraverso rappresentazioni di sillabe, di parole e di frasi, che ci portano gradualmente alla comprensione del contenuto di un messaggio (Jakendoff 1987). Non sia- mo soltanto inconsapevoli dei livelli inferiori della sensazione, ma anche i livelli di rappresentazione superiori non appaiono essere toccati dalla nostra consapevolezza immediata: il livello superiore, come i contenuti del mondo o il significato di un testo, tende a fissarsi nella memoria a lungo termine giorni e anni dopo un’esperienza, ma, mentre l’esperienza è in corso, ciò di cui siamo consapevoli scaturisce da visioni e da suoni (Pinker 1997). Il risultato di un’analisi testuale non contiene quell’insieme di sfumature pa- ralinguistiche, fatte ad esempio di tonalità e di ritmo della voce, che da un lato ci permettono di ascoltare “fra le righe”, dall’altro lato lasciano una traccia emotiva che accompagna i nostri ricordi di quel testo. Pertanto, se i livelli inferiori non sono necessari a livello cosciente, quelli superiori non potrebbero sussistere senza un’elaborazione intermedia. Ciò che percepiamo e, di conseguenza, ciò che comprendiamo, è il risultato di una scelta, di un processo selettivo e di trasformazione che rende la realtà diversa da ciò che è, ma utilizzabile dalla nostra mente e dal nostro corpo. La maggior parte di queste modificazioni avvengono al di sotto del nostro livello di consapevo- lezza, grazie a processi automatizzati la cui origine è imputabile, in maniera diretta, all’architettura fisiologica del nostro encefalo. 1.4 Il cervello multisensoriale È sufficiente mettere a confronto il cervello umano con quello di una scimmia generica per renderci conto di come, a livello evoluzionistico, le ris- trutturazioni di questo organo si siano evolute in favore di uno sviluppo sen- soriale adeguato al nostro ambiente: i bulbi olfattori, responsabili del senso dell’olfatto, si sono ridotti a un terzo della dimensione di quella dei primati e le aree corticali adibite alla visione e al movimento si sono anch’esse con-
  • 11. 11 tratte. A livello di sistema visivo, la corteccia visiva primaria, in cui ha luogo la primissima elaborazione dell’informazione, occupa una parte minore nel cervello mentre si sono ingrandite le aree più tardive responsabili dell’elab- orazione di forme più complesse; lo stesso vale per le aree temporo-parietali che conducono l’informazione visiva verso le regioni del linguaggio e con- cettuali. Sono cresciute le aree inerenti all’udito e alla comprensione del par- lato e i lobi frontali responsabili del pensiero deliberato e della pianificazione si sono sviluppati fino a diventare due volte più grandi di quelli che un pri- mate delle nostre dimensioni dovrebbe avere. Mentre i cervelli delle scimmie mostrano asimmetrie irrilevanti, il cervello umano, in modo particolare nelle aree destinate al linguaggio, è così asimmetrico che i due emisferi si possono distinguere chiaramente per la loro forma (Pinker 1997). La percezione multisensoriale nell’uomo è il risultato di sintesi e di astra- zioni successive, che integrano le informazioni provenienti dai singoli sensi in un continuum spazio temporale. Negli ultimi anni, gli studi con le tecni- che di neuroimaging4 hanno rilevato che di fronte a una perdita sensoriale, ulteriori aree suppliscono in modo incrociato5 : l’area visiva, in caso di dan- 4 Si definisce neuroimaging funzionale l’insieme di tecniche in grado di misurare il me- tabolismo cerebrale al fine di analizzare e comprendere la relazione tra l’attività di determi- nate aree e funzioni cerebrali specifiche. Mediante queste tecniche, attraverso il rilevamento del comportamento elettrochimico del cervello, si rende possibile l’osservazione diretta delle attività cerebrali, permettendo di valutare quantitativamente le variazioni osservabili. È pos- sibile, pertanto, distinguere tra più tecniche di scansione encefalografica che si differenziano per tecnica di misurazione prevista, ad esempio: PET (Positron Emission Tomography), FRMI (Functional Magnetic Resonance Imaging), SPECT (Single Photon Emission), NIRS (Near Infrared Spectroscopy). 5 Questa specifica abilità si definisce “flessibilità cross sensoriale dell’area percettiva del cervello” (Rosemblum 2011, p. 404).
  • 12. 12 neggiamenti relativi a quella uditiva, può rispondere a input sonori e tattili, viceversa quella uditiva a input tattili e visivi. In natura nulla è sprecato e la capacità di riconvertire aree cerebrali dimo- stra che la plasticità del nostro cervello è un elemento dominante, frutto di quell’equilibrio dinamico prodromico di qualsivoglia attività naturale. An- che quando la perdita sensoriale è indotta e temporanea, gli esperimenti con le tecniche di neuroimaging evidenziano modifiche significative: bendare una persona per un’ora abbondante prepara la corteccia visiva a rispondere al tatto, acuendo quest’ultima sensibilità; anche una semplice miopia accre- sce le abilità uditive e spaziali, anche quando i soggetti portano gli occhiali (Déspres 2005). Siamo di fronte a ciò che si definisce “neuroplasticità com- pensatoria”, finalizzata a controbilanciare la benché minima riduzione sen- soriale. Ciò conferma le ipotesi più recenti per cui le aree percettive del cer- vello sarebbero collegate tra loro in un continuo dialogo tra i sensi, anche per quelle aree ritenute, soltanto fino a una decina di anni fa, specifiche di un unico senso. Si presumeva, infatti, che le influenze cross-sensoriali si verifi- cassero in aree superiori del cervello: «immaginiamo un pranzo tra amici. In passato si pensava che il suono delle voci altrui venisse registrato nell’area uditiva del cervello e la visione degli interlocutori in quella visiva. Qualsi- asi tipo di integrazione dei volti visti con il dialogo ascoltato aveva luogo in aree superiori del cervello» (Rosemblum 2011, p. 406). L’idea a lungo radicata che vedeva l’area percettiva del cervello composta di parti deputate ai singoli sensi è oggi in corso di ridefinizione. Il cervello sembra piuttosto essere riprogettato intorno a input multisensoriali e appare altresì indifferen- te alla provenienza del sistema sensoriale di origine. In questo modo, scom- pare il concetto di “input prevalente” su di un altro: se, ad esempio, doves- simo afferrare una palla che emette un suono, dal suo lancio la “velocità di cambiamento” resterebbe la stessa sia per le dimensioni, sia per l’intensità del segnale sonoro (DeLucia 2004). In tal modo, le informazioni appaiono equilibrate per la vista e per l’udito (Lee D.N et al. 1992). Quando tocchia- mo una chiave nella nostra tasca, senza vederla, di solito non la “sentiamo” attraverso un insieme di caratteristiche distinte di forma, di dimensioni, di peso, di superficie, ma la riconosciamo tramite le dita, attraverso una fusione di percezioni sensoriali necessaria alla generazione dell’immagine mentale completa della “chiave” (Bear F.M, Connors B.W, Paradiso M.A. 2007, p. 429). Il cervello non separa le informazioni sensoriali, ma crea una sintesi volta a percepire “quanto tempo manca all’arrivo della palla”, al fine di fornire una risposta ottimale al compito di afferrarla o al discernimento di una chiave da un biglietto da visita dentro a una tasca (Rosemblum 2011).
  • 13. 13 Ovviamente, questo non esclude che vi siano delle aree cerebrali speci- fiche all’elaborazione di ogni senso, ma evidenzia il fatto che tali aree sono fortemente interconnesse e gestite da un controllo olistico finalizzato a creare la nostra “idea del mondo”. 1.5 La sensorialità e gli artefatti Fin dagli albori della specie6 , gli esseri umani hanno iniziato a costruire artefatti e strumenti i quali hanno vincolato la nostra storia evolutiva tanto da influire sui geni che si replicheranno nelle generazioni future. La diffu- sione della miopia giovanile, in parte ereditabile, sarebbe stata selezionata negativamente in una società di cacciatori-raccoglitori, almeno fino a quando gli esseri umani non hanno inventato gli occhiali (Keil 1979; 1989; Dennet 1990; Putnam 1975; Bloom 1996). Gli artefatti accompagnano la nostra esistenza fin dalla nascita, infatti, già dopo pochi mesi di vita, sviluppiamo la capacità di utilizzarli, anche come strumenti di relazione con il mondo esterno. Un oggetto può essere definito come una porzione del campo visivo dotato di una sagoma ben delineata. Tuttavia, in linea generale, è il movimento comune a essere decisivo e già a livello naturale il movimento discerne ciò che è animato da ciò che è inerte, diventando rivelatore fondamentale di una qualsivoglia presenza. Le specie di insetti che hanno adottato forme mimetiche di protezione possono assomigliare a rami o foglie, addirittura a escrementi di uccelli ma raramente fanno riferimento a pietre o a sassolini; le pietre sono inerti e per un animale che volesse simularne le sembianze lo spostamento potrebbe essere molto rischioso. Al contrario, seppur gli escrementi siano immobili, hanno comunque la possibilità di essere mossi dal vento o di rotolare giù da una foglia senza destare troppa attenzione. L’immobilità totale non è, quindi, in nessun modo funzionale, perché implica trascurare attività fondamentali, quali la ricerca di cibo o del partner con cui riprodursi. Il movimento, invece, unisce le parti e le separa dallo sfondo, rendendo un organismo o un oggetto percettivamente identificabile (Bressan P. 2007). Gli esseri umani, già all’età 3-4 mesi, percepiscono come un unico ele- mento oggetti anche molto differenti che però si muovono insieme. Inoltre, è presente la consapevolezza che un oggetto non può passare attraverso un altro e se viene percepito un oggetto prima a sinistra e poi a destra in assenza 6 Le prime pietre lavorate con lo scopo di diventare strumenti volti a potenziare l’azione manuale, risalgono a circa due milioni e mezzo di anni fa (Legrenzi 2002).
  • 14. 14 di movimento nello spazio, un bambino presume che si tratti di due oggetti diversi. I neonati di 3-4 mesi non vedono soltanto gli oggetti e li ricordano, ma si attendono che siano rispettate le leggi fondamentali della continuità, della coesione e del contatto. Non sanno camminare e parlare, ma sono già consapevoli del fatto che il mondo è stabile e governato da leggi fondamen- tali (Spelke 1995). Fin da molto piccoli, i bambini dividono il mondo tra animato e inerte, utilizzano oggetti per avvicinarne altri, ma generano un rumore per avvicinare un’altra persona. Verso i 6-7 mesi discernono l’intera- zione tra le mani e gli oggetti dall’interazione di oggetti con altri oggetti. A 12 mesi, vedendo un cartone animato con puntini che si muovono, lo inter- pretano come se i puntini perseguano un obiettivo e riescono a distinguere gli esseri animati dagli oggetti inanimati che lo rappresentano (Premack 1990; German, Durgin, Kaufman 1995). A 18 mesi i bambini sono in grado di asse- gnare delle funzioni agli oggetti e comprendono la relazione tra gli artefatti e il materiale di cui si compongono, conferendo maggiore importanza agli aspetti di durezza e di forma rispetto a quelli relativi al colore e alla decora- zione (Brown 1990). Questa “ricomposizione” del mondo esterno attraverso i sensi appare, come sempre, avvantaggiare il nostro relazionarci con esso. Infatti, seppur la nostra percezione visiva avvenga tramite due occhi, essa è sintetizzabile nel concetto di occhio ciclopico, ossia una rappresentazione mentale univoca delle singole informazioni oculari che ci permette di vedere ciò che singolarmente gli occhi non potrebbero rilevare (Vannoni 2009). Un sistema stereoscopico più semplice (grazie al quale prima si riconoscono gli oggetti e successivamente vengono sommati tra loro) non avrebbe permesso ai nostri antenati che si sono evoluti sugli alberi, di districarsi tra il fogliame misto a rami. Infatti, la visione ciclopica consente di visualizzare forme e oggetti posti su di uno sfondo, attraverso alcuni principi generali a cui si rifà il nostro sistema nervoso centrale. Il modo secondo il quale organizziamo il rapporto tra figura e sfondo rappresenta un’eccellente strategia sfruttata da- gli esseri viventi per raggiungere uno tra gli obiettivi principali relativi alla sopravvivenza: farsi vedere oppure non farsi vedere, ossia nascondersi per assomigliare al proprio sfondo oppure mettersi in mostra differenziandosi dallo sfondo. Grazie alla capacità di mimetizzarsi, molte specie possono assumere un colore il più vicino possibile all’ambiente circostante per ridurre la propria visibilità, e ciò può avvenire in modi differenti: alcuni, come il camaleonte, tendono a formare un’unità con lo sfondo, mentre altri insetti si cospargo- no direttamente lo sfondo addosso (ad esempio, con il fango) o si lasciano crescere sul corpo dei micro terreni di alghe, licheni e muschio, altri si ri- coprono direttamente delle spoglie delle proprie prede. Altre specie, inve-
  • 15. 15 ce, necessitano di farsi riconoscere, ad esempio, mostrando la loro tossicità, evitando, al contempo, di essere assaggiate o comunque di essere mangiate nuovamente (Bressan P. 2007). Il nostro cervello compie continuamente un notevole sforzo per suddi- videre il campo visivo in superfici e decidere quale parte si pone davanti e quale dietro. Il contesto è determinante a farci percepire gli oggetti in un certo modo: illuminazioni, distanze, cromatismi e profondità differenti rap- presentano gli “indizi”, per lo più corretti, grazie ai quali percepiamo le ca- ratteristiche relative a un oggetto anche se gli stessi possono renderci, altresì, vittime inconsapevoli delle “illusioni percettive”. Grazie a una sola fonte di luce naturale il cervello ha imparato a fidarsi delle ombre o dei cromatismi, della profondità, della distanza quali fonti infallibili per apprendere il mo- vimento e la posizione degli oggetti nello spazio. Ciò avviene in modo del tutto involontario e dipende dall’informazione emessa dalle retine, secondo una moltitudine di principi (che affronteremo oltre) che regolano la nostra organizzazione percettivo- sensoriale. 1.6 L’affordance L’istintivo atteggiamento progettuale dell’uomo nel suo stretto rapporto con il mondo materiale trova un valido contributo nella teoria dell’affordan- ce7 , termine coniato da James Jerome Gibson nel 1979 e finalizzato a descri- vere la reciproca relazione che si instaura tra un animale e il suo ambiente. Nello specifico, l’affordance consiste in un insieme di risorse che l’ambiente offre a un animale il quale, a sua volta, deve possedere le capacità per perce- pirle o utilizzarle (Gibson 1979). In questo modo, l’affordance definisce un processo di interazione e di selezione tra una specie e un gruppo di risorse ambientali. Tali risorse possiedono proprietà percepibili (a cui daremo la de- finizione di “percettili”) che oltre a renderli individuabili, contengono anche una serie di “istruzioni” utili per poterle utilizzare. Esempi di affordance includono sia oggetti naturali, sia artefatti che contengono, attraverso forme e dimensioni, segnali sul come utilizzarli. Ad esempio, l’aspetto fisico di una caraffa d’acqua permette all’utilizzatore di dedurne le funzionalità anche senza averla mai vista prima, una superficie piatta possiede l’affordance di camminare sopra di essa, una superficie verticale dà l’affordance di ostaco- lare un movimento o di blocco di un movimento. Se da un lato il termine “affordance” può essere tradotto attraverso il 7 Letteralmente “autorizzazione”, ossia l’insieme delle cose permesse (Norman, 1988).
  • 16. 16 concetto di “invito”, dall’altro lato questo concetto non appartiene né all’og- getto stesso né al suo fruitore in quanto si viene a creare dalla relazione che si instaura fra di essi. È, infatti, definibile come una “proprietà distribuita”: in questo senso, le proprietà dell’affordance devono essere specificate in sti- moli informativi poiché anche se un animale è equipaggiato degli attributi appropriati, potrebbe avere bisogno di imparare a riconoscere le informa- zioni e perfezionare le attività che rendono utile l’affordance o di elimina- re quelle pericolose. Superfici e sostanze che invitano all’utilizzo o ritenute pericolose per gli esseri umani, possono essere del tutto irrilevanti per una specie che nuota o che vola, e sostanze che invitano a essere mangiate da un esemplare adulto, possono non essere appropriate per una larva. La recipro- ca relazione di affordance tra nicchia di riferimento e una specie definisce “l’ambiente di riferimento ideale per un animale” (Gibson J.J. 1979). Utiliz- zare un’affordance implica un’ulteriore reciproca relazione tra percezione e azione: la percezione procura l’informazione per l’azione, e l’azione genera conseguenze che informano la percezione. Una volta individuata, l’affordan- ce diventa significativa e acquisisce un valore semantico. Ciò potrà essere trasmesso attraverso l’apprendimento e l’addestramento di generazione in generazione e rimarrà tale finché non si evolverà l’oggetto dell’affordance o non muterà l’abitudine del soggetto. In questo modo, l’affordance può rap- presentare un’indicazione per comprendere l’interazione con gli oggetti in modo in parte pre-organizzato. Gli organismi interpretano, quindi, le forme che incontrano nel mondo sulla base di usi e comportamenti che associano ad essi, attraverso un meccanismo di base automatizzato e naturale (Gibson 1977, 1979). 1.6.1 L’affordance naturale L’affordance che si instaura tra un essere vivente e la sua nicchia, rappre- senta un ulteriore esempio di quell’equilibrio dinamico che contraddistingue ogni specie. In qualunque forma di evoluzione, si tratti delle ali di una mosca o di quelle di un aeroplano, è implicata l’affordance. In quest’ottica, vengo- no ottimizzate e continuamente adattate le risorse disponibili, dell’animale e dell’ambiente. È una condizione nella quale questi due mondi entrano in relazione, modificandosi e venendo modificati per selezione. L’evoluzione delle ali della mosca non ha alle sue spalle un progetto, è piuttosto il risul- tato di un armonico adattamento, o meglio, di una exaptation8 tra ciò che si è rivelato utile e ciò che, invece, è stato eliminato in quanto inadatto. Ogni variante subisce il più duro processo di collaudo che si possa immaginare in
  • 17. 17 cui anche il minimo fallimento porta allo scarto del prodotto, o meglio, alla morte dell’esemplare. L’agilità della mosca domestica, in grado di decele- rare durante un volo veloce, di restare sospesa per aria, di volare a testa in giù, di disegnare dei cerchi, di atterrare sul soffitto in meno di un secondo, è il risultato di un’evoluzione delle ali le cui funzioni sono, in origine, assai diverse da quelle dell’attività di volo. I piccoli animali a sangue freddo come gli insetti, compiono, infatti, grandi sforzi per mantenere sotto controllo la propria temperatura. Così, le ali della mosca hanno iniziato a evolversi come radiatori capaci di assorbire energia solare nei periodi freddi e di disperderla in quelli caldi. L’aumento di dimensione delle ali, avvenuto per selezione naturale, oltre all’ottenimento di un punto ottimale per lo scambio di calo- re, ha permesso un’ulteriore grande “invenzione” del mondo degli insetti: il volo (Kingsolver, Koehl 1985). Volare implica anche evolvere altre capacità e funzioni somatiche. In questo modo, il mondo degli insetti volanti diventa più grande, le fonti di cibo più ampie e il sistema sensoriale incomincia ad adattarsi a una nuova affordance, in cui sensi ed elaborazione degli stessi diventano la chiave per l’orientamento, l’ulteriore sviluppo e la sopravvi- venza di un intero gruppo di specie. Le ali sono un ottimo esempio di come il processo evolutivo abbia come denominatore comune, per tutte le specie vi- venti, l’affordance naturale in tutti i suoi stadi di sviluppo. In tal senso, anche il progetto delle ali di un aeroplano è parte di un processo evolutivo di cui il soggetto è la mente dell’uomo. Un aeroplano possiede la propria affordance: i nuovi jet richiedono sensori, radar, elementi di connessione e di output sempre più evoluti e adatti alle nuove performances dell’oggetto. Certo, per il nostro modo di categorizzare, le ali di un aereo sono elementi artificiali, ma questa distinzione, allontanando la lente dal punto di vista antropocentrico, sembra quanto mai insoddisfacente. Come potremmo definire la tela di un ragno o il nido di una rondine: un elemento naturale o artificiale? Da questo punto di vista la diga costruita da un castoro non è molto diversa da una diga costruita dall’uomo. La mediazione della mente non è necessariamente il confine tra il mondo naturale e quello artificiale. Anzi, potremmo perfino affermare che, essendo la mente un organo “naturale”, altrettanto lo siano i suoi prodotti e le sue invenzioni, allo stesso modo per cui le ghiandole del ragno producono “tele naturali”. Le capacità cognitive e creative dell’uomo sono, a loro volta, quindi, un esempio di affordance naturale che gli consente 8 Il termine exaptation introdotto da Gould significa “utile a partire da” (ex-aptus) e designa l’adattamento di un vecchio organo a una nuova funzione o l’adattamento di un non-organo (pezzetti di osso o di tessuto) a un organo con una funzione. La spiegazione sta nella complessità della struttura. In alcuni casi una macchina progettata per svolgere un compito complesso, improbabile, può essere a servizio di qualcosa di più semplice.
  • 18. 18 di sfruttare la conoscenza delle cose, per individuare soluzioni utili al proprio adattamento. Gli empiristi ricordavano che: “nihil est in intellectu quod prius non fuerit in sensu9 ” a significare che il mondo della nostra mente raccoglie i suoi pen- sieri e le sue ispirazioni dal mondo che ci circonda. Oggi le tecnologie ci per- mettono di ottenere livelli di osservazione molto più profondi e dettagliati e quindi di comprendere processi e meccanismi selezionati dalla natura. Que- ste soluzioni evolutive sono state molto spesso soluzioni “tecnologiche” del mondo degli artefatti che abbiamo costruito. Infatti, la nostra mente rielabora creativamente soluzioni spesso già frutto di evoluzioni di milioni di anni. Il progetto di un aeroplano contiene la capacità mentale dell’uomo di osservare le potenzialità delle ali di altri organismi, reinterpretandole e adeguandole alle tecnologie e ai materiali disponibili. La nostra mente non copia, ma, grazie alla sua capacità di astrazione, individua l’essenza di funzioni e cerca, attraverso il processo naturale del pensiero, di adattarle alle proprie capacità tecnologiche. È cercando tra questi presupposti che possiamo comprendere alcuni dei vantaggi che hanno favorito l’evoluzione di un organo tanto com- plesso, energivoro, ingombrante e lento quale è il cervello. Il cervello uma- no adulto rappresenta circa il 2% del peso corporeo, pesa tra i 1.300-1.400 grammi, possiede 100 miliardi di neuroni e 100 trilioni di interconnessioni tra questi e con il resto del corpo. Un organo molto complesso che implica, necessariamente, un’elevata richiesta di risorse: il cervello umano consuma in media il 20% delle energie e delle sostanze nutritive. È sufficiente pensare che il nostro sistema nervoso consuma quantità di glucosio maggiori rispetto a quasi tutte le altre parti del corpo: anche quando la nostra mente appare disimpegnata spendiamo comunque una certa quantità di energia sia in pen- sieri casuali, sia nel monitoraggio continuo di ciò che accade intorno a noi e, quando l’attività mentale si rivela impegnativa, il glucosio cala drasticamen- te nei livelli del sangue (Gaillot M.T. et al. 2007; Gaillot M.T., Baumeister R. F. 2007). È ingombrante tanto da imporre alle donne, il cui bacino deve ospitare stentatamente la testa del nascituro, un bilanciamento dell’andatura che le rende peggiori camminatrici rispetto agli uomini. Inoltre, la posizione della testa sobbalzante sul collo, costringe gli esseri umani a una continua e ri- schiosa esposizione a potenziali danneggiamenti. Infine, il cervello umano è lento e limitato, basti paragonare i tempi di reazione anche in risposta a com- piti molto semplici come schiacciare un pulsante, rispetto a quelli di alcuni insetti capaci di mordere in meno di un millisecondo. Il cervello ha un costo elevato e, per poterlo sostenere, la specie umana ha dovuto rinunciare a mol- 9 Letteralmente: “Nulla è nell’intelletto che non sia stato prima nei sensi”.
  • 19. 19 te abilità che contraddistinguono altri organismi. Tuttavia, se il cervello si pone come organo imprescindibile alla sopravvivenza è in gran parte dovuto alla straordinaria capacità di raccogliere, elaborare, trattenere e utilizzare un bene importantissimo e immateriale quale è l’informazione. Importantissimo poiché le scelte fondate su informazioni corrette hanno più probabilità di ge- nerare risultati positivi per l’individuo, contribuendo alla sua sopravvivenza; immateriale poiché l’informazione può essere scambiata senza portare a una privazione da parte di chi la cede e facendo, al contempo, acquisire un bene a chi la riceve. Questo scambio non determina alcun costo e rappresenta la ragione principale di molti comportamenti dell’uomo e delle nostre società, ma è soprattutto la ragione per cui manteniamo e abbiamo subito la spinta evolutiva di un organo tanto complesso (Pinker 1997; Vannoni 2007). È in tal senso che la nicchia evolutiva in cui agiscono gli esseri umani può defi- nirsi “nicchia cognitiva” sottendendo la capacità dell’uomo di utilizzare la conoscenza di come le cose funzionano per raggiungere obiettivi di fronte a ostacoli (Toboby e deVore 1987). 1.6.1.1 Bioispirazioni (scheda) Gli esempi di come l’uomo si sia ispirato alla natura per trovare nuove soluzioni sono molteplici, ne citiamo alcuni tra i più attuali: una nuova gene- razione di jeans è stata pensata per respirare e per produrre ossigeno, proprio come fanno le piante10 , si stanno studiando l’iperelasticità della tela del ra- gno per la sua singolare sinergia tra materiale e strutture per la progettazione di edifici11 , le ventose dei gechi per la loro capacità reversibile di adesione, la funzione autopulente di alcuni tipi di foglie, per la costruzione di superfici vetrate12 . Alcuni tipi di materiali, come la pelle dello squalo, sono in grado di ridurre l’attrito dell’acqua e di autoeliminare gli ecto-parassiti dalla sua superficie, fattore che ha ispirato i costruttori di barche a progettare degli scafi con una migliore forma e levigatezza per migliorarne l’efficienza ener- getica. Il modellamento del muso del treno sulla struttura del becco del mar- 10 Il trattamento del denim con nanoparticelle di biossido di titanio sarebbe in grado di distruggere in generale gli ossidi di azoto, tra le maggiori cause di inquinamento dell’area urbana con seri effetti sulla salute dell’uomo in combinazione con altri elementi dell’aria. Le nanoparticelle si integrerebbero con i tessuti e avrebbero la funzione di fotocatalizzatore: in presenza di luce catalizzano e quindi spezzano i legami degli inquinanti assorbiti sulla superficie del tessuto (Il sole24Ore, 21 ottobre 2012 - Nova). 11 Ad esempio, nel caso di un impatto con un aereo, la struttura non collasserebbe proprio per la sua iperelasticità.
  • 20. 20 tin-pescatore (che per catturare un pesce passa dall’aria all’acqua sollevando piccolissimi spruzzi) ha permesso all’ingegnere giapponese Eiji Nakatsu di produrre treni più areodinamici, meno rumorosi e meno energivori con una riduzione del 15% di elettricità viaggiando a una velocità superiore del 10%. L’IBM sta concentrando la maggior parte delle proprie risorse nella ricerca sensoriale, intravedendo nel connubio tra i sensi e la tecnologia, le poten- zialità di creare un “settimo senso”: i nuovi computer si pongono l’obiettivo di possedere il senso dell’olfatto, di udire e comprendere ciò che accade, di farci toccare le cose attraverso lo schermo entro i prossimi cinque anni. Le nuove tecnologie saranno dotate di ricettori sensoriali, in cui papille gustati- ve digitali, nasi elettronici, orecchie digitali potenzieranno ulteriormente la nostra percezione di “realtà”. Gli esempi “bioispiratori” sono innumerevoli e ci fanno riflettere su quan- to lo stato vivente della materia, nella sua scala del molto piccolo o del molto grande, diventi fonte indispensabile per la progettazione di nuovi materiali, di ulteriori tecniche di costruzione, di soluzioni innovative anche nel rispetto della sostenibilità ambientale, se si tiene conto dell’affordance naturale che ne regola i principi. L’uomo, quindi, seleziona e trasforma i prodotti naturali (Keil F.C 1979; 1989; Dennet D.C. 1990; Putnam H. 1975; Bloom P. 1996) portandoci a ribadire che qualunque artefatto non è prodotto dall’uomo, ma dalla natura, attraverso la mediazione dell’uomo (Crane T. 1995). 1.6.2 L’affordance cognitiva La maggior parte delle affordance utili per l’uomo deve poter avere ac- cesso all’informazione conferendo a questo concetto anche una dimensione cognitiva. Quotidianamente, ci troviamo ad avere a che fare con un nume- ro spropositato di oggetti; Norman nel 1988 (Norman 1988) ne ipotizzava almeno ventimila, tra apparecchi d’illuminazione, elettrodomestici, abiti e accessori, oggetti per scrivere, varietà di materiali e di chiusure ma basta osservare il nostro tavolo di lavoro per convincerci della mole di oggetti con cui costantemente ci troviamo ad avere a che fare. Il modo in cui riusciamo a districarci al meglio in questo mondo ricco di artefatti, abituali o del tutto 12 Le goccioline d’acqua che cadono sulle foglie del loto, ad esempio, si imperlano e quando la superficie si inclina leggermente, le goccioline rotolano via, raccogliendo nel con- tempo piccole particelle di sporcizia. Di conseguenza, le superfici rimangono secche anche durante forti temporali.
  • 21. 21 nuovi, dipende principalmente da due fattori: il primo consiste nell’informa- zione che ci fornisce l’aspetto degli oggetti, il secondo deriva dall’abilità del progettista di renderne chiaro e intuitivo il funzionamento. La struttura visibile di un artefatto è principalmente conferita dagli inviti e dai vincoli di utilizzo nonché dalle correlazioni spaziali che vengono forni- te da un adeguato modello concettuale. In tal senso, un modello concettuale corretto ci permette di prevedere gli effetti delle nostre azioni, fattore che non presenta particolari criticità per gli oggetti di uso quotidiani (forbici, penne, interruttori della luce sono dispositivi assai semplici da utilizzare) ma che diventano determinanti per interfacce nuove o particolarmente comples- se. Anche gli oggetti altamente tecnologici, un tempo complicati e difficili da utilizzare, oggi rispettano spesso le regole sottostanti agli inviti e ai vincoli di utilizzo: ad esempio, la nuova generazione di tablet computer contiene un determinato numero di icone sullo schermo che invitano ad essere “premute” e i cui contenuti possono essere ingranditi, sfogliati o scorsi, simulando la nostra naturale e istintiva gestualità (Ware C. 2008). Le affordance cognitive rappresentano, in tal senso, delle immediate possibilità percettive che con- ducono all’azione. Questo legame tra percezione e azione coinvolge i pattern cerebrali spe- cializzati nello svolgimento di un dato compito. Creiamo mappe che conten- gono le coordinate della retina, le coordinate del corpo e le coordinate del mondo esterno; ogni mappa lega l’informazione percettiva a una determinata forma in un determinato spazio che guida un determinato movimento. Non dobbiamo pensare a mappe statiche e permanenti. Queste sono, in- fatti, in continuo cambiamento e molto ricche di dettagli: per esempio, la mappa spaziale dell’occhio viene aggiornata ogni volta che muoviamo i no- stri occhi e contiene una grezza ma sufficiente rappresentazione dell’allo- cazione di pochi oggetti rilevanti per un dato compito in uno determinato spazio. Le funzioni di tali rappresentazioni hanno lo scopo di supportare le attività in cui siamo continuamente implicati e contengono un numero di informazioni soddisfacenti a guidare queste azioni. Molto di ciò che avviene a livello di pattern è inconsapevole: la maggior parte delle volte non siamo consapevoli di muovere gli occhi, così come non siamo consapevoli di molti movimenti delle nostre mani; se camminiamo su di un terreno impervio, aggiustiamo continuamente il passo per evitare di cadere, ma non ci facciamo caso. Il nostro sistema motorio registra silenzio- samente la presenza di piccoli ostacoli e misura, ad esempio, la dimensione degli scalini sincronizzando il segnale muscolare affinché possiamo dare la
  • 22. 22 “spinta” corretta per salire il gradino successivo. Anche gran parte delle nostre abilità a dirigere lo sguardo su determinati target è innata, tuttavia diventiamo sempre più esperti e abili con il passare del tempo (Spelke E.S., Breinlinger K., Macomber J., Jacobsen K. 1992). Le capacità visive motorie come camminare, toccare un oggetto, guidare una macchina o giocare a tennis, passano attraverso l’apprendimento di pat- tern ben definiti, affinando le nostre abilità in un processo che dapprima può richiedere un grande sforzo e una richiesta attentiva impegnativa ma che via via diventa automatizzato. Aumentando i livelli di abilità, i pattern che legano percezione e azione si rafforzano, richiedendo sempre minori risorse attentive. Le persone che giocano con i videogames per centinaia e centinaia di ore sviluppano un pattern visivo motorio per navigare attraverso l’artificiale spa- zio tridimensionale. Quando i pattern sono ottimizzati, le specifiche confi- gurazioni dei tasti vengono mappate in modo da ottenere un riconoscimento immediato, senza che il giocatore debba cercarle con lo sguardo. Nei videogames interattivi, le affordance critiche sono di tipo virtuale: il nostro modello mentale dello spazio e della gravità deriva innanzitutto dalla nostra esperienza con lo spazio fisico e non attraverso quello della rappresen- tazione di oggetti di un mondo virtuale. Si rende, quindi, necessario che gli oggetti esibiscano in modo approssimativo il comportamento fisico corretto per sembrare reali quando interagiamo con questi. Infatti, i modelli che sono incorporati nel nostro sistema nervoso sono solo una grezza e approssimata rappresentazione di una complessa reazione fisica dei pattern. Una conse- guenza di ciò è che possiamo creare mondi virtuali dove le basi della fisica possono venire distorte senza che le persone se ne accorgano. Il progettista può utilizzare numerose analogie che rimandano alla nostra esperienza sen- soriale con il mondo reale: per sollevare un oggetto si può richiedere di muo- vere il comando verso l’alto, per segnalare una situazione di avvicinamento può utilizzare un suono crescente, per arrestare una situazione può richiedere di premere un pulsante. I videogames alterano spesso la fisica delle azioni e delle reazioni in modo estremo e, anche quando ce ne accorgiamo, possiamo adattarci molto rapi- damente a questa distorsione, finché il pattern che lega percezione e azione viene conservato. Solitamente i game designer riducono la forza di gravità reale e i giocatori si mostrano ancora capaci di controllare più funzioni del gioco con poca o senza alcuna difficoltà, anche quando saltano e cadono decisamente più rapidamente di ciò che sarebbe nella realtà. Un design efficiente per l’informazione progetta sulle capacità visive mo- torie di cui siamo già in possesso. Per esempio, anche se il mouse di un com-
  • 23. 23 puter è completamente disconnesso dal cursore dello schermo, il cursore va a destra quando muoviamo la mano a destra. Se si prova a ruotare il mouse di 90° e a selezionare delle icone sullo schermo ci si può rendere conto di quante difficoltà può portare la violazione della corrispondenza di base tra il movimento della mano e il movimento del cursore. 1.6.2.1 Il mapping naturale Un esempio di come un’adeguata disposizione delle informazioni pos- sa favorire il corretto utilizzo degli oggetti e delle interfacce ci è dato dal concetto di mapping, ossia la capacità di rappresentare le indicazioni ma- nifestando il tipo di relazione tra due oggetti. Ciò può avvenire attraver- so la sistematizzazione di analogie e di modelli culturali che portano a una comprensione immediata da parte dell’utente, favorendo l’adeguato utilizzo delle modalità sensoriali di tipo spaziale (sterzare un volante in senso ora- rio o anti orario per decidere una direzione) visivo (l’utilizzo del medesimo schema di distribuzione per comandare un insieme di luci), uditivo (l’utilizzo di un suono più forte per indicare una quantità maggiore) o tattile (l’utilizzo di forme che tattilmente riportano all’oggetto da comandare). In quest’ottica, le modalità di disposizione di una serie di comandi in re- lazione a una qualsiasi interfaccia, possono diventare determinanti a genera- re un’affordance ottimale nell’interazione tra fruitore e artefatto. Prendiamo ad esempio un comune piano cottura a quattro fuochi: se, come nel primo caso i comandi fossero distribuiti in maniera arbitraria, l’utente si troverebbe davanti a un numero di combinazioni decisamente alta (24) implicando un tipo di elaborazione troppo complessa. Nel secondo caso i comandi sono suddivisi per metà a destra e metà a sinistra, comportando due alternative per ognuno dei quattro fuochi. Le combinazioni si riducono ma resta sem- pre l’incertezza relativamente a quale manopola comandi il fuoco davanti e quale quello dietro. Il mapping corretto e completo (fig. 1) è conferito da una disposizione che rispecchia lo stesso schema dei fuochi, imponendo una na- turale correlazione spaziale. Qui, il numero delle possibili sequenze si riduce a una sola. Un mapping corretto svincola, inoltre, il progettista dall’utilizzo di etichette informative supplementari rendendo, al contempo, un’interfaccia facilmente utilizzabile. Un ulteriore aspetto che contribuisce a un’interazione efficace tra infor- mazione e azione consiste nel rispetto del feedback, ossia quell’informazio- ne di ritorno che informa l’utente sul tipo di azione che ha eseguito o è stata
  • 24. 24 Fig. 1 - Mapping corretto fuochi / manopole eseguita dall’oggetto in modo automatizzato e, quale risultato, si è effettiva- mente realizzato. Nei Porsche Carrera 911s l’alettone posteriore si apre automaticamente quando si superano i 90 km/h al fine di conferire maggiore stabilità all’auto- mobile in corsa. Tuttavia, dall’abitacolo non è possibile verificare l’effettiva apertura dell’alettone e questa non è segnalata nemmeno sul display della consolle. Quest’ultima consente invece, grazie a un pulsante, di aprire l’a- lettone anche a velocità inferiori, ma non di generare un feedback riguardo all’avvenuta apertura. L’utente resta, quindi, nell’incertezza circa l’effettiva stabilità del veicolo a causa di una totale assenza di informazione e di con- trollo a riguardo. Indubbiamente, in caso di mancato funzionamento, la con- solle segnalerebbe il guasto, tuttavia la condizione di incertezza del guidato- re è la stessa che si proverebbe nel parlare a qualcuno senza udire la nostra voce o nel disegnare con una matita che non lascia segni. Paradossalmente, la tecnologia tende a generare dei processi sempre più automatizzati senza tenere conto di aspetti determinanti relativi all’utente che possono andare dal bisogno di controllo alla percezione di sicurezza, elementi cruciali in condi- zioni rischiose, quali, ad esempio, l’alta velocità. La primissima fase progettuale deve quindi tenere conto di alcuni modelli concettuali fondamentali per un corretto utilizzo degli oggetti, in particolare: • il modello progettuale ossia il modello concettuale dell’ideatore rap- presentato da un modello tecnicamente accurato che viene utilizzato
  • 25. 25 dal progettista per pensare e distribuire le funzioni del sistema. • Il modello mentale dell’utente che riguarda la rappresentazione dell’artefatto e delle sue principali caratteristiche e funzioni di utiliz- zo. • Il modello del sistema ossia la rappresentazione dell’artefatto con cui si viene in contatto, la sua interfaccia e le modalità di attivazione delle sue funzioni (Norman D. 1988). Se la tecnologia ha il compito di rendere il nostro agire più facile e più gradevole, è bene tenere conto, in modo biunivoco, sia della “psicologia de- gli oggetti” sia dei meccanismi psicologici dell’uomo che con questi si trova a interagire. Il concetto di affordance si genera proprio grazie a questo tipo di relazione tra uomo e gli artefatti. Il progettista ha innanzitutto il compito di individuare il giusto equilibrio che tra questi si rende possibile stabilire.
  • 26. 26 2. La mente automatica 2.1 L’azione sensoriale Il nostro cervello riceve messaggi del mondo esterno solo attraverso i sensi: sorge spontaneo chiedersi come possa creare una realtà attendibile basandosi unicamente su un’infinitesima parte di informazioni che questi ultimi riescono a percepire. In quest’ottica, prima di addentrarci nell’analisi di ogni singolo senso, si rende necessario comprendere, in linea più generale, le principali modalità di elaborazione della realtà che il nostro cervello mette in atto per rispondere in modo efficace al mondo che ci circonda. In ogni momento della nostra vita cerchiamo soluzioni, pianifichiamo strategie e ci comportiamo di conseguenza: tutto ciò che la nostra mente per- cepisce, elabora, comprende è finalizzato a farci fare, ma che si tratti di scelte importanti o di comuni azioni del vivere quotidiano, nulla è più dispendioso dell’agire. Il processo che porta all’azione è, dunque, per sua indole, estremamente gravoso e per tale ragione, nel corso dell’evoluzione, la natura ha elaborato strategie e scorciatoie per permetterci di operare in modo risolutivo e co- sciente, non solo rispondendo a necessità contingenti, ma posponendo desi- deri, autolimitandosi a fronte di obiettivi più importanti. Se, infatti, nell’arco della nostra vita disponessimo del tempo e delle energie necessarie per ap- prendere ed elaborare tutto ciò che una particolare decisione può richiedere, saremmo infallibili. La realtà è, però, assai diversa. Molto spesso non abbia- mo le informazioni necessarie, altre volte non abbiamo acquisito le abilità di comportamento per eseguire un compito o, ancora, siamo limitati nella capacità di elaborare un determinato contesto, insomma, siamo inesperti (Baldwin C.L. 2003). Poiché continuamente la realtà ci propone situazioni sempre diverse, il nostro cervello sceglie spesso la via della similitudine,
  • 27. 27 così comportamenti che nel passato hanno prodotto buoni risultati in situa- zioni che riteniamo simili, tendono a essere ripetuti (Biehal G., Chakravart D. 1986). In questo l’uomo si differenzia dalle altre specie, non vivendo in un eter- no presente contingente, ma costruendo continuamente proposizioni future, frutto di una visione strategica della propria esistenza. È qui che risiede la grande capacità della nostra mente di raccogliere informazioni utili dal pas- sato (la nostra memoria), di pianificare il futuro (la nostra immaginazione) e di agire nel presente (la nostra capacità di decidere). In tal senso, se da un lato gran parte delle azioni che compiamo quotidia- namente avvengono in modo del tutto automatico e richiedono uno sforzo cognitivo minimo, altre lo diventano soltanto dopo una pratica assidua e pro- lungata, impegnando gran parte delle nostre risorse cognitive. A questo proposito, si rende utile analizzare come quattro principali li- velli della nostra esperienza e del nostro apprendimento, siano fondamentali per poter agire in modo automatico. A titolo esemplificativo, prenderemo in considerazione il linguaggio benché questi differenti livelli possano appli- carsi a qualsiasi tipologia di apprendimento: 1. il primo livello, che definiamo skill, si costruisce con grande fatica, sia in termini di input, sia in termini di outup. Quando incominciamo a par- lare dapprima impariamo a emettere i suoni, prima singoli frammenti (monoremi) poi frammenti integrati (duoremi) e, infine, impariamo a pronunciare le parole (Eliot L. 1999). Questo livello implica un insieme di funzioni coordinate tra il nostro cervello, la nostra respira- zione, le nostre corde vocali, i movimenti delle nostre labbra e della nostra lingua. Successivamente, impariamo a utilizzare dei segni e ad associare ad essi dei suoni collegandoli ai concetti e agli oggetti che simboleggiano mentre, in contemporanea, impariamo a coordinare in maniera fine le nostre mani per riprodurre tali segni su di un foglio di carta. Il mondo viene così a comporsi di nomi, di oggetti e di situazio- ni. Tuttavia, ciò non sarebbe sufficiente né a farci leggere né a farci comprendere se non intervenissero i livelli di competenza superiori; 2. il secondo livello, detto ruled based, consiste nell’apprendimento delle regole. Le regole, infatti, non sono solo fonetiche o grafiche, ma rap- presentano un vero e proprio motore generativo a livello semantico. Queste ci dicono come selezionare e comporre tra loro le parole, come costruire le frasi rendendoci capaci di generare un infinito numero di proposizioni corrette e comprensibili anche agli altri. Le regole non servono solo per parlare, le troviamo anche nella scrittura e nella let-
  • 28. 28 tura. Tutto ciò sarebbe, almeno parzialmente, eseguibile anche da un computer che avesse alle spalle un buon programmatore. In realtà, nulla di questo avrebbe senso se non esistesse il terzo livello di com- petenza; 3. nel terzo livello o knowledge based si crea la comprensione, ovvero la capacità cosciente di dare un significato pieno alle frasi e ai discorsi costruiti. Attraverso questo livello siamo in grado di attribuire valori di verità o di falsità ai discorsi prodotti; siamo anche in grado di ade- guarli ai contesti reali nei quali li produciamo e di adoperarli al fine di ottenere un risultato precedentemente utilizzato. Potremmo dire che questo livello è il luogo di composizione e di finalizzazione delle re- gole, o meglio, degli algoritmi di cui ci serviamo. Siamo tutti degli esperti di un determinato linguaggio, ma ancora possono presentarsi ulteriori livelli di approfondimento, come quello che definiremo “me- talinguistico”, l’ultimo livello di competenza che si prenderà in con- siderazione; 4. il livello metalinguistico non si traduce necessariamente in miglioramenti nei livelli degli skill, delle regole o della comprensione, ma rappresen- ta un ulteriore livello di astrazione e rappresenta la capacità di costru- ire “linguaggi sul linguaggio”, di estrapolarne le regole e di crearne di nuove. Esso non si presenta come un corollario della capacità genera- tiva, ma ne è essenzialmente il suo motore. Attraverso questi processi, che implicano anni di fatica e di investimento di risorse, diventiamo padroni del nostro linguaggio. Questo percorso si è evoluto con l’uomo in centinaia di migliaia di anni. Il linguaggio è solo un esempio di come agiscano le nostre competenze specifiche in un particolare dominio, infatti i livelli di skill, ruled e knowled- ge e gli ulteriori meta-livelli sono individuabili in ogni processo che richieda abilità e apprendimento1 . Le nostre memorie non diventano quindi dei “database passivi”, ma strut- ture biologiche in continua trasformazione e adattamento in cui le informa- zioni si integrano per permetterci il fine ultimo della nostra esistenza: l’agire. Non bisogna quindi confondere l’agire automatico con situazioni di non pensiero o di scarsa elaborazione, ma come risultato di grandi sforzi di ap- prendimento ripetuti che nel loro applicarsi hanno portato a situazioni soddi- sfacenti o di successo tali da essere state giudicate, dal nostro approssimativo 1 È principalmente ad Anderson (Anderson J. R. 1996) che si deve la considerazione dei processi di apprendimento nelle diverse fasi sopradescritte (skill, ruled, knowledge).
  • 29. 29 2 Gli automatismi sono formati da mappe consistenti tra gli stimoli e le categorizzazioni mentali e tendono a essere rapidi, accurati e a basse risorse. In tale contesto si spiegano le elaborazioni automatiche di stimoli familiari come, ad esempio, le lettere dell’alfabeto ma anche le sequenze più complesse di stimoli. La caratteristica principale dei processi auto- matici è che possono essere rapidamente ed efficacemente ripartiti temporalmente con altri compiti a maggior consumo di risorse. 3 La memoria ha una natura di tipo associativo: quando proviamo a ricordare qualcosa vi è una corrispondenza diretta con la forza dell’associazione. Più l’associazione tra due elementi è forte, maggiore sarà la probabilità che il secondo elemento venga richiamato all’attivazione del primo. sistema di valutazione, come degne di essere punti di riferimento per azioni future2 (Schneider W., Fisk A.D. 1982, pp. 261-278). 2.2 La teoria del doppio processo I meccanismi che ci portano a rispondere in maniera automatica, (quindi in parte o del tutto inconsapevole) oppure in modo intenzionale e oculato dipendono da due principali sistemi mentali distinti, ma in continuo dialo- go tra loro. Kahneman (2011) definisce questi due sistemi rispettivamente sistema 1 e sistema 2, attribuendo al primo le facoltà basilari di valutazione della realtà, al secondo quelle riflessive di controllo e di esecuzione del com- portamento. Il sistema 1 è prevalentemente intuitivo e impulsivo, opera in fretta e in modo automatico, non richiede nessun controllo volontario, quindi nessuno sforzo e, per questa ragione, consuma anche poche risorse mentali. Si rifà prevalentemente alle risposte emotive primarie e alla memoria associativa3 , elaborando di continuo un’interpretazione coerente di quello che accade nel nostro mondo (Kahmneman, 2011). Il sistema 2, invece, è caratterizzato da processi controllati, deliberati e cognitivi che ci permettono di elaborare le informazioni in maniera logica e analitica. Questo sistema, rispetto al sistema 1 è più lento non per la sua struttura, ma per il modo stesso con cui opera: infatti, è predisposto a cercare nuove informazioni, a valutarle e a ricercarne ulteriori nella memoria a lungo termine, per poi integrare il tutto.
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