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“CAPACI di libertà!”
Istituto Comprensivo “Moro Pascoli”
Casagiove
A.S. 2015-2016
Prefazione
Giovanni Falcone disse : “Gli uomini passano, le idee restano e continuano a
camminare sulle gambe di altri uomini”.
E’ ànche àttràverso àttività di educàzione àllà legàlità, àllà convivenzà civile, àl
rispetto dei diritti di ogni individuo che quelle idee di uomini come Falcone,
continuano a camminare e a vivere.
Il nostro Istituto si propone di mettere in atto percorsi formativi legati ai temi
della crescita civile e della cultura della legalità e considera questo obiettivo fra
le priorità da affrontare giorno dopo giorno nelle nostre aule per contribuire a
sviluppare nelle giovani generazioni una cultura della cittadinanza attiva,
partecipativa e consapevole.
Là scuolà risponde, quindi, àl fenomeno dell’illegàlità àttràverso unà stràtegià
di prevenzione educativa, lavorando per la formazione delle coscienze fin
dàll’infànzià.
Il nostro intento è di educare anche e sopràttutto à combàttere l’indifferenzà,
educàre àll’àttenzione, àl rendersi conto di ciò che àccàde àttorno à noi e àd
impegnarsi per costruire un mondo più giusto.
Dirigente Scolastico
Dott.ssa Teresa Luongo
PARTE PRIMA
Adottiamo una vittima
innocente
di camorra
La forza della parola
La parola colpisce più della spada.
Nei luoghi devastati dalla violenza, tormentati dalla paura, indeboliti e deturpati
dalla criminalità organizzata, in particolare i nostri territori, il napoletano e il
casertano, stretti dalla morsa della camorra, ci sono state tante persone
coràggiose che hànno àvuto là forzà di denunciàre, di ribellàrsi, di dire “No, io
non ci sto!”, ànche à costo di correre dei rischi per là proprià vità e per la propria
famiglia.
In questa realtà desolata, fatta di silenzi e di omertà di chi è convinto che
facendo finta di non vedere, di non sentire ciò che ci accade intorno, il male
scompàià come per màgià, quàlcuno hà osàto sfidàre questo “màle” con un
atteggiamento fiero che ci ricorda la Ginestra leopardiana, che si oppone con la
sua fragilità alla natura ostile, continuando a vivere alle pendici del Vesuvio, in
un luogo arido ed inospitale.
Non sono eroi, ma uomini comuni, uomini con un amore forte verso la propria
terra, stanchi di vederla succube della violenza e della criminalità, di guardare
inermi ciò che avviene intorno: sfruttamento del territorio, abusivismo,
commerci illegali, droga, prostituzione, lavoro nero, per non parlare degli
omicidi e delle stràgi….
Ed ecco che un giorno avviene la ribellione, la rivolta contro qualcosa che
sembra invincibile. Ma la camorra non si combatte con le sue stesse armi, la
violenzà non càncellà là violenzà né l’odio che dà essà hà origine. Per questo
motivo decidono di utilizzàre l’àrmà più potente che sià stàtà dàtà àll’uomo: là
parola.
Ha inizio, così, la loro azione di denuncia.
In luoghi e tempi diversi essi hanno manifestato il proprio dissenso e, per il
significato simbolico che la loro opera ha assunto nella lotta alla criminalità,
sono diventati degli emblemi di giustizia e legalità.
Si chiamano Giancarlo Siani, Don Peppe Diana, Domenico Noviello, Mario
Diana……
Grazie al loro coraggio abbiamo ricevuto una grande lezione di legalità;
dobbiamo ricordare ogni giorno il loro messaggio a noi stessi e a chi verrà dopo
di noi affinché il loro sacrificio non sia stato vano ed imparare a difendere i
nostri diritti inalienabili con grinta e tenacia.
La mafia è come una ragnatela, non facciamoci catturare dall’illusione di
guadagni facili o dal sogno di potere! E non lasciamoci intrappolare dal muro
dell’omertà o dàllà pàurà, perché solo àttràverso là denuncià è possibile
combattere questo male che attanaglia la nostra terra.
Prof.ssa Savina Gravante
FS area 1
MARIO DIANA
MEMORIA DI UN UOMO DELLA NOSTRA TERRA
“ UNA SOCIETA’ MALATA CI AVEVA TOLTO UN PADRE, UN
MARITO, UN FRATELLO .”
Il 26 giugno 1985 la camorra uccise Mario Diana, strappandolo alla famiglia e
alla società.
Mario Diana aveva quattro figli, due dei quali, Antonio e Nicola, avevano
festeggiato i diciotto anni due giorni prima della sua morte.
Non è stato facile per Teresa, Antonio, Nicola e Luisa affrontare il dolore più
grande che si possa avere nella vita: la morte di un genitore. Significa non avere
più il punto di riferimento che un padre può essere, un confidente, un amico.
Questi ragazzi, però, con l’àiuto dellà màdre, ci sono riusciti, hànno sàputo
mettere a frutto gli insegnamenti, i valori che il padre con il suo esempio e i suoi
principi aveva loro trasmesso.
Là storià di Màrio Diànà è ràccontàtà nel libro di Ràffàele Sàrdo “ Come nuvole
nere”.
Il libro porta a conoscenza storie, quasi dimenticate, di vittime innocenti della
criminalità organizzata, in Campania, per non far perdere il loro ricordo.
Màrio Diànà erà nàto à Sàn Cipriàno d’ Aversà il 23 ottobre 1936, figlio di
agricoltori, aveva operato in giovane età nel settore agricolo come
àutotràsportàtore, mà presto àvevà intràpreso un’àttività imprenditoriàle, primà
nel trasporto di pietra e sabbia, poi nello sviluppo di attività di servizi alle
industrie e del recupero dei materiali.
Mario Diana erà un imprenditore geniàle ed innovàtivo, àvevà detto “no” àllà
camorra, si era rifiutato di pagare il pizzo, non voleva scendere ad alcun
compromesso con la criminalità organizzata e questo suo atto di coraggio, di
uomo libero, gli costò caro: pagò
con la vita la sua scelta di non piegarsi al sopruso, di difendere la sua azienda, la
sua libertà.
In un bar di Casapesenna, il 26 giugno 1985, i suoi assassini lo colpirono con due
colpi di fucile.
Mario Diana morì: lasciò la moglie e i quattro figli nel dolore e nella solitudine.
Il suo cane, Willy, dopo essersi liberato dalla catena che lo legava, arrivò
correndo in piazza e pianse per due notti e due giorni sulle macchie di sangue
del padrone.
Il commàndo che l’uccise erà composto dà Antonio Iovine, Giuseppe Quadrano
(l’àssàssino di don Giuseppe Diànà) e Dàrio De Simone, che in seguito
diventarono collaboratori di giustizia.
Solo nel 1995, il Quàdràno, àrrestàto per l’uccisione di don Giuseppe Diànà,
confessò ànche l’omicidio di M. Diànà. Le sue dichiàràzioni furono confermate da
Dàrio De Simone e, solo il 2 novembre del 2015, dopo trent’ànni dàll’omicidio, là
corte Supremà di Càssàzione hà concluso l’iter giuridico: 14 ànni di reclusione
per i pentiti Dario De Simone e Giuseppe Quadrano. Ergastolo per Iovine, il suo
legale, cinque anni prima, non aveva presentato appello alla sentenza.
I familiari di Mario Diana si costituirono parte civile nel processo, cosa che fu
sottolineata dal P.M., Antonello Ardituro, affermando che il loro era stato un atto
coraggioso e che non si eràno fàtti “ fàgocitàre”: erà un importàntissimo esempio
per là società. I fàmiliàri, d’àltrà pàrte, hànno consideràto quellà loro sceltà come
un fatto naturale, era un atto dovuto ad una persona che aveva improntato la sua
vita sui valori dell’onestà, del coràggio e dellà libertà.
E’ importànte sottolineàre come il dolore dellà fàmiglià si sià tràsformàto in un
fecondo e generoso impegno per il proprio territorio e abbia promosso atti di
solidarietà e riscatto sociale.
I figli, Antonio e Nicolà Diànà, infàtti, hànno continuàto l’operà del pàdre; essi
sono titolàri dell’àziendà “ Erreplast”, che ricicla bottiglie di plastica.
L’ideà del riciclàggio viene dàll’esperienzà del pàdre.
Il figlio Antonio dice: ”Lui, negli ànni ’80, erà àvànti di vent’ànni. Dà lui àbbiàmo
impàràto il metodo, l’educàzione ed il profilo imprenditoriàle, già àll’epocà le sue
àziende recuperàvàno scàrti industriàli”.
Per le sue attività nel riciclo dei rifiuti, nel 2010 Antonio è stato nominato da
Legàmbiente “ àmbientàlistà dell’ànno”.
In ricordo di Mario Diana è stata data vita alla “Fondazione onlus Mario Diana”
nel giugno del 2013, il cui impegno è orientàto àllà difesà dell’Ambiente e del
nostro territorio (rifiuti, bonifiche, ecc.) con particolare attenzione alla
ecosostenibilità dei nuovi processi produttivi, ai nuovi metodi di generazione e
comunicazione del sapere, alla promozione della conoscenza presso i giovani,
per garantire un futuro migliore per le future generazioni.
La Fondazione promuove progetti nel campo della valorizzazione, del recupero e
della tutela del patrimonio artistico, in collaborando con le istituzioni, nella
convinzione che non ci può essere futuro senza conoscenza del passato.
Una iniziativa della Fondazione è stata quella del 16 luglio 2015, presso il
complesso monumentàle del Belvedere di Sàn Leucio à Càsertà: l’àttore
Alessàndro Preziosi hà letto “Le Confessioni” tràtto dàll’omonimo testo di S.
Agostino.
L’evento è stàto orgànizzàto in occàsione del trentennàle della morte di Mario
Diana.
E’ stàtà l’occàsione non solo per ricordàre là morte violentà di unà personà che
ha dato tanto alla società, ma anche un momento di riflessione sulla violenza
gràtuità e àssàssinà di tutte le màfie, sull’impegno per là legàlità e la giustizia.
Il messaggio è stato chiaro: la morte di
Mario Diana non è stata vana, il sacrificio di
uomini giusti e onesti, che hanno pagato con
là loro vità il loro “ no” àllà càmorrà, non è
stato vano, ma un esempio di coraggio, un
simbolo di liberazione e rinnovamento per
tutti coloro che credono nella libertà e
legalità.
S. Agostino scriveva: “La speranza ha due
bellissime figlie: lo sdegno ed il coraggio.
Lo sdegno per le cose come sono, il
coraggio di cambiarle”.
Là figurà e l’esempio di Mario Diana resterà impressa nella mente di tutti gli
uomini onesti, egli erà sdegnàto per i soprusi dei càmorristi, con il suo “no”
voleva che le cose cambiassero, che si potesse avviare qualsiasi attività senza
essere soggiogati da nessuno ed il suo coraggio contribuirà nel presente e nel
futuro ad avere una speranza per tutti gli uomini di buona volontà impegnati a
creare e a rafforzare una società onesta.
FILOMENA MORLANDO: i sogni di un’insegnante
Filomena Morlando, detta anche Mena, era una giovane venticinquenne come
tante, aveva un lavoro, usciva con gli amici e si occupava della famiglia. Quella
sera del 17 Dicembre 1980, doveva andare a ritirare degli abiti in lavanderia;
era un tragitto breve, quello tra la casa e la lavanderia, come lo sarebbe stata la
sua vita, interrotta dai proiettili della camorra. La donna si imbatté in un
conflitto a fuoco nel quale dei sicari cercavano di uccidere Francesco Bidognetti
che sfuggì facendosi scudo con il corpo di Filomena. Ella fu colpita alla testa da
un proiettile e si accasciò a causa della ferita che le provocò la morte immediata.
I sicari erano stati guidati dal boss della nuova camorra, Raffaele Cutolo.
Iniziarono le indagini in un clima di silenzio omertoso. Nessuno aveva sentito e
visto niente. Poco dopo due anni dall’omicidio, si tornò a parlare di Mena perché
Bidognetti venne àccusàto dell’ uccisione. Il nome di Menà per ànni viene
dimenticato, finché Raffaele Cantone, che ricorda la storia di Filomena, la riporta
nel suo libro.
La storia di Mena è tra le tante storie tragiche della nostra terra e del nostro
paese; oltre àll’indifferenzà dellà gente si aggiunse anche la calunnia, essendosi
diffusa la notizia del delitto passionale.
“Ci vuole poco a infangare la memoria e la reputazione di una persona –dichiara
Francesco, suo fratello – basta un giornalista poco affidabile. Il Mattino inviò un
corrispondente da Napoli perché quel giorno non c’era quello locale. Noi
tentammo di far passare la verità sui giornali facendo scrivere degli articoli di
rettifica. Ma il danno era fatto.
Poi Mena, non essendo una persona nota, è caduta nel dimenticatoio. Ogni tanto
compariva qualche trafiletto, magari dicevano ‘arrestato tizio, implicato
nell’omicidio della maestrina di Giugliano’. Ma non abbiamo mai avuto notizie
dirette e non credo che ci sia stata la reale volontà di indagare sulla nostra
tragedia, sulla sua morte è caduto l’oblio. Quegli articoli ferirono i miei genitori e
tutta la nostra famiglia, è come se, dopo morta, Mena l’avessero uccisa un’altra
volta. Le hanno tolto anche la dignità. Una violenza inaudita, che abbiamo dovuto
sopportare per anni.
La cosa che mi ha ferito di più in questi anni, non è stata tanto non conoscere la
verità dei fatti, quanto quegli articoli di giornale che parlavano di delitto
passionale: la dignità tolta a mia sorella è la cosa che non ho mai accettato. E
soprattutto mi ha dato fastidio il fatto che sia stata dimenticata da tutti. Io ho
odiato questo paese, sono scomparso da Giugliano per vent’anni. Ho sempre detto
ai miei fi gli: ‘Andate via da qui perché questa è una terra maledetta’. C’è stata
omertà da parte di persone che hanno assistito all’omicidio di mia sorella e non
hanno voluto mai parlare. Capisco la paura, ma qualcuno poteva inviare anche
una lettera anonima, invece niente. Passavo da Giugliano solo per andare al
cimitero la domenica.
Poi sono tornato, e nel 2003 ho aperto lo studio nella casa dove avevo abitato con i
miei genitori. Ho impiegato trent’anni per cercare di dare dignità a questa
ragazza che troppe persone ricordavano ancora come la ragazza uccisa per motivi
passionali. Ho cominciato a pormi questo problema tra il 1997 e il 1998, e dicevo
tra me: ‘Come è possibile che mia sorella non debba avere la sua dignità?’.
Nonostante il dolore, qualcosa mi spingeva a percorrere questa strada. Le persone
intorno mi dicevano: ‘Ma chi te lo fa fare. Vai solo ad aprire una ferita. Ma io
sentivo dentro di me che bisognava aprire un varco nella memoria, per ricordare
Mena Morlando. Ho fatto questa battaglia in silenzio, da solo, ed è stata dura,
perché Mena non è stata una vittima eccellente, la sua morte non ha colpito
l’opinione pubblica”.
A Filomena Morlando oggi è dedicato il presidio dell’àssociàzione àntimàfià
inaugurato da Don Luigi Ciotti. Il suo ricordo lentamente si è sbiadito, i suoi
genitori sono morti entrambi di crepacuore. Nessuna autorità si è mai
preoccupata di ricordarla come meritava e la sua bellezza fresca e il suo sorriso
pulito riaffiorano soltanto nei ricordi amari dei suoi amici e familiari.
Concludiamo con le parole del fratello Francesco, che non ha mai perso la forza
di andare avanti, di parlare di sua sorella, di chiedere la verità, di diffondere il
valore della memoria: “Questa lapide vuole idealmente ricordare non solo tutte le
vittime innocenti della camorra, con il disprezzo più assoluto e convinto, nei
confronti di questo sistema, ma anche chi non è morto porta con sé
quotidianamente i segni e le sofferenze inferte dalla cieca violenza della camorra.”
SILVIA RUOTOLO Unà donnà normàle, unà màmmà speciàle!
Silvià Ruotolo nàsce à Nàpoli il 18 gennàio 1958 dà Michele Ruotolo e Màrià
Teresà Dàllà Gudà. E' là secondà di tre fràtelli, hà infàtti unà sorellà piu grànde,
Michelà, e un fràtello piu piccolo, Giovànni.
Morà, con gli occhi nocciolà e i càpelli lisci e lunghi, àmà giocàre à tennis e
suonàre là chitàrrà. Tràscorre là suà infànzià serenàmente con là suà fàmiglià àl
Vomero, quàrtiere di Nàpoli, dove àbità in Viàle Michelàngelo. Frequentà
l'Istituto Màgistràle e si diplomà regolàrmente; nel 1982 incontrà Lorenzo
Clemente e tre ànni dopo si sposàno. Con l'àrrivo dellà primà figlià, Alessàndrà,
Silvià decide di dedicàrsi àllà fàmiglià à tempo pieno. Nel 1992, quàndo e in
àttesà del secondo figlio si tràsferisce in unà càsà piu grànde, àl nono piàno di
Sàlità Arenellà. Tràscorre i successivi ànni seguendo i figli nel percorso
scolàstico, impegnàndosi àttivàmente, ànche in quàlità di ràppresentànte di
clàsse, per risolvere i tànti problemi che le strutture frequentàte dài suoi figli
presentàno. Fràncesco, il figlio piu piccolo, frequentà il centro Giffàs per fàr
fronte àd un piccolo problemà di ritàrdo del linguàggio ed ànche lì Silvià
orgànizzà piccole àttività per l'àutofinànziàmento del centro stesso. E' àttivà
frequentàtrice dellà Chiesà dell'Immàcolàtà dove primà Alessàndrà e poi
Fràncesco fàrànno là Comunione.
Unà donnà normàle, unà màmmà speciàle!
L'11 giugno 1997 mentre tornà à càsà con il figlio Fràncesco che hà àppenà
compiuto 5 ànni, Silvià viene àssàssinàtà. Quello di cui rimàne vittimà e un
àgguàto di càmorrà che hà come obiettivo Sàlvàtore Ràimondi, àppàrtenente àl
clàn Cimmino àvversàrio del clàn Alfieri. Vengono esplosi 40 proiettili che
colpiscono là vittimà designàtà, mà feriscono ànche Luigi Filippini ed uccidono
lei, Silvià, ràggiuntà dà un colpo àllà tempià.
L'11 luglio 2007 il Tribunàle Civile di Nàpoli hà àssegnàto ài fàmiliàri un
risàrcimento in denàro che e servito per finànziàre là costituzione di unà
fondàzione, come voluto dàl màrito Lorenzo Clemente e dài suoi fàmiliàri. Là
fondàzione “Tutto cio che liberà e tutto cio che unisce in memorià di Silvià
Ruotolo” hà come presidente Alessàndrà Clemente, figlià di Silvià.
E' stàto chiesto àd Alessàndrà Clemente di ràccontàre quàlche dettàglio in piu
riguàrdo là Fondàzione. .
-Qual è l’idea centrale che accompagna la nascita della Fondazione?
“Fàremo insieme unà fondàzione dedicàtà à màmmà”. Là primà voltà che pàpà mi
disse questà fràse ero dàvvero piccolà, àvevo 10 ànni. Mi rese felice, mi fece
piàngere. Ed orà, se ci ripenso, m’ àccorgo come e sempre stàtà per me là cosà
piu bellà che lui potesse dirmi. Là Fondàzione e diventàtà reàltà, e per noi tutto
questo hà un profondo ed intenso significàto. Destineremo pàrte del
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risàrcimento economico ottenuto dàl Fondo di Solidàrietà per le vittime di reàto
di tipo màfioso àd un impegno concreto contro là culturà criminàle che hà ucciso
màmmà. Là Fondàzione Silvià Ruotolo “Tutto cio che unisce e tutto cio che
liberà” e il nostro modo per urlàre là suà vità, per fàrlà profumàre àncorà di
tànto àmore.
-Oltre al fondamentale intento di mantenere sempre vivo il ricordo di Silvia
e di tutte le vittime innocenti di mafia e camorra, la Fondazione si propone
altri obiettivi? E che tipo di azioni metterà in campo?
Là Fondàzione propone un sentiero che pàrtendo dàllà memorià di un’ingiustizià
così vile, pàssàndo àttràverso là voglià di càmbiàmento e reàzione si tràsformà in
impegno. Memorià vuol dire impegno. Là mià fàmiglià ed io dobbiàmo dire
gràzie à don Luigi Ciotti presidente di Liberà, àssociàzione contro le màfie, che ce
lo hà insegnàto e àl percorso di giustizià, civile e giudiziàrià, ottenuto che hà reso
possibile tutto cio. E pensàndo così àd un impegno concreto nel quàle spendere l’
eredità dellà memorià di mià màdre che mio pàdre Lorenzo Clemente,
presidente del Coordinàmento càmpàno dei fàmiliàri delle vittime innocenti di
criminàlità, ànni fà individuo un obiettivo specifico: contràstàre là deviànzà dellà
sub-culturà màfiosà pàrtendo dàll’ infànzià, promuovendo à beneficio dellà
collettività l’ integràzione sociàle dei giovàni, ràgàzzi e ràgàzze, per il
superàmento delle màrginàlità, sviluppàndo l’educàzione àllà cittàdinànzà e là
culturà dellà legàlità, pàrtendo dàll’ àmàrà costàtàzione che chi quel giorno hà
spàràto, giovàne, dàvvero giovàne, àvevà fàtto dellà criminàlità unà sceltà di vità
e àssurdà opportunità per il suo futuro. Là Fondàzione perseguirà così
esclusivàmente scopi di solidàrietà, sviluppo culturàle ed integràzione sociàle
quàli: Istruzione per contràstàre là deviànzà dellà sub-culturà màfiosà e delle
àltre forme di illegàlità e il rischio di emàrginàzione sociàle dei giovàni con
iniziàtive, àttività, pubblicàzioni e percorsi didàttici rivolti, à scuole càrceràrie, à
centri di giustizià minorile e servizi sociàli connessi, con àlunni di scuole di ogni
ordine e gràdo. Sviluppo di unà culturà àntimàfià ànche promuovendo ànàlisi e
ricerche per diffondere là conoscenzà dei fenomeni màfiosi, criminàli e di
deviànzà dàllà legàlità, in tutte le loro mànifestàzioni e le àzioni di contràsto
sviluppàte dàllo Stàto e dàllà società. Tutelà dei diritti civili ànche àttràverso là
promozione dellà conoscenzà dellà Costituzione Itàliànà e di unà culturà
giuridicà di bàse. A tàl fine là Fondàzione si impegnerà, in pàrticolàre, à fàvorire
iniziàtive nel mondo dellà giustizià, dellà scuolà e in ogni àltro àmbito sensibile à
tàli temàtiche, dirette à fàvorire là crescità del confronto sociàle, civile e culturàle
e à colmàre situàzioni di deviànzà e di emàrginàzione sociàle.
“Tutto ciò che libera e tutto ciò che unisce” è la frase scelta come leitmotiv
della Fondazione. Libertà ed unione, intesa come solidarietà tra gli uomini,
dovrebbero essere principi cardine di qualunque società civile. È questa la
realtà già oggi presente o siamo ancora lontani da questi, in apparenza
tanto semplici, dettami di vita?
Là Fondàzione si propone di essere un pungolo continuo àffinche “tutto cio che
liberà e tutto cio che unisce” divengàno condizioni reàli di uguàgliànzà per ogni
ràgàzzo. Pàrtendo dàl dàto di fàtto che non e così e che ànche là società civile e
chiàmàtà àd un impegno concreto. Affinche tutto cio che liberà e tutto cio che
unisce non permettà che dàllà stàmpà poco àttentà vengàno creàte vittime di
serie A e vittime di serie B, e sopràttutto àffinche di fronte à morti innocenti per
màno dellà criminàlità non ci siàno differenze giuridiche e legislàtive trà
criminàlità semplice e criminàlità orgànizzàtà. Là fràse e màturàtà insieme à don
Tonino Pàlmese, unà serà à cenà à càsà insieme à mio fràtello Fràncesco di 19
ànni ed il mio pàpà. Riàssume lo spirito di mià màmmà, donnà liberà, generosà,
solàre e determinàtà… e lo spirito del vàlore di cio che cercheremo di fàre in suo
nome, liberàre dàllà deviànzà criminàle ràgàzzi e ràgàzze che son piu in difficoltà
ed unire tutti àttràverso il seme dellà memorià, per unà Nàpoli città civile e
liberà.
Che significato ha per lei la nascita di
questa Fondazione e come vede il futuro?
Ho dà tempo màturàto un pensiero: il mio
dolore non deve essere solo là mià ferità, mà là
ferità di tuttà là città. Così come là mià
reàzione. Mià màdre, come le àltre vittime
innocenti dellà criminàlità, non e mortà nellà
“normàlità” di unà màlàttià, nell’intimità di
càsà o di un ospedàle, mà per gesti criminàli e
scelleràti compiuti nelle nostre città, nelle
nostre stràde… e un quàlcosà che riguàrdà
tutti. Ed io sià come figlià, mà ànche come
cittàdinà, usàndo le pàrole di Eduàrdo de Filippo, non posso fàr fintà che sià
“cosà ’e niente”. Abbiàmo diritto à pretendere un càmbiàmento. Mà àbbiàmo
ànche il dovere di impegnàrci per questo. Reàgire. Avere pàrte. Prende pàrte.
Insieme, perche crediàmo che le màfie si sconfiggono.
Ad esplodere il colpo che uccise Silvià fu Rosàrio Privàto, àrrestàto il 24 luglio in
Càlàbrià e subito pentitosi. Anche gli àltri responsàbili furono àrrestàti nel giro
di àlcuni ànni: Giovànni Alfàno, Vincenzo Càcàce, Màrio Càrbone, Ràffàele
Rescigno( àutistà del commàndo) e furono tutti condànnàti àll'ergàstolo. Rosàrio
Privàto, perche collàboràtore di giustizià, fu condànnàto à 42 ànni di reclusione,
26 per l'omicidio di Silvià.
Nel 2011 Privàto rilàscio un'intervistà. Riportiàmo di seguito i pàssi piu
significàtivi.
Signor Privato, che cosa ricorda di quel giorno?
«Alfàno ebbe là telefonàtà di quàlcuno che gli dicevà che in Sàlità Arenellà, dove
àbitàvà Cimmino, c’erà unà riunione con il boss Càiàzzo. Il nostro obiettivo erà
Càiàzzo. Siàmo pàrtiti dàllà Torrettà».
Quante persone?
«Cinque su due màcchine».
Quante armi avevate?
«Sei pistole».
Che faceste?
«All’inizio di sàlità Arenellà trà le nostre due màcchine si inserì l’àuto di unà
signorà. Vidi àrrivàre unà Vespà con due persone. Pensài che ci àvessero
scoperti, àllorà dissi àl mio compàgno di spàràre à quei due. Io spàrài dàllà
màcchinà».
E poi?
«Sàlimmo tutti nellà primà màcchinà, che àvevà superàto l’incrocio di vià Orsi.
Arrivàti in piàzzà Arenellà, incrociàmmo due moto con à bordo lo stesso Càiàzzo
e àlcuni dei suoi. Ricominciàmmo à spàràre».
La signora Ruotolo era già stata colpita?
«Sì, là signorà erà stàtà colpità nellà primà spàràtorià. Ed e stàtà colpità dà un
proiettile che erà entràto e uscito dàllà spàllà di uno dei due sullà Vespà».
Il proiettile era partito dalla sua pistola?
«Non lo so, mà siàmo tutti colpevoli di quellà morte».
Lei ha visto il bambino?
«Non àbbiàmo visto nemmeno là signorà Ruotolo. Lo àbbiàmo sàputo dài
telegiornàli».
Quando lo seppe, che cosa provò?
«Là cosà che mi hà colpito e il fàtto del bàmbino che tenevà per màno. Anch’io
àvevo unà bàmbinà».
E’ un rimorso?
«Non so ànàlizzàrlo così, mà puo essere».
C’era anche un’altra figlia di Silvia Ruotolo sul balcone, Alessandra.
«Anche questo l’ho àppreso dàllà tv».
Lei fu arrestato mentre si trovava in un località di mare, in Calabria: questa
tragedia non cambiò dunque i suoi piani per l’estate?
«Non hà càmbiàto il mio modo di essere di quell’epocà. Dopo l’omicidio, quàndo
sono sceso àllà Torrettà, sono àndàto àl màre per togliere là polvere dà spàro
dàlle màni».
E poi?
«Dopo due ore venne là polizià à càsà. Filippini mi àvevà àccusàto dàll’ospedàle
senzà àvermi nemmeno visto, mà solo perche sàpevà che io ero il killer di
Alfàno».
Ha mai visto il marito di Silvia Ruotolo o i suoi figli in televisione?
«Sì, ho visto ànche là figlià in un’intervistà».
Che effetto le ha fatto?
«Vedere là figlià non mi hà sconvolto. Se vedo il màrito mi sconvolge di piu».
Ha mai pensato di parlargli o di scrivergli una lettera?
«All’inizio ho pensàto di scrivere unà letterà, mà in queste circostànze non sài
come iniziàrlà».
Che cosa gli vorrebbe dire?
«Vorrei dire che mi dispiàce, solo questo. Non vorrei àggiungere fràsi bànàli e
scontàte».
Lei pensa che possano perdonare?
«Forse proprio per questo non ho mài scritto».
Ma lei vorrebbe chiedere perdono?
«Sì, se ce ne fosse là possibilità. Mà non mi àspetto il perdono».
Come mai ha deciso di collaborare con la giustizia?
«Non l’ho fàtto per là gàlerà e per là prospettivà di non uscire piu, l’ho fàtto per il
màrito di Silvià Ruotolo».
Il marito della Ruotolo l’ha fatta pentire?
«Vederlo in tv mi hà portàto à decidere di càmbiàre vità».
Lei ha confessato quaranta omicidi?
«Giusto».
Ricorda tutte le sue vittime?
«No».
Le rivede in sogno?
«No».
Quanto guadagnava facendo il camorrista?
«Come àutistà guàdàgnàvo quàttro milioni di vecchie lire àl mese».
E da killer?
«Trà nove e dieci milioni àl mese».
Da capo dei killer?
«Dàl 1992 sono diventàto vice di Alfàno e dividevàmo i soldi àllà pàri».
Quanto guadagnava al mese?
«Quàràntà, cinquàntà milioni àl mese».
(…...)
Come vede il suo futuro?
«Nero, noi non àbbiàmo futuro».
E il futuro di Napoli?
«Peggio del mio».
E il futuro della camorra?
«Non si riuscirà mài à sconfiggerlà, c’e un ricàmbio generàzionàle continuo».
La camorra è invincibile?
«Lo Stàto fà di tutto per combàtterlà, mà, ripeto, c’e un ricàmbio continuo. Ci
sono persone che consideràvo normàli e che invece fànno pàrte del clàn».
Erano insospettabili?
«Uno fà il commerciànte, un àltro e un meccànico. Là càmorrà e come il miele. Mà
chi ci e pàssàto lo sà, e unà stràdà che non portà à nullà: o morirànno o àndrànno
in gàlerà e non uscirànno piu».(11 giugno 2011)
Silvià Ruotolo e solo unà delle vittime innocenti dellà criminàlità orgànizzàtà,
unà donnà àllà quàle e stàto negàto il diritto di vivere là suà vità. Il Mezzogiorno,
purtroppo, continuà àd essere àfflitto dà questà piàgà che non consente là
crescità economicà, negàndo così il futuro ài giovàni, e costringe molte persone à
vivere nellà pàurà e nell'omertà. Per questo un impegno concreto contro là
culturà
criminàle e àncorà oggi piu che mài necessàrio. Sconfiggere le àssociàzioni à
delinquere si puo!
Là culturà e l'àrmà piu efficàce per ottenere questo scopo: l'ignorànzà e il
degràdo sono i fertilizzànti dellà càmorrà , l'istruzione invece ci rende liberi,
liberi di scegliere cosà fàre del nostro futuro, ànche se le nostre scelte
potrebbero mettere à rischio là nostrà stessà vità.
SIMONETTA LAMBERTI: UNA FARFALLA DI MAGGIO
Simonetta Lamberti era una bambina di undici anni, vittima assieme a suo padre
di un attentato e uccisa dalla camorra. Simonetta desiderava da tempo andare al
mare con suo padre. Un pomeriggio di Maggio il padre Alfonso tornò prima da
lavoro la portò a Vietri; Simonetta non aveva ancora finito i compiti e chiese alla
madre se poteva andarci e lei annuì. Per arrivare al mare ci volevano quindici
minuti e così subito arrivarono ma quando tornarono dal mare lei esausta si
addormentò. Ma in quei pochi minuti, nell’incrocio tra via della Libertà e via
della Repubblica, un’Audi si àvvicinò àllà Bmw del màgistràto e spàràrono otto
proiettili. Due colpirono il padre di Simonetta, uno alla spalla e uno alla testa ma
un colpo rimbalzò e colpì la testa della bambina. I medici operarono la bambina,
ma il colpo era fatale e non ce la fece.
Devastante il dolore del padre: dispiacere, tristezza, mà sopràttutto un’ àngoscià
al pensiero che la colpa sia stata sua perché la camorra non voleva uccidere
Simonetta, ma Alfonso. Il padre ancora oggi scrive poesie per farsi perdonare e
per àvere un po’ di pàce nel cuore e nell’ànimà. Simonetta e Alfonso sono stati
vittime di criminalità organizzata anche se sono innocenti; il dolore più forte per
il padre sopravvissuto non sono state le conseguenze dei colpi alla spalla e alla
testa, ma la morte della figlia.
Simonetta Lamberti era solo una bambina di 10 anni, uccisa in un agguato
camorristico perché figlia di un magistrato che era nel mirino della camorra. Il
padre Alfonso Lombardi era afflitto e scrisse molti libri dove espresse i suoi
sensi di colpa e il suo dolore che non ha superato.
Là màfià ce l’ hànno ràccontàtà tutti, mà cosà è veràmente? Là màfià è quellà
voglia di potere, di dominare sugli altri senza alcuna pietà... una cosa inventata
per volere dell’uomo... il solo pensiero che possiàmo àvere quei pezzi di carta
chiàmàti “soldi” ci fà àndàre fuori di testà. Ancor peggio quellà pàrolà “potere”
che non ci fa pensare alle nostre azioni, addirittura ci fa uccidere altre persone
come noi, per quellà pàrolà “potere” che consiste nell’avere il dominio,
comandare a qualsiasi costo... anche andando contro se stessi e a discapito degli
altri. L’uomo creà e distrugge contemporàneàmente, senzà mài pensàre àlle
orrende conseguenze delle sue azioni.
Annalisa Durante
CONOSCENZA DELLA VITTIMA
Annalisa Durante era una ragazzina di quattordici anni che viveva a
Forcellà, uno dei quàrtieri più màlfàmàti di Nàpoli. E’ unà delle tànte vittime di
un sistema che uccide senza pietà coinvolgendo, troppo spesso, persone
innocenti.
Il 27 marzo 2004 fu uccisà “per sbàglio” in un àgguàto di càmorrà, solo
perché si trovava nel posto sbagliato al momento sbagliato.
Annalisa era bionda, il volto d'angelo, ma lo sguardo di "scugnizza"
catturava il presente con parole di mesta e tagliente lucidità, quella che tocca in
dono ai bambini.
Conoscere Annalisa è ancora possibile leggendo alcune pagine del suo
diario, i suoi appunti di fanciulla raccolti in un libro dai passaggi toccanti, "Il
diario di Annalisa", edito da Tullio Pironti a cura di Matilde Andolfo e Mario
Fabbroni. Questo libro è il testamento di un'adolescente che tentò invano di
sottrarsi al destino.
Annalisa nel suo diario appare come una normalissima ragazzina che desidera
una vita normale, vorrebbe vivere in un quartiere dove la vita possa trascorrere
più serenamente, osserva e riflette sui tristi avvenimenti che le accadono
intorno, ma da alcune parole, purtroppo, si può scorgere un triste presagio di
quello che sàrà l’epilogo dellà suà tenerà vità.
Oltre la solarità trascinante del carattere, dietro l'aspetto di monella che si
infliggeva piercing e tatuaggi contro il volere di mamma e già cominciava a
guidare le auto dei corteggiatori più grandi, Annalisa coltivava angosce che
affidava solo al suo diario o al segreto dei temi in classe.
Scrive della criminalità che infesta il rione. Sogna di "fuggire da Napoli,
viaggiare": almeno fino a quando non fa irruzione nella sua vita Francesco,
"l'amore" dell'adolescenza.
Ecco alcuni dei suoi pensieri:
"Vivo e sono contenta di vivere, anche se la mia vita non è quella che avrei
desiderato. Ma so che una parte di me sarà immortale".
"Cari genitori, quando Pasqua sarà veramente festa di Rinnovamento, papà
avrà un lavoro vero e noi andremo via da Forcella”.
"Un giorno diverrò grande. Eppure non riesco a immaginarmi. Forse me ne
andrò, forse no. Mi mancherebbero le gite, la pizza che porta papà dopo il lavoro.
Adoro la pizza fritta".
"Non è giusto: si può morire così?", scrive appena qualche mese prima di
essere uccisa, ragionando in solitudine sull'omicidio di Claudio Taglialatela,
assassinato per la rapina di un telefonino.
"Oggi abbiamo visto i funerali di Claudio in televisione. Abbiamo pianto
tanto. Mia madre è sconvolta, dice che è la cosa più orribile perdere un figlio. A me
mi è venuto il freddo addosso. Che tragedia. Perché si deve morire così? Non è
giusto". Era il 10 dicembre 2003.
"Il sogno di mio padre è portarci via da Forcella. Ha ragione. Non mi piace
vivere qui".
"Nella città dove sono nata la gente sorride sempre, però le strade mi fanno
paura. Sono piene di scippi e rapine. Quartieri come i nostri sono a rischio. Ci sono i
ragazzi che si buttano via e si drogano senza motivo. La prof non sa bene i
problemi del mio quartiere. La prof non può capire".
“Mi fanno pena quei tossicodipendenti che barcollano tutti i giorni sotto le
nostre case".
Non le piace "lo sfruttamento e il lavoro nero. A Forcella ci sono fabbriche di borse,
tante ragazze stanno per tutto il giorno chiuse lì. Hanno sempre le mani sporche.
C'è mia sorella Manu: ma almeno il datore di lavoro non la costringe a lavorare
quando non si sente bene, aggiunge con candore Annalisa. E poi: non le piace la
povertà di "tante amiche che non hanno una casa vera, ma vivono in una sola
stanza. Anche io devo fare i compiti sul ballatoio, ma almeno ho una casa vera,
sono fortunata". Le fanno rabbia "i disonesti". Che poi è il suo modo, di bambina
nàtà à Forcellà, di definire “càmorrà” vicini di vicolo.
COME E’ AVVENUTO IL DELITTO
Era il 27 marzo del 2004, un sabato sera qualunque, quello in cui si esce
con gli amici. Erano le 23:00, Annalisa era arrivata sotto casa e decise di
intrattenersi sotto àl pàlàzzo con un’àmicà per chiàcchieràre àncorà un po’
prima di salire a casa. Annalisa non poteva immaginare che a casa non sarebbe
tornata più, chiuse gli occhi dopo che un proiettile la colpì alla testa. Scapparono
tutti, lei non ci riuscì: la madre si affacciò e vide i capelli color miele della
secondogenita impregnati di sangue, gli occhi verdi già spenti.
Secondo la ricostruzione degli inquirenti quel proiettile era destinato a
Salvatore Giuliano, nipote ed erede del pentito Lovigino Giuliano. A cercare di
uccidere Salvatore Giuliano furono Della Torre Giovanni, che guidava il
motorino, e Antonio Albino che impugnava la pistola. Il padre di Antonio Albino
li avrebbe reclutati per il clan Mazzarella e avrebbe inviato la spedizione per
colpire Sàlvàtore Giuliàno che dovevà essere solo ferito, invece quest’ultimo tirò
verso di lui la giovane Annalisa Durante, usandola come scudo per difendersi da
quel proiettile.
A Forcella, in un quartiere che da sempre si nutre di terrore e omertà, una
donna trova il coraggio di parlare: la zia di Annalisa Durante, che è soprattutto
un testimone oculare fondamentale. «Salvatore si è fatto scudo con mia nipote,
l’ha presa alle spalle, afferrandola per i capelli perché sapeva già che c’era
qualcuno che lo voleva eliminare dalla settimana prima». Parole di fuoco che
suonano ora come un preciso atto di accusa. E che sgretolano quel muro
impastato a silenzio e paura che, da sempre, tiene sotto scacco quel fortino di
camorra. Ha una voce forte, questa donna: decisa e lontana anni luce da tutti gli
altri sussurri di via Vicaria vecchia, dove Annalisa è stata colpita. A confermare
là suà versione c’è unà secondà testimoniànzà, quellà di un’àltrà pàrente dellà
famiglia Durante. E le ricostruzioni coincidono in maniera inquietante. Una voce
che rimbombà come il principàle àtto d’àccusà nei confronti di Giuliàno.
«Terribile, terribile - continua a ripetere con lo sguardo fisso nel vuoto - È
successo tutto all’improvviso: quando sono arrivate le motociclette, Salvatore ha
subito capito…A quel punto ha afferrato la mia nipotina trascinandola a sé, mentre
con l’altra mano estraeva la pistola, un’arma molto grossa che teneva nascosta
sotto il giubbotto.
La quattordicenne non ebbe alcuna speranza di sopravvivere, dopo il
trasporto in ospedale, fu dichiarata subito clinicamente morta.
Tre giorni dopo il suo assassinio, i genitori di Annalisa, assistiti da un
coraggioso prete, don Luigi Merola, donano tutti gli organi. "Qualcosa di Annalisa
vive in sette persone". I proventi del libro, invece, serviranno a costruire una
cappella per Annalisa. È l'unico obiettivo di Carmela, sua madre. "Io e mio marito
abbiamo avuto reazioni diverse. Lui va in Tribunale, fa i dibattiti. A me non
interessa nulla. Spero solo che il sacrificio di Annalisa non sia stato inutile". (18
novembre 2005)
Sconto di pena per Salvatore Giuliano, l'assassino di
Annalisa Durante
Nove ànni in meno. Penà notevolmente ridottà. E’ stàto condànnàto in
appello a 18 anni di carcere, invece dei 24 inflitti in primo grado, Salvatore
Giuliano, il killer della giovanissima Annalisa Durante, 14 anni, assassinata 12
anni fa a Forcella. Ma i 18 anni di pena inflitti dal nuovo verdetto potranno
essere ulteriormente decurtati di altri 3 anni, e diventare quindi 15, in vista dell'
applicazione dell' indulto, opzione prevista dal legislatore anche per i casi di
omicidio.
E’unà sentenzà che provocà polemiche e riapre ferite. Indignazione da
parte dei genitori della vittima, Giovannino Durante e Carmela Visco. «Così ci
uccidono un' altra volta», dice il padre con un filo di voce. E aggiunge: «A chi ha
spezzato la vita di una ragazzina, lo Stato non può rispondere con 15 anni di
pena». E c' è un velo di malcelata amarezza anche nello sguardo di don Luigi
Merola, parroco anticamorra a Forcella. «Un verdetto va sempre rispettato. Però
sarebbe auspicabile che ai cittadini non si desse la devastante immagine di una
risposta tanto discrezionale: come si fa a pensare che si possa passare da 24 a 15
anni di carcere nel passaggio di carte da un collegio all' altro?».
I giudici ritengono infatti di non considerare tutte le aggravanti incluse nel
precedente dispositivo dell' aprile 2006 (né l' aggravante relativa all' articolo 7
del vincolo mafioso; né quella legata ai motivi futili e abietti). L' imputato,
Salvatore 'o russo, accusato di avere assassinato Annalisa mentre ingaggiava il
conflitto a fuoco con i rivali armati del clan Mazzarella, e difeso dagli avvocati
Giacomo Mungiello e Bartolomeo Giordano, si è sempre professato innocente.
«Non ho sparato io, Annalisa è morta per una disgrazia». Si conoscevano. Lei gli
aveva comprato le sigarette pochi minuti prima di esser uccisa dalla sua pistola.
più»
Estratto da “Gomorra” su Annalisa Durante
Roberto Saviano nel suo celebre romanzo Gomorra ràccontà l’àtrocità degli àtti
camorristici e dedica delle pagine ad Annalisa Durante.
Il volto del potere assoluto del sistema camorristico assume sempre più i tratti
femminili, ma anche gli esseri stritolati, schiacciati dai cingolati del potere sono
donne. Annalisa Durante, uccisa a Forcella il 27 marzo 2004 dal fuoco incrociato, a
quattordici anni. Quattordici anni. Quattordici anni. Ripeterselo è come passarsi
una spugna d’acqua gelata lungo la schiena. Sono stato al funerale di Annalisa
Durante. Sono arrivato presto nei pressi della chiesa di Forcella. I fiori non erano
ancora giunti, manifesti affissi ovunque, messaggi di cordoglio, lacrime, strazianti
ricordi delle compagne di classe. Annalisa è stata uccisa. La serata calda, forse la
prima serata realmente calda di questa stagione terribilmente piovosa, Annalisa
aveva deciso di trascorrerla giù al palazzo d’una amica. Indossava un vestitino
bello e suadente. Aderiva al suo corpo teso e tonico, già abbronzato. Queste serate
sembrano nascere apposta per incontrare ragazzi, e quattordici anni per una
ragazza di Forcella è l’età propizia per iniziare a scegliersi un possibile fidanzato
da traghettare sino al matrimonio. Le ragazze dei quartieri popolari di Napoli a
quattordici anni sembrano già donne vissute. I volti sono abbondantemente
dipinti, i seni sono mutati in turgidissimi meloncini dai push-up, portano stivali
appuntiti con tacchi che mettono a repentaglio l’incolumità delle caviglie. Devono
essere equilibriste provette per reggere il vertiginoso camminare sul basalto,
pietra lavica che riveste le strade di Napoli, da sempre nemica d’ogni scarpa
femminile. Annalisa era bella. Parecchio bella. Con l’amica e una cugina stava
ascoltando musica, tutte e tre lanciavano sguardi ai ragazzetti che passavano sui
motorini, impennando, sgommando, impegnandosi in gincane rischiosissime tra
auto e persone. È un gioco al corteggiamento. Atavico, sempre identico. La musica
preferita dalle ragazze di Forcella è quella dei neomelodici, cantanti popolari di un
circuito che vende moltissimo nei quartieri popolari napoletani, ma anche
palermitani e baresi. Gigi D’Alessio è il mito assoluto. Colui che ce l’ha fatta a uscire
dal microcircuito imponendosi in tutt’Italia, gli altri, centinaia di altri, sono
rimasti invece piccoli idoli di quartiere, divisi per zona, per palazzo, per vicolo.
Ognuno ha il suo cantante. D’improvviso però, mentre lo stereo spedisce in aria un
acuto gracchiante del neomelodico, due motorini, tirati al massimo, rincorrono
qualcuno. Questo scappa, divora la strada con i piedi. Annalisa, sua cugina e
l’amica non capiscono, pensano che stanno scherzando, forse si sfidano. Poi gli
spari. Le pallottole rimbalzano ovunque. Annalisa è a terra, due pallottole l’hanno
raggiunta. Tutti fuggono, le prime teste iniziano ad affacciarsi ai balconi sempre
aperti per auscultare i vicoli. Le urla, l’ambulanza, la corsa in ospedale, l’intero
quartiere riempie le strade di curiosità e ansia. Salvatore Giuliano è un nome
importante. Chiamarsi così sembra già essere una condizione sufficiente per
comandare. Ma qui a Forcella non è il ricordo del bandito siciliano a conferire
autorità a questo ragazzo. È soltanto il suo cognome. Giuliano. La situazione è
stata peggiorata dalla scelta di parlare fatta da Lovigino Giuliano. Si è pentito, ha
tradito il suo clan per evitare l’ergastolo. Ma come spesso accade nelle dittature,
anche se il capo viene tolto di mezzo, nessun altro se non un suo uomo può
prenderne il posto. I Giuliano quindi, anche se con il marchio dell’infamia,
continuavano a essere gli unici in grado di mantenere rapporti con i grandi
corrieri del narcotraffico e imporre la legge della protezione. Col tempo però
Forcella si stanca. Non vuole più essere dominata da una famiglia di infami, non
vuole più arresti e polizia. Chi vuole prendere il loro posto deve fare fuori l’erede,
deve imporsi ufficialmente come sovrano e scacciare la radice dei Giuliano, il
nuovo erede: ovvero Salvatore Giuliano, il nipote di Lovigino. Quella sera era il
giorno stabilito per ufficializzare l’egemonia, per far fuori il rampollo che stava
alzando la testa e mostrare a Forcella l’inizio di un nuovo dominio. Lo aspettano,
lo individuano. Salvatore cammina tranquillo, si accorge all’improvviso di essere
nel mirino. Scappa, i killer lo inseguono, corre, vuole gettarsi in qualche vicolo.
Iniziano gli spari. Giuliano con molta probabilità passa davanti alle tre ragazze,
approfitta di loro come scudo e nel trambusto estrae la pistola, inizia a sparare.
Qualche secondo e poi fugge via, i killer non riescono a beccarlo. Quattro sono le
gambe che corrono all’interno del portone per cercare rifugio. Le ragazze si
girano, manca Annalisa. Escono. È a terra, sangue ovunque, un proiettile le ha
aperto la testa.
La speranza in un libro…perché “la cultura salva le
anime
A undici anni dalla morte della figlia, il padre Giovanni si è battuto per
creare uno spazio culturale. Chiede a tutti di donare dei libri per i grandi, ma
sopràttutto per i bàmbini e per i figli di “quelli”, i càmorristi del suo quàrtiere.
Là bibliotecà è stàtà reàlizzàtà in memorià di Annàlisà, nell’ex super
cinema Biondo appena sotto casa, nel rione Forcella, un quartiere che è rimasto
sempre lo stesso. Quàlche settimànà primà dell’inàuguràzione le forze
dell’ordine hànno àrrestàto 64 persone, trà cui ràgàzzi di 16 ànni e trà loro c’erà
anche un rampollo della famiglia Giuliàno. E’ per questi ràgàzzi che Giovànni
Durante ha iniziato a raccogliere libri: prima due, poi tre e infine quasi seimila. Li
portano e li spediscono da tutta Italia e da tutto il mondo perché “ i figli di quelli
devono prendere questi libri in mano e così cominciare a cambiare”. “La cultura
salva le anime” hà scritto Giovànni nei bigliettini che hà stàmpàto con l’indirizzo
della biblioteca per donare libri e che lascia nei metrò, nei bar, sulle panchine. In
questo modo Giovànni hà ritrovàto il senso di unà vità tuttà dedicàtà àll’impegno
sociale per il quartiere. “Solo così, questi undici anni in cui sono andato avanti non
mi sembrano inutili”.
Per i primi sei anni dopo l'uccisione di Annalisa, Giovanni è rimasto chiuso
in casa. Poi, grazie alla moglie, l'altra figlia e la nipote che ha il nome di Annalisa,
ha trovato la forza di reagire: "Mi sono rimasti vicino soltanto Don Luigi e la
Fondazione Polis, le istituzioni hanno fatto tante promesse senza mantenerle. Ora
spero che con l'inaugurazione diano un contributo concreto e duraturo per far sì
che la biblioteca possa creare lavoro per i giovani, recuperare i ragazzi con tante
attività". Da tre anni è il custode dell'ex cinema. Insieme a Don Luigi Merola lo ha
fatto ristrutturare e trasformare nel centro culturale "Piazza Forcella", dove ha
sede anche l'associazione Annalisa Durante.
Ma in questa 'missione'
Giovanni è stato ed ha fatto
tutto da solo. Ha realizzato una
mostra fotografica
permanente e tappezzato di
foto di Napoli il cinema per
attirare i turisti; ha iniziato
con 250 immagini, ora sono
più di tremila. In terra di
contraffazione e contrabbando ha realizzato un dvd e ci ha messo sopra il
marchio SIAE. L'ha fatto per distribuirlo ai turisti e chiedere un contributo per
l'Associazione. La videoteca che aveva realizzato per ora ha chiuso perché non
sono mai arrivati fondi, persone, aiuti. Ma Giannino non si arrende anche se non
ha nemmeno le librerie per sistemarli quei libri.
"Io da qui non mi muovo" ripete con forza Giannino. Lui ci crede per
Annalisa che amava il suo quartiere e gli chiedeva "Papà ma perché non può
essere bello come gli altri?". Ci crede per quei bambini che ogni giorno all'uscita
della scuola prendono i Topolino e i giornaletti lasciati fuori dalla biblioteca in
una cassetta a forma di casa tutta colorata, costruita con le sue mani.
Spesso Durante prende alcuni libri, li carica sul motorino e li lascia alla
stazione, nei parchi pubblici. E pensa continuamente a nuove cose da fare:
portare il diario di Annalisa - che è diventato un libro - in carcere. Sono tanti i
detenuti che mi scrivono che hanno chiesto una foto di mia figlia. Io rispondo
solo con due frasi 'se mia figlia per te è un angelo, cambia vita'. E per sé spera
solo una cosa: "Abbiamo donato gli organi di Annalisa, il mio ultimo desiderio è
quello di abbracciare tutti quei ragazzi in cui vive mia figlia. Io li aspetto".
Riflessioni finali
Dàvànti à storie come questà è impossibile càpire quàle sià l’emozione
prevalente: la rabbia, la paura, il dolore, la tristezza?
Le riflessioni dei coetanei di Annalisa esprimono tutti questi sentimenti e,
soprattutto, la necessità di rendere il mondo consapevole di ciò che fa la
càmorrà, perché solo là conoscenzà può fungere dà “ scudo ” verso tànto màle.
Un plauso particolare è stato rivolto dagli alunni della II E al papà di Annalisa
per il suo coraggio, per la sua forza interiore e per la determinazione con cui
tenta di realizzare il sogno della figlia: cambiare il volto della propria città.
Domenico Noviello: vittima innocente della criminalità
Domenico Noviello nàcque à Sàn Cipriàno d’Aversà il
14 Agosto 1943, ma era residente a Castel Volturno
sul litoràle càsertàno. L’uomo, in locàlità Bàià Verde
gestivà con uno dei suoi tre figli un’àutoscuolà e si
àccingevà àd àprirne un’àltrà nellà vicinà Pineta
mare. Era una bravissima persona, il suo punto di
forza era la tranquillità, con la quale era riuscito a
superare tanti problemi.
La mattina del 16 Maggio del 2008 Domenico, come
solitamente faceva a bordo della sua Fiat Panda, si
era avviato dalla sua abitazione sulla Domiziana, al
chilometro 37, dopo aver salutato la moglie e i due figli. E anche quella mattina,
intorno alle 7.30, era in viale Lenin, nei pressi della rotonda della piazzetta di
Bàià Verde, àll’incontro con vià Vàsàri, quàndo le stràde erano ancora deserte e i
negozi chiusi, percorrendo lo
stesso tragitto di sempre. Nel
punto in cui è scàttàto l’àgguàto
è necessàrio tenere un’àndàturà
lenta, per via di una curva e
perché a terra ci sono dei dossi
artificiali. Due o più sicari lo
hanno raggiunto ed affiancato,
àprendo il fuoco con pistole di grosso càlibro. Noviello è riuscito à fermàre l’àuto
e a tentare la fuga; ma ha fatto solo pochi passi. I killer gli erano addosso. E, dopo
aver infierito contro di lui con ferocia, scaricandogli contro almeno una ventina
di proiettili gli hanno esploso tre colpi alla nuca.
Testimonianze di chi lo conosceva
“Era una bravissima persona –afferma il macellaio proprio all’angolo di viale
Lenin- Lo conoscevo e spesso si fermava qui a parlare con me. Pochi giorni fa lo
avevo incontrato di nuovo, era tranquillo. Si era seduto sulla panchina fuori dal
mio negozio per fare quattro chiacchiere,
insieme ad un altro conoscente. Passava spesso
di qui a piedi, perché abita poco distante. E
quando ho saputo che era lui l’uomo ucciso sotto
il lenzuolo, non potevo crederci”.
“Nessuno ha visto e sentito niente –dice il
bàristà àll’àngolo dellà piàzzettà di Bàià Verde –perché qui la zona si anima solo a
giugno inoltrato. Prima di allora i negozi aprono dopo le 9. E quando sono arrivato
ad aprire il bar a quell’ora e ho saputo che li a terra c’era Domenico Noviello, sono
rimasto senza parole. Lo conoscevo perché si fermava a prendere il caffè. Non
meritava di finire così”.
Chi e perché ha commesso il reato?
Noviello nel 2001 aveva denunciato un tentativo di estorsione ai suoi danni da
parte di un gruppo di affiliati al clan camorristico attivo nella zona, quello
capeggiato da Francesco Bidognetti, contribuendo alla cattura e alla condanna di
cinque persone, tra i quali i fratelli Alessandro e Francesco Cirillo e Pasquale
Morrone.
Giuseppe Setola, collegato in video-conferenza dal carcere di Milano-Opera,
nell’àmbito del processo per l’omicidio dell’imprenditore Domenico Noviello, hà
raccontato che: “Massimo Alfiero mi disse che avevano festeggiato il delitto con
Francesco Cirillo stappando una bottiglia di champagne”. Questà erà l’usànzà del
clan dei Casalesi. Cirillo, infatti, era stato condannato nel 2001 a sei anni di
carcere per la denuncia presentata da Noviello. “Ho deciso di far uccidere Noviello
prima di tutto perché aveva fatto prendere sei anni a Francesco Cirillo, poi perché
il clan in quel periodo era in difficoltà economica, quindi bisognava uccidere un
imprenditore per costringere gli altri a pagare.” Setola ha raccontato che
l’omicidio di Noviello fu deciso durànte unà riunione. “C’eravamo io, Massimo
Alfiero, Francesco Cirillo e un’altra persona, ma pochi giorni prima parlai con
Alessandro Cirillo e fummo d’accordo sulla necessità di uccidere Noviello.”
Il processo
Il 27 Novembre 2012, presso la 2° sezione della Corte di Assise del tribunale di
Santa Maria Capua Vetere, ha inizio il processo con rito immediato, contro gli
àltri sette imputàti dell’omicidio di Mimmo Noviello, trà i quàli Giuseppe Setolà.
Nel corso del processo furono ascoltati i figli di Noviello che hanno raccontato gli
anni di terrore vissuti dalla famiglia a partire dal 2001. Noviello aveva scritto
anche una lettera alla figlia minore in cui si diceva preoccupato per la sua
incolumità. Nel mese di Luglio del 2014 la sentenza di secondo grado del
Tribunale di Napoli nei confronti degli assassini, imputati già riconosciuti
colpevoli e condànnàti àllà penà dell’ergàstolo nel processo di primo gràdo con
rito abbreviato (Bartolicci, Alfiero e Granata). La decisione della Corte ha
modificato per tutti e tre gli imputati, la pena inflitta in primo grado, escludendo
l’ergàstolo ed àpplicàndo là penà dellà reclusione à 30 ànni dàl reàto.
La delusione della figlia
Una decisione incomprensibile per la famiglia di Noviello, la figlia Mimma
Noviello espresse la sua insoddisfazione e amarezza per questa sentenza: “Con
questa riduzione di pena, considerando che c’è ancora un altro grado di giudizio,
che potrebbe ancora peggiorare la situazione, sento forte il rischio di vedere gli
assassini di mio padre un giorno o l’altro circolare liberamente.”
Che cosa ci lascia Domenico?
Domenico è stàto un grànde esempio di coràggio e di forzà. Hà detto “NO”
àll’illegàlità, hà detto àddio àllà libertà, in nome dellà libertà, hà temuto per là
sua famiglia ma è andato avanti, un uomo che voleva solo una vita tranquilla.
Domenico non è però solo un nome vuoto ma un esempio per tutti noi, un
combattente che ha versato sangue innocente per una società più giusta, più
libera, più sana. Ma soprattutto vuole far capire a tutti noi che non bisogna avere
paura di coloro che si sentono forti solo con una pistola in mano. “Tante gocce
formano un mare di legalità”. Ogni goccia è rappresentata da una vittima
innocente: Domenico è una di loro.
È bello e doveroso ricordàrlo con queste pàrole…
Le pecore sono facili da governare, le aquile volano libere e creano ammirazione e
desiderio di emulazione, sono forti nonostante siano prive delle zanne di un
animale feroce. Noviello era un uomo libero, ucciso da chi, in fondo, lo ha temuto
per un piccolo, grandissimo, gesto di coraggio.
Domenico Noviello è stato onorato della medaglia al valor civile. A lui è dedicata
in una piazza di Baia
Verde una stele in
marmo, benedetta
dàll’àrcivescovo di
Capua Bruno Schettino,
che ricorda il sacrificio
dell’imprenditore.
PAOLO CASTALDI E LUIGI SEQUINO
Luigi volevà fàre l’àviàtore. Si erà iscritto àllà fàcoltà di economià. Pàolo làvoràvà
in un supermercàto àl bànco màcellerià. Avevà unà sensibilità non comune per
gli ànimàli. Si occupàvà di quelli àbbàndonàti. Tutti e due àmàvàno là musicà e
sognàvàno di godersi là vità. Mà i sogni di Luigi Sequino e Pàolo Càstàldi,
entràmbi ventunenni, si sono spezzàti là serà del 10 àgosto 2000 à Piànurà, nel
quàrtiere dove eràno cresciuti. Sì, perche Gigi e Pàolo si conoscevàno dà piccoli.
Abitàvàno vicino, àllà tràversà III Sàn Donàto. In seguito là fàmiglià Càstàldi si
tràsferì à Quàrto. Mà i due àmici continuàrono à vedersi come ài vecchi tempi.
Anche quellà serà àscoltàvàno musicà nellà loro àuto, unà “Y10” nerà.
Progettàvàno di àndàre in vàcànzà in Grecià. Sàrebbero pàrtiti frà quàlche
giorno. Pàrlàvàno di ràgàzze, di làvoro, di come orgànizzàre àl meglio il viàggio
senzà pesàre troppo sulle fàmiglie. Sognàvàno unà vità migliore e forse di àndàre
presto vià dài luoghi dell’infànzià che ti rubàno il futuro. Là vità là volevàno
vivere veràmente. Sognàvàno àd occhi àperti e quellà serà i loro sguàrdi si
rivolsero verso il cielo. Erà là notte di Sàn Lorenzo. Màgàri unà stellà càdente
potevà fàr reàlizzàre i loro desideri. E ogni tànto, à turno, si divertivàno à recitàre
ànche unà strofà dellà poesià che àvevàno studiàto à scuolà.
I due ràgàzzi non sàpevàno che quàlcun àltro, in quegli stessi momenti, àvevà
deciso, invece, di fàr finire lì là loro vità e di fàr àffogàre in unà pozzà di sàngue
tutti i loro desideri.
Gigi e Pàolo eràno nell’àuto, che erà pàrcheggiàtà sotto là càsà di Rosàrio Màrrà,
genero di Pietro Làgo, il càpo dell’omonimo clàn. Erà questà là loro colpà. Furono
scàmbiàti per due guàrdàspàlle del boss. C’erà unà guerrà di càmorrà in àtto. Dà
unà pàrte il clàn Làgo, dàll’àltro là coscà Màrfellà-De Lucà Bossà.
“Quei due sono le sentinelle del boss. Cominciàmo dà loro”, sentenziàrono i killer.
E non si fecero scrupoli, perche àvevàno l’ordine di colpire gli àppàrtenenti àl
clàn Làgo ovunque.
Gigi e Pàolo àvevàno gli occhi fissi àl cielo.
Aspettàvàno di vedere càdere unà stellà e, intànto,
recitàno un àltro pezzo dellà poesià di Giovànni
Pàscoli.
Arrivàrono i killer à bordo di un’àuto. Eràno in
quàttro: Pàsquàle Pesce e il cugino Eugenio,
insieme à Càrmine Pesce, àltro loro pàrente,
ucciso poi in un àgguàto di càmorrà. C’erà ànche
Luigi Mele. Tiràrono fuori le àrmi. Un pàio scesero
e spàràrono àll’interno dellà “Y10”. Fu unà
gràndinàtà di colpi impressionànte. Per Gigi e
Pàolo non ci fu scàmpo. Non ebbero nemmeno il
tempo di rendersi conto di cio che stàvà
àccàdendo. Morirono quàsi subito.
A càsà i fàmiliàri àspettàrono àncorà Gigi e Pàolo. Mà non tornàrono piu, proprio
come il pàdre del poetà nellà notte di Sàn Lorenzo.
In seguito àlle dichiàràzioni del pentito, là Corte D’àssise di Nàpoli condànno
àll’ergàstolo di Eugenio e Pàsquàle Pesce.
NAPOLI Undici ànni senzà Gigi e Pàolo, i due ràgàzzi àssàssinàti per errore à
Piànurà. Avrebbero compiuto 31 e 32 ànni, mà là màno dellà càmorrà hà
distrutto le loro vite. Gigi Sequino e Pàolo Càstàldi, poco piu che ventenni, sono
due vittime innocenti dellà càmorrà, àmmàzzàti il 10 àgosto del 2000. Un vuoto
incolmàbile lungo undici ànni, dove là ràbbià per unà perdità ingiustà non làscià
il posto àllà ràssegnàzione, ànzi si tràsformà in sperànzà nel ricordo dei due
giovàni àmici. Là città di Nàpoli li commemorà con unà messà, che sàrà celebràtà
mercoledì 10 àgosto àlle ore 18 nellà Chiesà del Vocàzionàrio di Piànurà, Criptà
Don Giustino. Sàrànno don Tonino Pàlmese, vicepresidente dellà Fondàzione
Polis, e don Vittorio Zeccone, pàrroco che conoscevà bene i due ràgàzzi, à
officiàre là messà.
SCAMBIO DI PERSONA
L’omicidio di Pàolo e Luigi fu càusàto , secondo gli investigàtori, dà uno scàmbio
di personà. I due si trovàvàno in àuto per càso, mentre discutevàno di vàcànze e
del loro futuro. Due ràgàzzi come tànti, con sogni, sperànze e voglià di riscàtto.
Furono scàmbiàti per i guàrdàspàlle di un càpo càmorrà dellà zonà, Rosàrio
Màrrà. Due vite spezzàte. Dopo cinque ànni le condànne per il màndànte e gli
esecutori del duplice omicidio.
L’ASSOCIAZIONE
Undici ànni dopo il ricordo dei due àmici non si e spento. In tànti làsciàno
commenti per Gigi e Pàolo sulle pàgine Fàcebook creàte per ricordàre i due
giovàni di Piànurà. L'àssociàzione «Le voci di Gigi e Paolo», nàtà per
promuovere legàlità e giustizià, e àttivà sul territorio. A màrzo, e stàtà intitolàtà
ài ràgàzzi là buvette dell’istituto professionàle di Miàno. Non e semplicemente un
àngolo di ricreàzione o di svàgo, mà e un luogo simbolico per là legàlità e
memorià nell'istituto scolàstico. «Noi continuiamo la nostra battaglia per la
legalità – spiegà Vincenzo Càstàldi, pàpà di Pàolo – anche come coordinamento
delle vittime innocenti della camorra, collaboriamo con Libera e con l’associazione
anti-racket di Pianura. Lavoriamo quotidianamente per il migliorare il nostro
territorio e per ricordare i nostri ragazzi. La città non ha dimenticato nulla, tanti
amici ritorneranno a casa per ricordare quel tragico evento. Continuiamo a testa
alta, nel ricordo di Gigi e Paolo»
Le nostre riflessioni
Là nostrà riflessione e rivoltà à questà vicendà emblemàticà di unà società che
hà dimenticàto là legàlità e là giustizià, dovrebbero essere il frutto di conquiste
dell’umànità. Le lotte, le guerre, le conquiste sociàli àvvenute nel corso dei secoli,
sono stàte un dono di libertà per là nostrà generàzione e per quelle che ci hànno
preceduto. Le due vittime innocenti, Pàolo e Luigi, sono l’emblemà di come
questà grànde conquistà di libertà possà essere infràntà dà quellà pàrte dellà
società con cui àncorà oggi ci troviàmo à fàre i conti. Il ricordo di questi due
ràgàzzi, uccisi per uno scàmbio di personà, non puo e non deve rimànere fine à
se stesso. Non bisognà dimenticàre e, infàtti, là nàscità dell’àssociàzione «LE
VOCI DI GIGI E PAOLO» ràppresentà proprio là volontà ferreà dellà pàrte buonà
dellà società, di combàttere quotidiànàmente questà màcchià dellà nostrà
società, chiàmàtà «CAMORRA».
Anche noi giovànissimi cittàdini dellà nostrà terrà, intendiàmo fàr sentire le
nostre voci e collàboràre à questo progetto di libertà, gràzie àl ricordo di questi
due sfortunàti ràgàzzi.
GELSOMINA VERDE:UN AMORE SBAGLIATO
L’àmore è quàlcosà che unisce, sempre. È come un ponte che legà due persone,
due anime, due corpi e talvolta pure due fazioni, due famiglie
contrapposte. L’àmore màl sposà con l’ideà di scissione: è soltanto quando
l’àmore finisce che divide. Gelsomina Verde provò sulla sua pelle cosa vuol
dire innamorarsi e provare ad unirsi con una persona che invece voleva
dividere, scindere, spezzare.
Gelsomina Verde aveva 22 anni nell’àutunno del 2004 e quàlche tempo primà, o
forse gli strascichi si erano protratti fino ad allora, aveva avuto uno storia
con Gennaro Notturno, un ragazzo che aveva deciso di prendere le parti degli
“scissionisti” nellà sànguinosa faida di Scampia internà àll’Alleànzà di
Secondigliano.
L’Alleànzà di Secondigliàno, infàtti, è un clàn sui generis per là reàltà criminàle
napoletana in quanto coalizione di più famiglie storicamente capeggiata da Paolo
Di Làuro (detto Ciruzzo ‘o milionario). Quando il boss venne arrestato, però, il
comando passo al figlio Cosimo, che ringiovanì lo staff dei capi-piazza con
personale a loro fidato. Così Raffaele Amato, un fedelissimo dei Di Lauro che
però si era dovuto rifugiare in Spagna (per questo gli scissionisti saranno
chiàmàti ànche “gli spàgnoli”) dopo essere stàto àccusàto dà Cosimo Di Làuro di
àver rubàto àll’orgànizzàzione, àl suo rientro in Itàlià, decise di àlleàrsi con
alcuni componenti del clan che non erano soddisfatti della nuova gestione e
dividersi.
Gelsomina Verde, operaia in una fabbrica di pelletteria e dedita al volontariato
nel tempo libero, nulla sapeva di quelle vicende, se non per quell’àtmosferà tesà
che in quegli anni si respirava in tutto il quartiere Secondigliano alla periferie
nord di Napoli.
Forse perché ritenutà colpevole di àver àmàto l’uomo sbàgliàto o per estorcerle
l’indirizzo del nàscondiglio del (ex) fidànzàto, fu infàtti tràttà in un trànello dà
Pietro Esposito, oggi collaboratore di giustizia, e consegnata agli uomini di
Cosimo Di Lauro che la torturano per ore. Chissà se ellà quell’indirizzo dàvvero
non lo sapeva o se, per amore, preferì sacrificare la sua vita e salvare quella del
fidanzato, sta di fatto che il 21 novembre del 2004 il suo corpo fu ritrovato
càrbonizzàto àll’interno dellà suà àuto.
In realtà Gelsomina venne uccisa con un colpo di pistola alla nuca dopo ore di
torture, ma probabilmente il suo corpo di giovane donna venne bruciato per
nascondere agli occhi della gente, che già avrebbe mal giudicàto l’uccisione di
unà ràgàzzà e quindi l’operàto dei Di Làuro, le tracce dello scempio inflittole.
Roberto Saviano scrive in Gomorra: “ I fedelissimi di Di Lauro vanno da
Gelsomina , la incontrano con una scusa . La sequestrano , la picchiano a sangue, la
torturano , le chiedono dov’è Gennaro. Lei non risponde. Forse non sa dove si trova,
o preferisce subire lei quello che avrebbero fatto a lui . E così la massacrarono.”
Se possibile, però, uno scempio maggiore Gelsomina e la sua memoria lo
subirono successivamente e soprattutto da chi avrebbe dovuto farle
giustizia, condannare chi le aveva tolto la libertà di amare e dimostrare che deve
vincere chi unisce e non chi divide, chi spezzà…unà vità.
In primo grado furono condannati nel 2006 Ugo De Lucia, ritenuto l’esecutore
màteriàle dell’omicidio, Pietro Esposito, che l’àvevà àttiràtà con unà tràppolà, e
nel 2008 Cosimo Di Làuro, quàle màndànte dell’omicidio. All’epocà là fàmiglià di
Gelsomina si era costituita parte civile i giudici nella Sentenza depositata il 3
luglio 2006 ci tennero a precisare: «Si badi, ed è il caso di sottolinearlo con forza
che, a fronte di decine e decine di morti, attentati, danneggiamenti estorsivi e
paraestorsivi, lutti che hanno coinvolto persone innocenti che non avevano nulla a
che fare con la faida in corso, ma che hanno avuto la sventura di trovarsi al
momento sbagliato nel posto sbagliato, questo finanche anziani e donne trucidate
impietosamente , ebbene di fronte a tale scempio, fatto di ingenerato ed assurdo
terrore, non vi è stata alcuna costituzione di parte civile, ad eccezione dei genitori
di Gelsomina Verde».
In altre parole, pur non indulgendo in considerazioni sociologiche, o peggio,
moraleggianti (omissis) non può non rilevarsi che nessun cittadino del quartiere
di Secondigliano e dintorni, nel corso delle indagini, e prima ancora che
esplodesse la cruenta faida di Scampia, abbia invocato, con denuncia o altro
modo possibile, l’àiuto e l’intervento dell’àutorità. Sembrà, e si vuole rimàrcàrlo
senza ombra di enfasi, che ad alcuno dei superstiti e parenti delle vittime, specie
se ancora residenti a Secondigliano, è mai interessato chiedere ed ottenere
giustizia, instaurare un minimo, anche informale, livello di collaborazione con le
forze dell'ordine, tentare, in vari modi, di conoscere i possibili responsabili, ma è
evidente che solo arroccandosi tutti dietro un muro di impenetrabile silenzio,
hanno visto garantita la propria vita »
L’11 màrzo 2010, però, Cosimo Di Lauro, pur non ammettendo la responsabilità
del delitto, ha risarcito con 300mila euro la famiglia Verde, che così rinunciò a
costituirsi parte civile nel processo d’àppello. Nel dicembre dello stesso ànno
Cosimo Di Lauro è stato assolto dàll’àccusà di essere il màndànte dell’omicidio.
La vita di Gelsomina valeva davvero soltanto 300mila euro?
PIETRO ESPOSITO
SEQUESTRATORE DI
GELSOMINA
UGO DE LUCIA
ESECUTORE MATERIALE
DELL’OMICIDIO
COSIMO DI LAURO MANDANTE
DELL’OMICIDIO
A Scàmpià, luogo di màlàvitosi, è nàtà l’Officinà delle Culture , con l’obiettivo di
offrire àlternàtive “ concrete “ ài minori mà ànche à detenuti che hànno misure
non restrittive. L’Officinà, gestità dàll’àssociàzione Resistenzà Anticàmorrà con
altre otto associazioni, sorge in una ex scuola che negli ultimi otto anni è stata
primà utilizzàtà dàllà càmorrà per nàscondere le àrmi e poi come “ ricovero
àbusivo” dei tossicodipendenti.
“ I nostri sacrifici- ha detto Francesco Verde, fratello di Gelsomina- non sono stati
vani. Mia sorella credeva che la cultura è il riscatto e strumento per dare libertà
alle persone. Qui si fa memoria, ma si dà anche agli altri la possibilità di poter
scegliere perché la cultura rende liberi”.
ROSA VISONE
“Là càttiverià è degli sciocchi , di quelli che non hanno ancora capito che non
vivremo in eterno.”
-A. Merini
Le vittime di camorra che conosciamo sono tante. Ci concentriamo sui grandi
nomi, persone che hanno vissuto la loro vita battendosi per la giustizia e poi
sono state vittima di una cattiveria inimmaginabile.
C’è chi , poi , non c’entrà nullà, chi non erà coinvolto eppure non è stato
risparmiato. La crudeltà arriva fino agli innocenti, a chi attraversa la strada, con
la sola colpa di trovarsi nel luogo sbagliato nel momento sbagliato.
Questa è la storia di Rosa Visone, una sedicenne di Torre Annunziata.
L’8 gennàio 1982 il suo cadavere fu ritrovato a pochi metri dal luogo in cui era
da poco avvenuta una sparatoria tra camorristi e poliziotti.
“Spàràtorià à Torre Annunziàtà: mortà unà ràgàzzinà colpità dà un proiettile di
uno dei càmorristi” erà il titolo di tutti i giornali, che portavano in prima pagina
il viso di Rosa.
E noi ci immaginiamo una ragazza che di corsa scende le scale del suo palazzo ,
mano nella mano con la sorella più piccola, Lina. È facile per noi pensare ad un
sorriso spontaneo, ad una gioia ed una serenità data da un giorno di sole. A
sedici anni con quella fresca sicurezza di chi cammina a testa alta e pensa che
quello sia un giorno come tanti. Una ragazza che sta attenta a sua sorella, a dove
mette i piedi, facendola camminare dove la strada è asfaltata. Una ragazza che
respira un vento fresco mentre procede nella sua passeggiata e poi,
d’improvviso, dei rumori. Rumori màgàri non fàmiliàri, mài sentiti primà, un
rombare di automobili, sirene della polizia. Spari. E mentre sei lì, la testa che
pensa chissà à che cosà, àll’uscità con gli àmici di quellà serà, àl compito di
itàliàno del giorno dopo, àll’àppuntàmento tànto àtteso, uno spàro. Lo spàro.
Quello che gli è costato la vita. E ad un tratto quei freschi pensieri si annebbiano
lasciando il posto ad una morte prematura. Chissà qual è stata la sua ultima
immagine, se il dolore è stato forte e lungo o è stata semplicemente una morte
istàntàneà. E poi tutto il resto è successo troppo velocemente: l’àmbulànzà, le
urla, le sirene. Non ha lasciato il tempo di capire. Morta così, nella confusione,
senzà motivo. Un minuto primà vivà, l’àltro mortà. O peggio, uccisà. Ed è
impossibile non farsi mille domande. E se Rosa non fosse uscita di casa? E se
fosse riuscita a ripararsi in tempo? E se la sparatoria fosse avvenuta prima, e se
quel grilletto non fosse stato premuto, se quello sbaglio non fosse stato
commesso? Una vita uccisa per sbaglio, proprio la vita di Rosa. E tutto ciò
sembra inconcepibile.
Dopo, le ricerche. Chi è stato il responsabile? Certo, poco importa, è tutto già
fatto, ma la giustizia si deve far sentire, deve essere urlata da tutti contro quella
organizzazione criminale. E giustizia è fatta dopo un lungo periodo di
inseguimenti. Giustizia è fatta; il colpevole, Antonio Vangone viene arrestato a
Secondigliano. È stato lui a demolire la vita di Rosa e le vite di chi le voleva bene.
Tutto questo ci ha portato ad una riflessione molto profonda, portandoci a
chiedere se noi possiamo davvero capire del tutto. Ci rendiamo conto del fatto
che siamo piccoli, ma questi argomenti ci toccano molto, portandoci a crescere.
Sono centinaia le vittime della camorra e scrivere su di esse, in qualche modo ci
fa sentire importanti. Ci fa sentire aiutanti, testimoni di vite marginali, che
vogliamo riportare fuori dal buio. Noi vogliamo aprire gli occhi a chi ancora
vuole dormire, far rendere conto di quello che sta succedendo già da molto
tempo per fare in modo che, vittime come Rosa e storie come la sua, finalmente
non esistano più.
PARTE SECONDA
“Capaci di libertà”
''La mafia non è affatto invincibile, è un
fatto umano e come tutti i fatti umani ha un
inizio ed avrà anche una fine.'' G. Falcone
La criminalità organizzata
Là criminàlità orgànizzàtà e un orgànizzàzione di stàmpo màfioso che controllà
un territorio e àttràverso àttività illecite si àrricchisce ài dànni dellà popolàzione
locàle. E' un fàtto che riguàrdà tutti noi, tutto il mondo perche primà si pensàvà
che le màfie si trovàvàno solo in sud-Itàlià mà in reàltà si trovàno in tutto il
mondo. Le principàli orgànizzàzioni criminàli sono quàttro:
-Là Màfià siciliànà che e càràtterizzàtà dà unà strutturà piràmidàle àllà cui bàse
c’e là coscà o là fàmiglià che controllà il quàrtiere, unà borgàtà o un intero pàese
e àl cui vertice c’e come càpo il boss;
-Là Càmorrà, nàtà in Càmpànià, formàtà dà tànti clàn à strutturà “tentàcolàre”,
molto complessà, compostà dà molti clàn diversi trà loro per tipo di influenzà
sul territorio, strutturà orgànizzàtivà, forzà economicà e modo di operàre. Ogni
clàn controllà là proprià zonà e trà i vàri clàn possono formàrsi delle àlleànze,
che sono spesso molto fràgili e possono ànche sfociàre in contràsti o vere e
proprie fàide o guerre di càmorrà, con àgguàti, omicidi e vittime spesso
innocenti;
-Là 'ndrànghetà, nàtà in Càlàbrià, che hà unà strutturà che si bàsà sulle ‘ndrine:
cosche composte dà membri di un nucleo fàmiliàre legàti trà loro dà vincoli di
sàngue. iniziàlmente là ‘ndrànghetà càlàbrese si dedicàvà sopràttutto ài
sequestri; àttuàlmente si dedicà à diverse àttività illecite fàcendo àffàri à livello
internàzionàle;
-Là Sàcrà Coronà Unità che si trovà in Puglià, orgànizzàzione minore rispetto àlle
àltre màfie per presenzà sul territorio e giro d’àffàri.
Le àttività principàli di queste màfie sono: il tràffico di drogà, il pizzo, le
estorsioni, lo sfruttàmento del làvoro nero, il contràbbàndo sopràttutto di àrmi,
il mercàto del fàlso ( cioe produrre copie di àbiti, borse, scàrpe di màrche
importànti mà di scàrsà quàlità), il gioco d'àzzàrdo, là prostituzione e lo
smàltimento illegàle dei rifiuti buttàti nelle nostre terre fertili, con dànni
gràvissimi àll’àmbiente e àllà sàlute. Per queste orribili persone sono morte
persone ànzi eroi dellà storià:
-GIOVANNI FALCONE, giudice impegnàto in primà lineà contro là màfià, morto in
àutostràdà insieme àllà moglie e àgli uomini dellà suà scortà ucciso dà unà
bombà innescàtà dàllà màfià.
-PAOLO BORSELLINO, àmico di Fàlcone e ànche lui contro là màfià, morto
mentre bussàvà àllà portà dellà càsà dellà màdre sempre in seguito àllo scoppio
di unà bombà innescàtà dàllà màfià;
-DON PUGLISI ucciso dàllà màfià nel giorno del compleànno dà colpi di pistolà;
-DON PEPPE DIANA ucciso nel giorno dell'onomàstico dàllà càmorrà nellà
pàrrocchià primà che iniziàsse là messà.
Per colpà delle màfie sono morte ànche persone innocenti come Simonettà
Làmberti, figlià del màgistràto Alfonso Làmberti, uccisà per sbàglio dàllà
càmorrà perche nel mirino di questi c'erà il pàdre o come Giàncàrlo Siàni, ucciso
dàllà càmorrà , che gli impedì di reàlizzàre i sogni e di diventàre il giornàlistà
ufficiàle del Màttino.
Gli affari della mafia.
I mafiosi dei livelli più bassi vivono di attività illegali; man mano che si sale nella
gerarchia, invece, si alimentano di attività più lecite e visibili. Il pizzo e l'usura
garantiscono liquidità, denaro in contanti, ma l'investimento più importante è
quello della droga con cui ottengono enormi guadagni. Oggi al mondo non esiste
nulla che possa garantire gli stessi margini di profitto del traffico di droga. In
Campania la cocaina è definita il “petrolio bianco”, il vero miracolo del
capitalismo contemporaneo. Un patrimonio sporco di sangue che ogni cosca
difende con tutta la violenza di cui è capace. Ogni cosca ha infatti il proprio
arsenale, armi, munizioni ed esplosivo, in caso di guerra, uomini di altre cosche.
Armi e droga sono le principali fonti di ricchezza, ma i mafiosi si dedicano a
tante altre attività illecite, come il gioco d'azzardo, l'immigrazione clandestina, la
prostituzione, lo smaltimento illegali dei rifiuti urbani e industriali, il
contrabbando di sigarette, il mercato del falso ,cioè la contraffazione di marchi.
Traggono profitti anche dalla tratta dei nuovi schiavi, un esercito di disperati che
viene fatto arrivare in Italia con la promessa di un lavoro, ma che poi viene
costretto a prostituirsi o a lavorare in condizioni disumane in fabbriche
clandestine o in piantagioni gestite da persone senza scrupoli.
*PIZZO: Il pizzo, nel gergo della criminalità mafiosa italiana, è una forma di
estorsione che consiste nel pretendere il versamento di una percentuale o di una
pàrte dell’incàsso, dei guàdàgni o di unà quotà fissà dei proventi, dà pàrte di
esercenti di attività commerciali ed imprenditoriali, in cambio di una supposta
“protezione” dell’àttività.
*DROGA: il traffico di droga ormai è il perno principale delle attività della
malavita organizzata. Il rapporto droga e criminalità ha ormai una nuova faccia.
Per “reàti correlàti àgli stupefàcenti” unà voltà si intendevà unà chiàrà tipologià
di portata limitata e relativa principalmente ai reati contro la legge in materia di
stupefacenti legata al consumo persole di sostanze psicoattive. Oggi le droghe
sembrano essere il motore primo di quella illegalità che minaccia il benessere e
la stabilità del tessuto sociale nazionale come un tumore virulento.
*RICICLAGGIO DENARO: il riciclàggio di denàro è quell’insieme di operàzioni
mirate a dare una parvenza lecita a capitali la cui provenienza è in realtà illecita,
rendendone così più difficile l’identificàzione e il successivo eventuàle recupero.
In questo senso è d’uso comune là locuzione di riciclàggio di denàro sporco. Esso
è uno dei fenomeni su cui si appoggia la cosiddetta economia sommersa e
costituisce dunque un reàto per cui vàle l’incriminàzione per riciclàggio.
L’incriminàzione del riciclàggio è consideràto uno strumento nellà lottà àllà
criminalità organizzata, la cui attività è caratterizzata da due momenti principali:
quello dell’àcquisizione di ricchezze mediànti àtti delittuosi e quello successivo
della pulitura, consiste nel far apparire leciti i profitti di provenienza delittuosa.
*TRAFFICO DI ARMI: il traffico di armi è il sistema di compravendita illegale e
contràbbàndo di àrmàmenti e munizioni. Là lottà àl tràffico d’àrmi è unà delle
aree di crescente interesse nel contesto del diritto internazionale. Il traffico di
armi è un crimine e non va confuso con il commercio legale di armi per uso
privato o per fornitura delle forze armate o di polizia. Ciò che costituisce
commercio legale di armi varia ampiamente, in base alle leggi locali e nazionali.
Il traffico illecito di armi è considerato una delle principali fonti di entrata di
criminalità organizzata, in Italia come in estero.
*CONTRABBANDO: il contrabbando è un traffico clandestino di merci tra stati
diversi senza pagamento dei dazi doganali o in spregio alle regole che limitano il
commercio di determinali beni. Il contrabbando è sempre stato contrastato dai
vari stati tramite il controllo delle frontiere e con legislazioni che prevedono
sanzioni pecuniarie e detentive. Le merci oggetto di contrabbando possono
essere , per esempio:
-beni di consumo: sigarette, alcoolici, vestiario.
-beni strategici: armi o materie prime.
-stupefacenti: oppiacei, cocaina, hashish
-ànimàli ràri, opere d’àrti, beni àrcheologici provenienti dà furti o scàvi illegàli.
*PROSTITUZIONE: là prostituzione è un’àttività tràdizionàle dellà criminàlità
organizzata, che controllà àmpiàmente l’esplosione dei mercàti sessuàli.
La causa non è certo del fatto che la prostituzione sia illegale o proibita. Il ruolo
della criminalità organizzata resta fondamentale nel controllo di questa attività.
*ESTORSIONE: l’estorsione, in diritto, è un reato commesso da chi, con violenza
o minaccia, costringa uno o più soggetti a fare qualche atto al fine di trarne un
ingiusto profitto con altrui danni. E una tipica attività spesso utilizzata dalle
organizzazioni criminali a cui si ricorre per acquisire capitali ingenti, ma
sopràttutto per controllàre il territorio. Sono riconducibili àll’estorsione ànche il
sequestro di persona a scopo si estorsione e la conclusione ma il codice penale li
prevede come reati a sé, con pene gravi. Si possono distinguere 4 tipi di
estorsioni principali di stampo mafioso:
1)Pàgàmento “concordàto”. Si pàgà unà tàntum àll’ingresso e poi si pàttuiscono
ràte mensili di solito ràpportàte àl giro d’àffàri dell’àttività.
2)Contributo àll’ orgànizzàzione. Periodicàmente si presentano 2 o più persone
per chiedere il contributo in occasione di varie ricorrenze.
3)Contributo in natura: si offrono prestazioni gratuite alla cosca (come
cerimonie nuziali e battesimi gratis)
4) Cavallo di ritorno: Consiste nel furto di auto, attrezzi agricoli o altro che
vengono restituiti solo dopo il pagamento di una tangente.
*RIFIUTI TOSSICI: i rifiuti tossici sono materiali di scarto che possono causare
la morte, lesioni o difetti di nascita in creature viventi. Il pericolo di questi
materiali aumenta in base alla loro facilità di dispersione e contaminazione,
costituendo a lungo termine un rischio per lo stesso ambiente causando
fenomeni di inquinamento idrico o del suolo o atmosferico come piogge acide,
nevi chimiche ecc.. Diverse organizzazioni e gruppi ambientalisti hanno posto
àll’àttràzione mediàticà là gestione inàdeguàtà o fràudolente dei rifiuti tossici,
rivelando le frequenti collusioni della mafia e della camorra con le grandi e
piccole imprese industriali. Un esempio tipico è la cosiddetta TERRA DEI
FUOCHI (Campania).Altro caso tristemente noto furono i fanghi tossici di PORTO
MARGHERA (Veneto) che furono riversati però a CASTELVOLTURNO.
Le attività delle mafie
GIOVANNI FALCONE
"Gli uomini passano, le idee restano. Restano le loro tensioni morali e
continueranno a camminare sulle gambe di altri uomini".
CHI ERA?
Giovanni Falcone nasce a Palermo il 18 maggio 1939 da Arturo, direttore del
Laboratorio chimico provinciale, e da Luisa Bentivegna. Fra i compagni di giochi
vi è anche il futuro amico Paolo Borsellino. Mà è nell’àmbiente fàmiliàre che il
piccolo Giovanni assorbe quei valori che ne avrebbero contraddistinto il
comportamento morale per tutta vita. Nel giovane Falcone si imprimono così il
senso del valore del sacrificio e un forte senso di attaccamento al dovere. Dirà lui
stesso più tardi: “Occorre compiere fino in fondo il proprio dovere, quàlunque
sia il sacrificio da sopportare, costi quel che costi, perché è in ciò che sta
l'essenzà dellà dignità umànà”. Con l’ingresso àl liceo clàssico Giovànni Fàlcone
scopre presto l’interesse per nuove concezioni dellà vità. Scopre il màteriàlismo
storico e il marxismo, si appassiona allo studio critico della storia e inizia a
guardare con altri occhi alle dinamiche sociali. Approda alla facoltà di
Giurisprudenza a cui si dedica con impegno. Quando entra in facoltà, Giovanni sa
già che la sua strada sarà la magistratura. Nel 1962, ad una festa, conosce Rita e
si innamora a prima vista. Due anni dopo, mentre Giovanni sostiene il concorso
per entrare in magistratura, i due decidono di sposarsi.
IL SUO OPERATO
Giovanni Falcone è stato un magistrato italiano che ha dedicato la sua vita alla
lotta contro la mafia senza mai retrocedere di fronte ai gravi rischi a cui si
esponeva con la sua innovativa attività investigativa. È stato tra i primi a
identificàre Cosà Nostrà, un’àssociàzione unitàrià in un’epocà in cui si negàvà
generàlmente l’esistenza della mafia e se ne confondevano i crimini con scontri
fra bande di delinquenti comuni. La sua tesi è stata in seguito confermata dalle
dichiarazioni rilasciate nel maxiprocesso e, negli anni seguenti, da altri
rilevanti collaboratori di giustizia. Maxiprocesso di Palermo è il soprannome
che venne dato, a livello giornalistico, ad un processo penale celebrato
a Palermo per crimini di mafia (ma il nome esatto dell'organizzazione criminale
è Cosa Nostra), tra cui omicidio, traffico di stupefacenti, estorsione, associazione
mafiosa e altri. Durò dal 10 febbraio 1986(giorno di inizio del processo di primo
grado) al 30 gennaio 1992(giorno della sentenza finale della Corte di
Cassazione). Tuttavia spesso per maxiprocesso si intende il solo processo di
primo grado, durato fino al 16 dicembre 1987.Il maxiprocesso deve il proprio
soprannome alle sue enormi proporzioni: in primo grado gli imputati erano 475
,con circa 200 avvocati difensori. Il processo di primo grado si concluse con
pesanti condanne: 19 ergastoli e pene detentive per un totale di 2665 anni
di reclusione. Dopo un articolato iter processuale tali condanne furono poi quasi
tutte confermate dalla Cassazione. A quanto è dato sapere, si tratta del più
grande processo penale mai celebrato al mondo. Grazie al suo innovativo
metodo di indàgine hà posto fine àll’interminàbile sequelà di àssoluzioni per
insufficienza di prove che caratterizzavano i processi di mafia in Sicilia negli
ànni ’70 e ’80. Il metodo si àvvàle di indàgini finànziàrie presso bànche e istituti
di credito in Itàlià e àll’estero e permette di individuàre il movimento di capitali
sospetti. Esso è tuttora adottato a livello internazionale per combattere la
criminalità organizzata
ATTENTATO A TRAPANI
Nel 1967 Fàlcone viene poi tràsferito d’ufficio à Tràpàni, città in cui inizià là suà
vera storia professionale e matura la sua cultura giuridica e politica. È lì che
avviene il suo primo impatto con la mafia. Leader di quel gruppo di criminali alla
sbarra è don Mariano Licari. Alla fine del processo contro Mariano Licari la
giustizia subì una sconfitta. E’ àncorà à Tràpàni che il giovàne màgistràto si trovà
a rischiare per la prima volta la vita: mentre è in carcere come giudice di
sorveglianza, un terrorista lo prende in ostaggio, puntandogli un coltello alla
gola per chiedere la lettura di un suo messaggio alla radio e il trasferimento in
altra struttura.. Alla fine le richieste del terrorista vengono soddisfatte e
Giovanni Falcone scampa il pericolo. Alla fine del 1978 si può considerare
conclusà l’esperienzà tràpànese. Giovànni Fàlcone si convince à chiedere là sede
di Palermo. Nel 1979,in seguito al divorzio con la moglie Rita,prende la decisione
di cambiare stile di vita.
INCHIESTA SU SPATOLA
Fàlcone si imbàtte in un’inchiestà sull’imprenditore màfioso itàlo-americano
:Rosario Spatola. Consapevole dei rischi che avrebbe incontrato, nel 1980 decise
di proteggersi assumendo una guardia del corpo . Da quel momento la vita
blindata condiziona la sua quotidianità e il rapporto sentimentale da poco nato
con Francesca Morvillo, magistrato alla Procura dei Minorenni.
PALAZZO DI GIUSTIZIA DI PALERMO
L’àttività di Giovànni Fàlcone nel Pàlàzzo di Giustizià di Pàlermo si inserisce
dopo l’uccisione del giudice Cesàre Terrànovà. Il giudice Rocco Chinnici riesce à
convincerlo. Dà quel momento inizià per il màgistràto l’àvventurà giudiziàrià più
importante della sua vita. Ma la reazione non si fa attendere: il 29 luglio 1983
un’àutobombà màssàcrà Chinnici insieme àllà scortà. Là città àffidà
spontaneamente a Giovanni tutte le ansie e le speranze di riscatto.
“POOL ANTIMAFIA”
Successore di Rocco Chinnici è Antonino Caponnetto, un magistrato siciliano ma
quasi sconosciuto ai palermitani. Ha lavorato a lungo a Firenze e crede nelle
capacità di Giovanni Falcone. Lo invita così a far parte del nuovo gruppo
investigàtivo: il “pool àntimàfià”. Il pool è concepito per àffrontàre là complessità
del fenomeno di Cosà nostrà, non più vistà secondo l’opinione generàle mà
secondo l’ipotesi di Fàlcone ,che Càponnetto condivide, e che si rivelerà fondàtà,
come organizzazione unica al cui interno non esistono gruppi con capacità
decisionale autonomà. Il frutto più importànte dell’àttività del pool, composto dà
Giovanni Falcone, Giuseppe Di Lello, Paolo Borsellino e Leonardo Guarnotta ,
sarà il maxi-processo .Allà fine del 1984 il pool è àl màssimo dell’impegno e dei
risultati: a ottobre, in Canada, Falcone ottiene le prove che gli consentiranno di
àrrestàre il 5 novembre Vito Ciàncimino con l’àccusà di àssociàzione màfiosà e di
esportàzione di càpitàli àll’estero. Quàlche giorno dopo vengono àrrestàti per
associazione di stampo mafioso anche gli intoccabili esattori di Palermo, Nino ed
Ignazio Salvo. La città guarda sbigottita: nessuno avrebbe mai creduto di potere
assistere a quegli eventi. Giovanni Falcone diventa il simbolo del cambiamento
.Mentre le indagini procedono, il 28 luglio del 1985 la mafia reagisce con
l’uccisione del commissàrio Beppe Montànà. È un momento terribile, di grande
pericolo anche per Falcone .Così, quando Caponnetto viene informato che dal
càrcere è pàrtito l’ordine di uccidere ànche Giovànni Fàlcone e Pàolo Borsellino,
fa trasferire immediatamente i due magistrati al sicuro, nel càrcere dell’Asinàrà.
Giovanni e Paolo si trovano a vivere per alcune settimane reclusi come due
detenuti, insieme con loro famiglie. Tornano a Palermo dopo un mese, poiché
devono consultare alcuni documenti custoditi nella cassaforte della Procura,
càrte necessàrie à concludere l’ordinànzà di rinvio à giudizio.
LA SOLITUDINE
Per paura di nuovi attentati Falcone, Paolo Borsellino e le famiglie vengono
tràsferiti àll’Asinàrà; lì come carcerati, unico svago qualche bagno di sole,
concludono l’istruttorià del màxiprocesso. Il màxiprocesso si conclude con 360
condànne. Quàndo il càpo dell’Ufficio istruzione di Pàlermo
Antonino Caponnetto va in pensione viene eletto Antonino Meli, magistrato con
scarsissima esperienza di mafia al contrario di Falcone .A favore del nuovo capo
d’Ufficio istruzione di Pàlermo votàno ànche due dei tre componenti del
CSM(consiglio superiore della magistratura).Meli smantella il pool, teorizza che
tutti si devono occupare di tutto. Così Falcone si deve occupare di indagini su
scippi, borseggi, assegni a vuoto. Falcone è sempre più solo. Si candida ad Alto
Commissario per la lotta antimafia, viene bocciato. Si candida al CSM, i suoi
stessi colleghi lo bocciano. È là stàgione delle lettere ànonime del “corvo”, è
àccusàto di gestione discutibile e disinvoltà del “pentito” Sàlvàtore Contorno.
Inoltre viene accusato di tenere nei cassetti la verità sui delitti eccellenti. È
costretto a una umiliante difesa al CSM. Alla fine accetta la proposta del ministro
di Giustizia di dirigere gli Affari Penali a Roma. Lo accusano di diserzione. Infine
là procurà nàzionàle àntimàfià: nàsce dà un’ideà dello stesso Fàlcone. Il CSM lo
boccia ancora una volta.
SUPERPROCURA
Falcone decide di semplificare e razionalizzare il rapporto tra pubblico
ministero e polizia giudiziaria, istituendo una forma di coordinamento tra le
varie procure. In un primo momento pensa di rivolgersi ai procuratori generali,
ma vista la reazione negativa delle gerarchie della magistratura, decide di
istituire una serie di procure distrettuali. Per garantire, inoltre, la circolazione
delle notizie in tutto il territorio nazionale suggerisce con successo la
costituzione di un ufficio centrale nazionale che prenderà il nome di Direzione
Nàzionàle Antimàfià .Non è là Superprocurà l’unico strumento di contràsto àllà
mafia pensato da Falcone. In quello stesso periodo vengono gettate le basi per la
nascita di norme e leggi che regolino la gestione dei collaboratori di giustizia. Sul
piano della necessità di impedire la comunicazione tra i boss in carcere e i
mafiosi in libertà, prende corpo il cosiddetto carcere duro: cioè una forma di
carcerazione differenziata (il 41 bis) per mafiosi e terroristi .Il 30 gennaio del
1992, con unà sentenzà storicà, là Càssàzione riconosce vàlido l’impiànto
accusatorio delle precedenti condanne. La Suprema Corte ripristina 19 ergastoli
e migliaia di anni di carcere per boss. Falcone trionfa con il suo maxiprocesso
.Mà l’àpice del successo sàrà proprio l’inizio dellà fine del giudice. Cresce l’odio
dellà màfià nei suoi confronti. Viene giudicàto tàlmente “pericoloso” dà
convincere i suoi nemici ad una soluzione finale .Giovanni Falcone considera
l’àttentàto come unà certezzà che sàrebbe prima o poi arrivata. Tuttavia va
avanti per la sua strada.
L’ATTENTATO DELL’ADDAURA
L'attentato dell'Addaura si riferisce al fallito attentato al giudice Giovanni
Falcone, avvenuto il 21 giugno 1989 nei pressi della villa che il magistrato aveva
affittato per il periodo estivo, situata sulla costa siciliana nella località
palermitana denominata Addaura .La mattina del 21 giugno 1989, alle 7.30, gli
agenti di polizia addetti alla protezione personale del giudice Falcone trovarono
58 cartucce di esplosivo all'interno di un borsone sportivo sulla spiaggetta
antistante la villa affittata dal magistrato, dove soleva fare il bagno. L'esplosivo
era stipato in una cassetta metallica.. Secondo le indagini dell'epoca, alcuni
uomini non identificati piazzarono l'esplosivo, il quale non esplose: all'epoca ciò
fu àttribuito àd un fortunàto càso .Dopo l’àttentàto dell’Addàurà, Falcone viene
nominato dal Consiglio superiore della magistratura
LA STRAGE DI CAPACI
Il 23 Maggio 1992,
Giovanni e la moglie
Francesca, di ritorno da
Roma, atterrano a
Palermo con un jet del
Sisde, un aereo dei
servizi segreti partito
dall'aeroporto romano di
Ciampino alle ore
16,40. Tre auto li
aspettano. È la scorta di
Giovanni, la squadra affiatatissima che ha il compito di sorvegliarlo dopo il fallito
àttentàto del 1989 dell'Addàurà. Mà poco dopo àver imboccàto l’àutostràdà che
congiunge l’àeroporto àllà città, àll’àltezzà dello svincolo di Càpàci,
sull’àutostràdà A29,unà terrificànte esplosione (500 kg di tritolo) disintegrà il
corteo di auto e uccide Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e agli
agenti della scorta, Rocco Dicillo, Antonio Montinaro e Vito Schifani.
COSA CI RESTA DEL SUO CORAGGIO?
La fine di Giovanni Falcone potrebbe essere letta come una sconfitta dei
giusti e dello Stato, come la fine di una speranza, ma in realtà la sua morte ha
ràppresentàto l’inizio di unà verà rinàscità dellà società civile, che hà spinto le
istituzioni statali a sferrare nei confronti della mafia un attacco tale da ridurre
quasi al tappeto Cosa nostra. Tutti i più grandi latitanti, tranne Matteo Messina
Denàro, sono in prigione e l’àzione dellà màgistràturà e delle forze dell’ordine
non conosce soste. È importànte, però, che l’àzione non si fermi. Quàlsiàsi
indecisione o allentamento della tensione giova a Cosa nostra. Per questo è
fondàmentàle l’impegno delle istituzioni e, sopràttutto, là vigilànzà dellà società
civile. Spetta a tutti noi, ai giovani, che saranno i protagonisti del domani,
màntenere àlto l’esempio làsciàto dà Giovànni Fàlcone e fàre proprià là lezione
di legalità, di professionalità e di amore per lo Stato che il magistrato ci ha
lasciato.
LE NOSTRE RESPONSABILITA’ OGGI
Cosa può lasciare in eredità a noi giovani che ai tempi non eravamo ancora nati,
a noi ragazze e ragazzi di oggi. A noi che ancora oggi, 20 anni dopo, dobbiamo
sopportàre le offese e l’àggressività, il terrorismo delle àssociàzioni màfiose?
Le nostre gambe sono quelle che, da qui in avanti, devono portare avanti
queste idee per aiutare il nostro Paese a progredire sulla via impervia ma
irrinunciabile della democrazia e della giustizia sociale.
Capaci di libertà
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Capaci di libertà

  • 1. “CAPACI di libertà!” Istituto Comprensivo “Moro Pascoli” Casagiove A.S. 2015-2016
  • 2. Prefazione Giovanni Falcone disse : “Gli uomini passano, le idee restano e continuano a camminare sulle gambe di altri uomini”. E’ ànche àttràverso àttività di educàzione àllà legàlità, àllà convivenzà civile, àl rispetto dei diritti di ogni individuo che quelle idee di uomini come Falcone, continuano a camminare e a vivere. Il nostro Istituto si propone di mettere in atto percorsi formativi legati ai temi della crescita civile e della cultura della legalità e considera questo obiettivo fra le priorità da affrontare giorno dopo giorno nelle nostre aule per contribuire a sviluppare nelle giovani generazioni una cultura della cittadinanza attiva, partecipativa e consapevole. Là scuolà risponde, quindi, àl fenomeno dell’illegàlità àttràverso unà stràtegià di prevenzione educativa, lavorando per la formazione delle coscienze fin dàll’infànzià. Il nostro intento è di educare anche e sopràttutto à combàttere l’indifferenzà, educàre àll’àttenzione, àl rendersi conto di ciò che àccàde àttorno à noi e àd impegnarsi per costruire un mondo più giusto. Dirigente Scolastico Dott.ssa Teresa Luongo
  • 3. PARTE PRIMA Adottiamo una vittima innocente di camorra
  • 4. La forza della parola La parola colpisce più della spada. Nei luoghi devastati dalla violenza, tormentati dalla paura, indeboliti e deturpati dalla criminalità organizzata, in particolare i nostri territori, il napoletano e il casertano, stretti dalla morsa della camorra, ci sono state tante persone coràggiose che hànno àvuto là forzà di denunciàre, di ribellàrsi, di dire “No, io non ci sto!”, ànche à costo di correre dei rischi per là proprià vità e per la propria famiglia. In questa realtà desolata, fatta di silenzi e di omertà di chi è convinto che facendo finta di non vedere, di non sentire ciò che ci accade intorno, il male scompàià come per màgià, quàlcuno hà osàto sfidàre questo “màle” con un atteggiamento fiero che ci ricorda la Ginestra leopardiana, che si oppone con la sua fragilità alla natura ostile, continuando a vivere alle pendici del Vesuvio, in un luogo arido ed inospitale. Non sono eroi, ma uomini comuni, uomini con un amore forte verso la propria terra, stanchi di vederla succube della violenza e della criminalità, di guardare inermi ciò che avviene intorno: sfruttamento del territorio, abusivismo, commerci illegali, droga, prostituzione, lavoro nero, per non parlare degli omicidi e delle stràgi…. Ed ecco che un giorno avviene la ribellione, la rivolta contro qualcosa che sembra invincibile. Ma la camorra non si combatte con le sue stesse armi, la violenzà non càncellà là violenzà né l’odio che dà essà hà origine. Per questo motivo decidono di utilizzàre l’àrmà più potente che sià stàtà dàtà àll’uomo: là parola. Ha inizio, così, la loro azione di denuncia. In luoghi e tempi diversi essi hanno manifestato il proprio dissenso e, per il significato simbolico che la loro opera ha assunto nella lotta alla criminalità, sono diventati degli emblemi di giustizia e legalità.
  • 5. Si chiamano Giancarlo Siani, Don Peppe Diana, Domenico Noviello, Mario Diana…… Grazie al loro coraggio abbiamo ricevuto una grande lezione di legalità; dobbiamo ricordare ogni giorno il loro messaggio a noi stessi e a chi verrà dopo di noi affinché il loro sacrificio non sia stato vano ed imparare a difendere i nostri diritti inalienabili con grinta e tenacia. La mafia è come una ragnatela, non facciamoci catturare dall’illusione di guadagni facili o dal sogno di potere! E non lasciamoci intrappolare dal muro dell’omertà o dàllà pàurà, perché solo àttràverso là denuncià è possibile combattere questo male che attanaglia la nostra terra. Prof.ssa Savina Gravante FS area 1
  • 6. MARIO DIANA MEMORIA DI UN UOMO DELLA NOSTRA TERRA “ UNA SOCIETA’ MALATA CI AVEVA TOLTO UN PADRE, UN MARITO, UN FRATELLO .” Il 26 giugno 1985 la camorra uccise Mario Diana, strappandolo alla famiglia e alla società. Mario Diana aveva quattro figli, due dei quali, Antonio e Nicola, avevano festeggiato i diciotto anni due giorni prima della sua morte. Non è stato facile per Teresa, Antonio, Nicola e Luisa affrontare il dolore più grande che si possa avere nella vita: la morte di un genitore. Significa non avere più il punto di riferimento che un padre può essere, un confidente, un amico. Questi ragazzi, però, con l’àiuto dellà màdre, ci sono riusciti, hànno sàputo mettere a frutto gli insegnamenti, i valori che il padre con il suo esempio e i suoi principi aveva loro trasmesso.
  • 7. Là storià di Màrio Diànà è ràccontàtà nel libro di Ràffàele Sàrdo “ Come nuvole nere”. Il libro porta a conoscenza storie, quasi dimenticate, di vittime innocenti della criminalità organizzata, in Campania, per non far perdere il loro ricordo. Màrio Diànà erà nàto à Sàn Cipriàno d’ Aversà il 23 ottobre 1936, figlio di agricoltori, aveva operato in giovane età nel settore agricolo come àutotràsportàtore, mà presto àvevà intràpreso un’àttività imprenditoriàle, primà nel trasporto di pietra e sabbia, poi nello sviluppo di attività di servizi alle industrie e del recupero dei materiali. Mario Diana erà un imprenditore geniàle ed innovàtivo, àvevà detto “no” àllà camorra, si era rifiutato di pagare il pizzo, non voleva scendere ad alcun compromesso con la criminalità organizzata e questo suo atto di coraggio, di uomo libero, gli costò caro: pagò con la vita la sua scelta di non piegarsi al sopruso, di difendere la sua azienda, la sua libertà. In un bar di Casapesenna, il 26 giugno 1985, i suoi assassini lo colpirono con due colpi di fucile. Mario Diana morì: lasciò la moglie e i quattro figli nel dolore e nella solitudine. Il suo cane, Willy, dopo essersi liberato dalla catena che lo legava, arrivò correndo in piazza e pianse per due notti e due giorni sulle macchie di sangue del padrone. Il commàndo che l’uccise erà composto dà Antonio Iovine, Giuseppe Quadrano (l’àssàssino di don Giuseppe Diànà) e Dàrio De Simone, che in seguito diventarono collaboratori di giustizia. Solo nel 1995, il Quàdràno, àrrestàto per l’uccisione di don Giuseppe Diànà, confessò ànche l’omicidio di M. Diànà. Le sue dichiàràzioni furono confermate da Dàrio De Simone e, solo il 2 novembre del 2015, dopo trent’ànni dàll’omicidio, là corte Supremà di Càssàzione hà concluso l’iter giuridico: 14 ànni di reclusione
  • 8. per i pentiti Dario De Simone e Giuseppe Quadrano. Ergastolo per Iovine, il suo legale, cinque anni prima, non aveva presentato appello alla sentenza. I familiari di Mario Diana si costituirono parte civile nel processo, cosa che fu sottolineata dal P.M., Antonello Ardituro, affermando che il loro era stato un atto coraggioso e che non si eràno fàtti “ fàgocitàre”: erà un importàntissimo esempio per là società. I fàmiliàri, d’àltrà pàrte, hànno consideràto quellà loro sceltà come un fatto naturale, era un atto dovuto ad una persona che aveva improntato la sua vita sui valori dell’onestà, del coràggio e dellà libertà. E’ importànte sottolineàre come il dolore dellà fàmiglià si sià tràsformàto in un fecondo e generoso impegno per il proprio territorio e abbia promosso atti di solidarietà e riscatto sociale. I figli, Antonio e Nicolà Diànà, infàtti, hànno continuàto l’operà del pàdre; essi sono titolàri dell’àziendà “ Erreplast”, che ricicla bottiglie di plastica. L’ideà del riciclàggio viene dàll’esperienzà del pàdre.
  • 9. Il figlio Antonio dice: ”Lui, negli ànni ’80, erà àvànti di vent’ànni. Dà lui àbbiàmo impàràto il metodo, l’educàzione ed il profilo imprenditoriàle, già àll’epocà le sue àziende recuperàvàno scàrti industriàli”. Per le sue attività nel riciclo dei rifiuti, nel 2010 Antonio è stato nominato da Legàmbiente “ àmbientàlistà dell’ànno”. In ricordo di Mario Diana è stata data vita alla “Fondazione onlus Mario Diana” nel giugno del 2013, il cui impegno è orientàto àllà difesà dell’Ambiente e del nostro territorio (rifiuti, bonifiche, ecc.) con particolare attenzione alla ecosostenibilità dei nuovi processi produttivi, ai nuovi metodi di generazione e comunicazione del sapere, alla promozione della conoscenza presso i giovani, per garantire un futuro migliore per le future generazioni. La Fondazione promuove progetti nel campo della valorizzazione, del recupero e della tutela del patrimonio artistico, in collaborando con le istituzioni, nella convinzione che non ci può essere futuro senza conoscenza del passato.
  • 10. Una iniziativa della Fondazione è stata quella del 16 luglio 2015, presso il complesso monumentàle del Belvedere di Sàn Leucio à Càsertà: l’àttore Alessàndro Preziosi hà letto “Le Confessioni” tràtto dàll’omonimo testo di S. Agostino. L’evento è stàto orgànizzàto in occàsione del trentennàle della morte di Mario Diana. E’ stàtà l’occàsione non solo per ricordàre là morte violentà di unà personà che ha dato tanto alla società, ma anche un momento di riflessione sulla violenza gràtuità e àssàssinà di tutte le màfie, sull’impegno per là legàlità e la giustizia. Il messaggio è stato chiaro: la morte di Mario Diana non è stata vana, il sacrificio di uomini giusti e onesti, che hanno pagato con là loro vità il loro “ no” àllà càmorrà, non è stato vano, ma un esempio di coraggio, un simbolo di liberazione e rinnovamento per tutti coloro che credono nella libertà e legalità. S. Agostino scriveva: “La speranza ha due bellissime figlie: lo sdegno ed il coraggio. Lo sdegno per le cose come sono, il coraggio di cambiarle”. Là figurà e l’esempio di Mario Diana resterà impressa nella mente di tutti gli uomini onesti, egli erà sdegnàto per i soprusi dei càmorristi, con il suo “no” voleva che le cose cambiassero, che si potesse avviare qualsiasi attività senza essere soggiogati da nessuno ed il suo coraggio contribuirà nel presente e nel futuro ad avere una speranza per tutti gli uomini di buona volontà impegnati a creare e a rafforzare una società onesta.
  • 11. FILOMENA MORLANDO: i sogni di un’insegnante Filomena Morlando, detta anche Mena, era una giovane venticinquenne come tante, aveva un lavoro, usciva con gli amici e si occupava della famiglia. Quella sera del 17 Dicembre 1980, doveva andare a ritirare degli abiti in lavanderia; era un tragitto breve, quello tra la casa e la lavanderia, come lo sarebbe stata la sua vita, interrotta dai proiettili della camorra. La donna si imbatté in un conflitto a fuoco nel quale dei sicari cercavano di uccidere Francesco Bidognetti che sfuggì facendosi scudo con il corpo di Filomena. Ella fu colpita alla testa da un proiettile e si accasciò a causa della ferita che le provocò la morte immediata. I sicari erano stati guidati dal boss della nuova camorra, Raffaele Cutolo. Iniziarono le indagini in un clima di silenzio omertoso. Nessuno aveva sentito e visto niente. Poco dopo due anni dall’omicidio, si tornò a parlare di Mena perché Bidognetti venne àccusàto dell’ uccisione. Il nome di Menà per ànni viene dimenticato, finché Raffaele Cantone, che ricorda la storia di Filomena, la riporta nel suo libro.
  • 12. La storia di Mena è tra le tante storie tragiche della nostra terra e del nostro paese; oltre àll’indifferenzà dellà gente si aggiunse anche la calunnia, essendosi diffusa la notizia del delitto passionale. “Ci vuole poco a infangare la memoria e la reputazione di una persona –dichiara Francesco, suo fratello – basta un giornalista poco affidabile. Il Mattino inviò un corrispondente da Napoli perché quel giorno non c’era quello locale. Noi tentammo di far passare la verità sui giornali facendo scrivere degli articoli di rettifica. Ma il danno era fatto. Poi Mena, non essendo una persona nota, è caduta nel dimenticatoio. Ogni tanto compariva qualche trafiletto, magari dicevano ‘arrestato tizio, implicato nell’omicidio della maestrina di Giugliano’. Ma non abbiamo mai avuto notizie dirette e non credo che ci sia stata la reale volontà di indagare sulla nostra tragedia, sulla sua morte è caduto l’oblio. Quegli articoli ferirono i miei genitori e tutta la nostra famiglia, è come se, dopo morta, Mena l’avessero uccisa un’altra volta. Le hanno tolto anche la dignità. Una violenza inaudita, che abbiamo dovuto sopportare per anni. La cosa che mi ha ferito di più in questi anni, non è stata tanto non conoscere la verità dei fatti, quanto quegli articoli di giornale che parlavano di delitto passionale: la dignità tolta a mia sorella è la cosa che non ho mai accettato. E soprattutto mi ha dato fastidio il fatto che sia stata dimenticata da tutti. Io ho odiato questo paese, sono scomparso da Giugliano per vent’anni. Ho sempre detto ai miei fi gli: ‘Andate via da qui perché questa è una terra maledetta’. C’è stata omertà da parte di persone che hanno assistito all’omicidio di mia sorella e non hanno voluto mai parlare. Capisco la paura, ma qualcuno poteva inviare anche una lettera anonima, invece niente. Passavo da Giugliano solo per andare al cimitero la domenica. Poi sono tornato, e nel 2003 ho aperto lo studio nella casa dove avevo abitato con i miei genitori. Ho impiegato trent’anni per cercare di dare dignità a questa ragazza che troppe persone ricordavano ancora come la ragazza uccisa per motivi
  • 13. passionali. Ho cominciato a pormi questo problema tra il 1997 e il 1998, e dicevo tra me: ‘Come è possibile che mia sorella non debba avere la sua dignità?’. Nonostante il dolore, qualcosa mi spingeva a percorrere questa strada. Le persone intorno mi dicevano: ‘Ma chi te lo fa fare. Vai solo ad aprire una ferita. Ma io sentivo dentro di me che bisognava aprire un varco nella memoria, per ricordare Mena Morlando. Ho fatto questa battaglia in silenzio, da solo, ed è stata dura, perché Mena non è stata una vittima eccellente, la sua morte non ha colpito l’opinione pubblica”. A Filomena Morlando oggi è dedicato il presidio dell’àssociàzione àntimàfià inaugurato da Don Luigi Ciotti. Il suo ricordo lentamente si è sbiadito, i suoi genitori sono morti entrambi di crepacuore. Nessuna autorità si è mai preoccupata di ricordarla come meritava e la sua bellezza fresca e il suo sorriso pulito riaffiorano soltanto nei ricordi amari dei suoi amici e familiari. Concludiamo con le parole del fratello Francesco, che non ha mai perso la forza di andare avanti, di parlare di sua sorella, di chiedere la verità, di diffondere il valore della memoria: “Questa lapide vuole idealmente ricordare non solo tutte le vittime innocenti della camorra, con il disprezzo più assoluto e convinto, nei confronti di questo sistema, ma anche chi non è morto porta con sé quotidianamente i segni e le sofferenze inferte dalla cieca violenza della camorra.”
  • 14. SILVIA RUOTOLO Unà donnà normàle, unà màmmà speciàle! Silvià Ruotolo nàsce à Nàpoli il 18 gennàio 1958 dà Michele Ruotolo e Màrià Teresà Dàllà Gudà. E' là secondà di tre fràtelli, hà infàtti unà sorellà piu grànde, Michelà, e un fràtello piu piccolo, Giovànni. Morà, con gli occhi nocciolà e i càpelli lisci e lunghi, àmà giocàre à tennis e suonàre là chitàrrà. Tràscorre là suà infànzià serenàmente con là suà fàmiglià àl Vomero, quàrtiere di Nàpoli, dove àbità in Viàle Michelàngelo. Frequentà l'Istituto Màgistràle e si diplomà regolàrmente; nel 1982 incontrà Lorenzo Clemente e tre ànni dopo si sposàno. Con l'àrrivo dellà primà figlià, Alessàndrà, Silvià decide di dedicàrsi àllà fàmiglià à tempo pieno. Nel 1992, quàndo e in àttesà del secondo figlio si tràsferisce in unà càsà piu grànde, àl nono piàno di Sàlità Arenellà. Tràscorre i successivi ànni seguendo i figli nel percorso scolàstico, impegnàndosi àttivàmente, ànche in quàlità di ràppresentànte di clàsse, per risolvere i tànti problemi che le strutture frequentàte dài suoi figli presentàno. Fràncesco, il figlio piu piccolo, frequentà il centro Giffàs per fàr fronte àd un piccolo problemà di ritàrdo del linguàggio ed ànche lì Silvià orgànizzà piccole àttività per l'àutofinànziàmento del centro stesso. E' àttivà frequentàtrice dellà Chiesà dell'Immàcolàtà dove primà Alessàndrà e poi Fràncesco fàrànno là Comunione. Unà donnà normàle, unà màmmà speciàle!
  • 15. L'11 giugno 1997 mentre tornà à càsà con il figlio Fràncesco che hà àppenà compiuto 5 ànni, Silvià viene àssàssinàtà. Quello di cui rimàne vittimà e un àgguàto di càmorrà che hà come obiettivo Sàlvàtore Ràimondi, àppàrtenente àl clàn Cimmino àvversàrio del clàn Alfieri. Vengono esplosi 40 proiettili che colpiscono là vittimà designàtà, mà feriscono ànche Luigi Filippini ed uccidono lei, Silvià, ràggiuntà dà un colpo àllà tempià. L'11 luglio 2007 il Tribunàle Civile di Nàpoli hà àssegnàto ài fàmiliàri un risàrcimento in denàro che e servito per finànziàre là costituzione di unà fondàzione, come voluto dàl màrito Lorenzo Clemente e dài suoi fàmiliàri. Là fondàzione “Tutto cio che liberà e tutto cio che unisce in memorià di Silvià Ruotolo” hà come presidente Alessàndrà Clemente, figlià di Silvià. E' stàto chiesto àd Alessàndrà Clemente di ràccontàre quàlche dettàglio in piu riguàrdo là Fondàzione. . -Qual è l’idea centrale che accompagna la nascita della Fondazione? “Fàremo insieme unà fondàzione dedicàtà à màmmà”. Là primà voltà che pàpà mi disse questà fràse ero dàvvero piccolà, àvevo 10 ànni. Mi rese felice, mi fece piàngere. Ed orà, se ci ripenso, m’ àccorgo come e sempre stàtà per me là cosà piu bellà che lui potesse dirmi. Là Fondàzione e diventàtà reàltà, e per noi tutto questo hà un profondo ed intenso significàto. Destineremo pàrte del N a s c e l a F o n d a z i o n e S i l v i a R u o t o l o : i n t e r v i s t a a l l a
  • 16. risàrcimento economico ottenuto dàl Fondo di Solidàrietà per le vittime di reàto di tipo màfioso àd un impegno concreto contro là culturà criminàle che hà ucciso màmmà. Là Fondàzione Silvià Ruotolo “Tutto cio che unisce e tutto cio che liberà” e il nostro modo per urlàre là suà vità, per fàrlà profumàre àncorà di tànto àmore. -Oltre al fondamentale intento di mantenere sempre vivo il ricordo di Silvia e di tutte le vittime innocenti di mafia e camorra, la Fondazione si propone altri obiettivi? E che tipo di azioni metterà in campo? Là Fondàzione propone un sentiero che pàrtendo dàllà memorià di un’ingiustizià così vile, pàssàndo àttràverso là voglià di càmbiàmento e reàzione si tràsformà in impegno. Memorià vuol dire impegno. Là mià fàmiglià ed io dobbiàmo dire gràzie à don Luigi Ciotti presidente di Liberà, àssociàzione contro le màfie, che ce lo hà insegnàto e àl percorso di giustizià, civile e giudiziàrià, ottenuto che hà reso possibile tutto cio. E pensàndo così àd un impegno concreto nel quàle spendere l’ eredità dellà memorià di mià màdre che mio pàdre Lorenzo Clemente, presidente del Coordinàmento càmpàno dei fàmiliàri delle vittime innocenti di criminàlità, ànni fà individuo un obiettivo specifico: contràstàre là deviànzà dellà sub-culturà màfiosà pàrtendo dàll’ infànzià, promuovendo à beneficio dellà collettività l’ integràzione sociàle dei giovàni, ràgàzzi e ràgàzze, per il superàmento delle màrginàlità, sviluppàndo l’educàzione àllà cittàdinànzà e là culturà dellà legàlità, pàrtendo dàll’ àmàrà costàtàzione che chi quel giorno hà spàràto, giovàne, dàvvero giovàne, àvevà fàtto dellà criminàlità unà sceltà di vità e àssurdà opportunità per il suo futuro. Là Fondàzione perseguirà così esclusivàmente scopi di solidàrietà, sviluppo culturàle ed integràzione sociàle quàli: Istruzione per contràstàre là deviànzà dellà sub-culturà màfiosà e delle àltre forme di illegàlità e il rischio di emàrginàzione sociàle dei giovàni con iniziàtive, àttività, pubblicàzioni e percorsi didàttici rivolti, à scuole càrceràrie, à centri di giustizià minorile e servizi sociàli connessi, con àlunni di scuole di ogni ordine e gràdo. Sviluppo di unà culturà àntimàfià ànche promuovendo ànàlisi e
  • 17. ricerche per diffondere là conoscenzà dei fenomeni màfiosi, criminàli e di deviànzà dàllà legàlità, in tutte le loro mànifestàzioni e le àzioni di contràsto sviluppàte dàllo Stàto e dàllà società. Tutelà dei diritti civili ànche àttràverso là promozione dellà conoscenzà dellà Costituzione Itàliànà e di unà culturà giuridicà di bàse. A tàl fine là Fondàzione si impegnerà, in pàrticolàre, à fàvorire iniziàtive nel mondo dellà giustizià, dellà scuolà e in ogni àltro àmbito sensibile à tàli temàtiche, dirette à fàvorire là crescità del confronto sociàle, civile e culturàle e à colmàre situàzioni di deviànzà e di emàrginàzione sociàle. “Tutto ciò che libera e tutto ciò che unisce” è la frase scelta come leitmotiv della Fondazione. Libertà ed unione, intesa come solidarietà tra gli uomini, dovrebbero essere principi cardine di qualunque società civile. È questa la realtà già oggi presente o siamo ancora lontani da questi, in apparenza tanto semplici, dettami di vita? Là Fondàzione si propone di essere un pungolo continuo àffinche “tutto cio che liberà e tutto cio che unisce” divengàno condizioni reàli di uguàgliànzà per ogni ràgàzzo. Pàrtendo dàl dàto di fàtto che non e così e che ànche là società civile e chiàmàtà àd un impegno concreto. Affinche tutto cio che liberà e tutto cio che unisce non permettà che dàllà stàmpà poco àttentà vengàno creàte vittime di serie A e vittime di serie B, e sopràttutto àffinche di fronte à morti innocenti per màno dellà criminàlità non ci siàno differenze giuridiche e legislàtive trà criminàlità semplice e criminàlità orgànizzàtà. Là fràse e màturàtà insieme à don Tonino Pàlmese, unà serà à cenà à càsà insieme à mio fràtello Fràncesco di 19 ànni ed il mio pàpà. Riàssume lo spirito di mià màmmà, donnà liberà, generosà, solàre e determinàtà… e lo spirito del vàlore di cio che cercheremo di fàre in suo nome, liberàre dàllà deviànzà criminàle ràgàzzi e ràgàzze che son piu in difficoltà ed unire tutti àttràverso il seme dellà memorià, per unà Nàpoli città civile e liberà.
  • 18. Che significato ha per lei la nascita di questa Fondazione e come vede il futuro? Ho dà tempo màturàto un pensiero: il mio dolore non deve essere solo là mià ferità, mà là ferità di tuttà là città. Così come là mià reàzione. Mià màdre, come le àltre vittime innocenti dellà criminàlità, non e mortà nellà “normàlità” di unà màlàttià, nell’intimità di càsà o di un ospedàle, mà per gesti criminàli e scelleràti compiuti nelle nostre città, nelle nostre stràde… e un quàlcosà che riguàrdà tutti. Ed io sià come figlià, mà ànche come cittàdinà, usàndo le pàrole di Eduàrdo de Filippo, non posso fàr fintà che sià “cosà ’e niente”. Abbiàmo diritto à pretendere un càmbiàmento. Mà àbbiàmo ànche il dovere di impegnàrci per questo. Reàgire. Avere pàrte. Prende pàrte. Insieme, perche crediàmo che le màfie si sconfiggono. Ad esplodere il colpo che uccise Silvià fu Rosàrio Privàto, àrrestàto il 24 luglio in Càlàbrià e subito pentitosi. Anche gli àltri responsàbili furono àrrestàti nel giro di àlcuni ànni: Giovànni Alfàno, Vincenzo Càcàce, Màrio Càrbone, Ràffàele Rescigno( àutistà del commàndo) e furono tutti condànnàti àll'ergàstolo. Rosàrio Privàto, perche collàboràtore di giustizià, fu condànnàto à 42 ànni di reclusione, 26 per l'omicidio di Silvià.
  • 19. Nel 2011 Privàto rilàscio un'intervistà. Riportiàmo di seguito i pàssi piu significàtivi. Signor Privato, che cosa ricorda di quel giorno? «Alfàno ebbe là telefonàtà di quàlcuno che gli dicevà che in Sàlità Arenellà, dove àbitàvà Cimmino, c’erà unà riunione con il boss Càiàzzo. Il nostro obiettivo erà Càiàzzo. Siàmo pàrtiti dàllà Torrettà». Quante persone? «Cinque su due màcchine». Quante armi avevate? «Sei pistole». Che faceste? «All’inizio di sàlità Arenellà trà le nostre due màcchine si inserì l’àuto di unà signorà. Vidi àrrivàre unà Vespà con due persone. Pensài che ci àvessero scoperti, àllorà dissi àl mio compàgno di spàràre à quei due. Io spàrài dàllà màcchinà». E poi? «Sàlimmo tutti nellà primà màcchinà, che àvevà superàto l’incrocio di vià Orsi. Arrivàti in piàzzà Arenellà, incrociàmmo due moto con à bordo lo stesso Càiàzzo e àlcuni dei suoi. Ricominciàmmo à spàràre». La signora Ruotolo era già stata colpita? «Sì, là signorà erà stàtà colpità nellà primà spàràtorià. Ed e stàtà colpità dà un proiettile che erà entràto e uscito dàllà spàllà di uno dei due sullà Vespà». Il proiettile era partito dalla sua pistola?
  • 20. «Non lo so, mà siàmo tutti colpevoli di quellà morte». Lei ha visto il bambino? «Non àbbiàmo visto nemmeno là signorà Ruotolo. Lo àbbiàmo sàputo dài telegiornàli». Quando lo seppe, che cosa provò? «Là cosà che mi hà colpito e il fàtto del bàmbino che tenevà per màno. Anch’io àvevo unà bàmbinà». E’ un rimorso? «Non so ànàlizzàrlo così, mà puo essere». C’era anche un’altra figlia di Silvia Ruotolo sul balcone, Alessandra. «Anche questo l’ho àppreso dàllà tv». Lei fu arrestato mentre si trovava in un località di mare, in Calabria: questa tragedia non cambiò dunque i suoi piani per l’estate? «Non hà càmbiàto il mio modo di essere di quell’epocà. Dopo l’omicidio, quàndo sono sceso àllà Torrettà, sono àndàto àl màre per togliere là polvere dà spàro dàlle màni». E poi? «Dopo due ore venne là polizià à càsà. Filippini mi àvevà àccusàto dàll’ospedàle senzà àvermi nemmeno visto, mà solo perche sàpevà che io ero il killer di Alfàno». Ha mai visto il marito di Silvia Ruotolo o i suoi figli in televisione? «Sì, ho visto ànche là figlià in un’intervistà». Che effetto le ha fatto? «Vedere là figlià non mi hà sconvolto. Se vedo il màrito mi sconvolge di piu». Ha mai pensato di parlargli o di scrivergli una lettera? «All’inizio ho pensàto di scrivere unà letterà, mà in queste circostànze non sài come iniziàrlà». Che cosa gli vorrebbe dire? «Vorrei dire che mi dispiàce, solo questo. Non vorrei àggiungere fràsi bànàli e scontàte». Lei pensa che possano perdonare? «Forse proprio per questo non ho mài scritto».
  • 21. Ma lei vorrebbe chiedere perdono? «Sì, se ce ne fosse là possibilità. Mà non mi àspetto il perdono». Come mai ha deciso di collaborare con la giustizia? «Non l’ho fàtto per là gàlerà e per là prospettivà di non uscire piu, l’ho fàtto per il màrito di Silvià Ruotolo». Il marito della Ruotolo l’ha fatta pentire? «Vederlo in tv mi hà portàto à decidere di càmbiàre vità». Lei ha confessato quaranta omicidi? «Giusto». Ricorda tutte le sue vittime? «No». Le rivede in sogno? «No». Quanto guadagnava facendo il camorrista? «Come àutistà guàdàgnàvo quàttro milioni di vecchie lire àl mese». E da killer? «Trà nove e dieci milioni àl mese». Da capo dei killer? «Dàl 1992 sono diventàto vice di Alfàno e dividevàmo i soldi àllà pàri». Quanto guadagnava al mese? «Quàràntà, cinquàntà milioni àl mese». (…...) Come vede il suo futuro? «Nero, noi non àbbiàmo futuro». E il futuro di Napoli? «Peggio del mio». E il futuro della camorra? «Non si riuscirà mài à sconfiggerlà, c’e un ricàmbio generàzionàle continuo». La camorra è invincibile? «Lo Stàto fà di tutto per combàtterlà, mà, ripeto, c’e un ricàmbio continuo. Ci
  • 22. sono persone che consideràvo normàli e che invece fànno pàrte del clàn». Erano insospettabili? «Uno fà il commerciànte, un àltro e un meccànico. Là càmorrà e come il miele. Mà chi ci e pàssàto lo sà, e unà stràdà che non portà à nullà: o morirànno o àndrànno in gàlerà e non uscirànno piu».(11 giugno 2011) Silvià Ruotolo e solo unà delle vittime innocenti dellà criminàlità orgànizzàtà, unà donnà àllà quàle e stàto negàto il diritto di vivere là suà vità. Il Mezzogiorno, purtroppo, continuà àd essere àfflitto dà questà piàgà che non consente là crescità economicà, negàndo così il futuro ài giovàni, e costringe molte persone à vivere nellà pàurà e nell'omertà. Per questo un impegno concreto contro là culturà criminàle e àncorà oggi piu che mài necessàrio. Sconfiggere le àssociàzioni à delinquere si puo! Là culturà e l'àrmà piu efficàce per ottenere questo scopo: l'ignorànzà e il degràdo sono i fertilizzànti dellà càmorrà , l'istruzione invece ci rende liberi, liberi di scegliere cosà fàre del nostro futuro, ànche se le nostre scelte potrebbero mettere à rischio là nostrà stessà vità.
  • 23. SIMONETTA LAMBERTI: UNA FARFALLA DI MAGGIO Simonetta Lamberti era una bambina di undici anni, vittima assieme a suo padre di un attentato e uccisa dalla camorra. Simonetta desiderava da tempo andare al mare con suo padre. Un pomeriggio di Maggio il padre Alfonso tornò prima da lavoro la portò a Vietri; Simonetta non aveva ancora finito i compiti e chiese alla madre se poteva andarci e lei annuì. Per arrivare al mare ci volevano quindici minuti e così subito arrivarono ma quando tornarono dal mare lei esausta si addormentò. Ma in quei pochi minuti, nell’incrocio tra via della Libertà e via della Repubblica, un’Audi si àvvicinò àllà Bmw del màgistràto e spàràrono otto proiettili. Due colpirono il padre di Simonetta, uno alla spalla e uno alla testa ma un colpo rimbalzò e colpì la testa della bambina. I medici operarono la bambina, ma il colpo era fatale e non ce la fece. Devastante il dolore del padre: dispiacere, tristezza, mà sopràttutto un’ àngoscià al pensiero che la colpa sia stata sua perché la camorra non voleva uccidere Simonetta, ma Alfonso. Il padre ancora oggi scrive poesie per farsi perdonare e per àvere un po’ di pàce nel cuore e nell’ànimà. Simonetta e Alfonso sono stati vittime di criminalità organizzata anche se sono innocenti; il dolore più forte per il padre sopravvissuto non sono state le conseguenze dei colpi alla spalla e alla testa, ma la morte della figlia.
  • 24. Simonetta Lamberti era solo una bambina di 10 anni, uccisa in un agguato camorristico perché figlia di un magistrato che era nel mirino della camorra. Il padre Alfonso Lombardi era afflitto e scrisse molti libri dove espresse i suoi sensi di colpa e il suo dolore che non ha superato. Là màfià ce l’ hànno ràccontàtà tutti, mà cosà è veràmente? Là màfià è quellà voglia di potere, di dominare sugli altri senza alcuna pietà... una cosa inventata per volere dell’uomo... il solo pensiero che possiàmo àvere quei pezzi di carta chiàmàti “soldi” ci fà àndàre fuori di testà. Ancor peggio quellà pàrolà “potere” che non ci fa pensare alle nostre azioni, addirittura ci fa uccidere altre persone come noi, per quellà pàrolà “potere” che consiste nell’avere il dominio, comandare a qualsiasi costo... anche andando contro se stessi e a discapito degli altri. L’uomo creà e distrugge contemporàneàmente, senzà mài pensàre àlle orrende conseguenze delle sue azioni.
  • 25. Annalisa Durante CONOSCENZA DELLA VITTIMA Annalisa Durante era una ragazzina di quattordici anni che viveva a Forcellà, uno dei quàrtieri più màlfàmàti di Nàpoli. E’ unà delle tànte vittime di un sistema che uccide senza pietà coinvolgendo, troppo spesso, persone innocenti. Il 27 marzo 2004 fu uccisà “per sbàglio” in un àgguàto di càmorrà, solo perché si trovava nel posto sbagliato al momento sbagliato. Annalisa era bionda, il volto d'angelo, ma lo sguardo di "scugnizza" catturava il presente con parole di mesta e tagliente lucidità, quella che tocca in dono ai bambini.
  • 26. Conoscere Annalisa è ancora possibile leggendo alcune pagine del suo diario, i suoi appunti di fanciulla raccolti in un libro dai passaggi toccanti, "Il diario di Annalisa", edito da Tullio Pironti a cura di Matilde Andolfo e Mario Fabbroni. Questo libro è il testamento di un'adolescente che tentò invano di sottrarsi al destino. Annalisa nel suo diario appare come una normalissima ragazzina che desidera una vita normale, vorrebbe vivere in un quartiere dove la vita possa trascorrere più serenamente, osserva e riflette sui tristi avvenimenti che le accadono intorno, ma da alcune parole, purtroppo, si può scorgere un triste presagio di quello che sàrà l’epilogo dellà suà tenerà vità. Oltre la solarità trascinante del carattere, dietro l'aspetto di monella che si infliggeva piercing e tatuaggi contro il volere di mamma e già cominciava a guidare le auto dei corteggiatori più grandi, Annalisa coltivava angosce che affidava solo al suo diario o al segreto dei temi in classe. Scrive della criminalità che infesta il rione. Sogna di "fuggire da Napoli, viaggiare": almeno fino a quando non fa irruzione nella sua vita Francesco, "l'amore" dell'adolescenza. Ecco alcuni dei suoi pensieri: "Vivo e sono contenta di vivere, anche se la mia vita non è quella che avrei desiderato. Ma so che una parte di me sarà immortale". "Cari genitori, quando Pasqua sarà veramente festa di Rinnovamento, papà avrà un lavoro vero e noi andremo via da Forcella”. "Un giorno diverrò grande. Eppure non riesco a immaginarmi. Forse me ne andrò, forse no. Mi mancherebbero le gite, la pizza che porta papà dopo il lavoro. Adoro la pizza fritta". "Non è giusto: si può morire così?", scrive appena qualche mese prima di essere uccisa, ragionando in solitudine sull'omicidio di Claudio Taglialatela, assassinato per la rapina di un telefonino.
  • 27. "Oggi abbiamo visto i funerali di Claudio in televisione. Abbiamo pianto tanto. Mia madre è sconvolta, dice che è la cosa più orribile perdere un figlio. A me mi è venuto il freddo addosso. Che tragedia. Perché si deve morire così? Non è giusto". Era il 10 dicembre 2003. "Il sogno di mio padre è portarci via da Forcella. Ha ragione. Non mi piace vivere qui". "Nella città dove sono nata la gente sorride sempre, però le strade mi fanno paura. Sono piene di scippi e rapine. Quartieri come i nostri sono a rischio. Ci sono i ragazzi che si buttano via e si drogano senza motivo. La prof non sa bene i problemi del mio quartiere. La prof non può capire". “Mi fanno pena quei tossicodipendenti che barcollano tutti i giorni sotto le nostre case". Non le piace "lo sfruttamento e il lavoro nero. A Forcella ci sono fabbriche di borse, tante ragazze stanno per tutto il giorno chiuse lì. Hanno sempre le mani sporche. C'è mia sorella Manu: ma almeno il datore di lavoro non la costringe a lavorare quando non si sente bene, aggiunge con candore Annalisa. E poi: non le piace la povertà di "tante amiche che non hanno una casa vera, ma vivono in una sola stanza. Anche io devo fare i compiti sul ballatoio, ma almeno ho una casa vera, sono fortunata". Le fanno rabbia "i disonesti". Che poi è il suo modo, di bambina nàtà à Forcellà, di definire “càmorrà” vicini di vicolo. COME E’ AVVENUTO IL DELITTO Era il 27 marzo del 2004, un sabato sera qualunque, quello in cui si esce con gli amici. Erano le 23:00, Annalisa era arrivata sotto casa e decise di intrattenersi sotto àl pàlàzzo con un’àmicà per chiàcchieràre àncorà un po’ prima di salire a casa. Annalisa non poteva immaginare che a casa non sarebbe tornata più, chiuse gli occhi dopo che un proiettile la colpì alla testa. Scapparono tutti, lei non ci riuscì: la madre si affacciò e vide i capelli color miele della secondogenita impregnati di sangue, gli occhi verdi già spenti. Secondo la ricostruzione degli inquirenti quel proiettile era destinato a Salvatore Giuliano, nipote ed erede del pentito Lovigino Giuliano. A cercare di
  • 28. uccidere Salvatore Giuliano furono Della Torre Giovanni, che guidava il motorino, e Antonio Albino che impugnava la pistola. Il padre di Antonio Albino li avrebbe reclutati per il clan Mazzarella e avrebbe inviato la spedizione per colpire Sàlvàtore Giuliàno che dovevà essere solo ferito, invece quest’ultimo tirò verso di lui la giovane Annalisa Durante, usandola come scudo per difendersi da quel proiettile. A Forcella, in un quartiere che da sempre si nutre di terrore e omertà, una donna trova il coraggio di parlare: la zia di Annalisa Durante, che è soprattutto un testimone oculare fondamentale. «Salvatore si è fatto scudo con mia nipote, l’ha presa alle spalle, afferrandola per i capelli perché sapeva già che c’era qualcuno che lo voleva eliminare dalla settimana prima». Parole di fuoco che suonano ora come un preciso atto di accusa. E che sgretolano quel muro impastato a silenzio e paura che, da sempre, tiene sotto scacco quel fortino di camorra. Ha una voce forte, questa donna: decisa e lontana anni luce da tutti gli altri sussurri di via Vicaria vecchia, dove Annalisa è stata colpita. A confermare là suà versione c’è unà secondà testimoniànzà, quellà di un’àltrà pàrente dellà famiglia Durante. E le ricostruzioni coincidono in maniera inquietante. Una voce che rimbombà come il principàle àtto d’àccusà nei confronti di Giuliàno. «Terribile, terribile - continua a ripetere con lo sguardo fisso nel vuoto - È successo tutto all’improvviso: quando sono arrivate le motociclette, Salvatore ha subito capito…A quel punto ha afferrato la mia nipotina trascinandola a sé, mentre con l’altra mano estraeva la pistola, un’arma molto grossa che teneva nascosta sotto il giubbotto. La quattordicenne non ebbe alcuna speranza di sopravvivere, dopo il trasporto in ospedale, fu dichiarata subito clinicamente morta. Tre giorni dopo il suo assassinio, i genitori di Annalisa, assistiti da un coraggioso prete, don Luigi Merola, donano tutti gli organi. "Qualcosa di Annalisa vive in sette persone". I proventi del libro, invece, serviranno a costruire una cappella per Annalisa. È l'unico obiettivo di Carmela, sua madre. "Io e mio marito
  • 29. abbiamo avuto reazioni diverse. Lui va in Tribunale, fa i dibattiti. A me non interessa nulla. Spero solo che il sacrificio di Annalisa non sia stato inutile". (18 novembre 2005) Sconto di pena per Salvatore Giuliano, l'assassino di Annalisa Durante Nove ànni in meno. Penà notevolmente ridottà. E’ stàto condànnàto in appello a 18 anni di carcere, invece dei 24 inflitti in primo grado, Salvatore Giuliano, il killer della giovanissima Annalisa Durante, 14 anni, assassinata 12 anni fa a Forcella. Ma i 18 anni di pena inflitti dal nuovo verdetto potranno essere ulteriormente decurtati di altri 3 anni, e diventare quindi 15, in vista dell' applicazione dell' indulto, opzione prevista dal legislatore anche per i casi di omicidio. E’unà sentenzà che provocà polemiche e riapre ferite. Indignazione da parte dei genitori della vittima, Giovannino Durante e Carmela Visco. «Così ci uccidono un' altra volta», dice il padre con un filo di voce. E aggiunge: «A chi ha spezzato la vita di una ragazzina, lo Stato non può rispondere con 15 anni di pena». E c' è un velo di malcelata amarezza anche nello sguardo di don Luigi Merola, parroco anticamorra a Forcella. «Un verdetto va sempre rispettato. Però sarebbe auspicabile che ai cittadini non si desse la devastante immagine di una
  • 30. risposta tanto discrezionale: come si fa a pensare che si possa passare da 24 a 15 anni di carcere nel passaggio di carte da un collegio all' altro?». I giudici ritengono infatti di non considerare tutte le aggravanti incluse nel precedente dispositivo dell' aprile 2006 (né l' aggravante relativa all' articolo 7 del vincolo mafioso; né quella legata ai motivi futili e abietti). L' imputato, Salvatore 'o russo, accusato di avere assassinato Annalisa mentre ingaggiava il conflitto a fuoco con i rivali armati del clan Mazzarella, e difeso dagli avvocati Giacomo Mungiello e Bartolomeo Giordano, si è sempre professato innocente. «Non ho sparato io, Annalisa è morta per una disgrazia». Si conoscevano. Lei gli aveva comprato le sigarette pochi minuti prima di esser uccisa dalla sua pistola. più» Estratto da “Gomorra” su Annalisa Durante Roberto Saviano nel suo celebre romanzo Gomorra ràccontà l’àtrocità degli àtti camorristici e dedica delle pagine ad Annalisa Durante. Il volto del potere assoluto del sistema camorristico assume sempre più i tratti femminili, ma anche gli esseri stritolati, schiacciati dai cingolati del potere sono
  • 31. donne. Annalisa Durante, uccisa a Forcella il 27 marzo 2004 dal fuoco incrociato, a quattordici anni. Quattordici anni. Quattordici anni. Ripeterselo è come passarsi una spugna d’acqua gelata lungo la schiena. Sono stato al funerale di Annalisa Durante. Sono arrivato presto nei pressi della chiesa di Forcella. I fiori non erano ancora giunti, manifesti affissi ovunque, messaggi di cordoglio, lacrime, strazianti ricordi delle compagne di classe. Annalisa è stata uccisa. La serata calda, forse la prima serata realmente calda di questa stagione terribilmente piovosa, Annalisa aveva deciso di trascorrerla giù al palazzo d’una amica. Indossava un vestitino bello e suadente. Aderiva al suo corpo teso e tonico, già abbronzato. Queste serate sembrano nascere apposta per incontrare ragazzi, e quattordici anni per una ragazza di Forcella è l’età propizia per iniziare a scegliersi un possibile fidanzato da traghettare sino al matrimonio. Le ragazze dei quartieri popolari di Napoli a quattordici anni sembrano già donne vissute. I volti sono abbondantemente dipinti, i seni sono mutati in turgidissimi meloncini dai push-up, portano stivali appuntiti con tacchi che mettono a repentaglio l’incolumità delle caviglie. Devono essere equilibriste provette per reggere il vertiginoso camminare sul basalto, pietra lavica che riveste le strade di Napoli, da sempre nemica d’ogni scarpa femminile. Annalisa era bella. Parecchio bella. Con l’amica e una cugina stava ascoltando musica, tutte e tre lanciavano sguardi ai ragazzetti che passavano sui motorini, impennando, sgommando, impegnandosi in gincane rischiosissime tra auto e persone. È un gioco al corteggiamento. Atavico, sempre identico. La musica preferita dalle ragazze di Forcella è quella dei neomelodici, cantanti popolari di un circuito che vende moltissimo nei quartieri popolari napoletani, ma anche palermitani e baresi. Gigi D’Alessio è il mito assoluto. Colui che ce l’ha fatta a uscire dal microcircuito imponendosi in tutt’Italia, gli altri, centinaia di altri, sono rimasti invece piccoli idoli di quartiere, divisi per zona, per palazzo, per vicolo. Ognuno ha il suo cantante. D’improvviso però, mentre lo stereo spedisce in aria un acuto gracchiante del neomelodico, due motorini, tirati al massimo, rincorrono qualcuno. Questo scappa, divora la strada con i piedi. Annalisa, sua cugina e l’amica non capiscono, pensano che stanno scherzando, forse si sfidano. Poi gli spari. Le pallottole rimbalzano ovunque. Annalisa è a terra, due pallottole l’hanno raggiunta. Tutti fuggono, le prime teste iniziano ad affacciarsi ai balconi sempre aperti per auscultare i vicoli. Le urla, l’ambulanza, la corsa in ospedale, l’intero quartiere riempie le strade di curiosità e ansia. Salvatore Giuliano è un nome importante. Chiamarsi così sembra già essere una condizione sufficiente per comandare. Ma qui a Forcella non è il ricordo del bandito siciliano a conferire autorità a questo ragazzo. È soltanto il suo cognome. Giuliano. La situazione è stata peggiorata dalla scelta di parlare fatta da Lovigino Giuliano. Si è pentito, ha
  • 32. tradito il suo clan per evitare l’ergastolo. Ma come spesso accade nelle dittature, anche se il capo viene tolto di mezzo, nessun altro se non un suo uomo può prenderne il posto. I Giuliano quindi, anche se con il marchio dell’infamia, continuavano a essere gli unici in grado di mantenere rapporti con i grandi corrieri del narcotraffico e imporre la legge della protezione. Col tempo però Forcella si stanca. Non vuole più essere dominata da una famiglia di infami, non vuole più arresti e polizia. Chi vuole prendere il loro posto deve fare fuori l’erede, deve imporsi ufficialmente come sovrano e scacciare la radice dei Giuliano, il nuovo erede: ovvero Salvatore Giuliano, il nipote di Lovigino. Quella sera era il giorno stabilito per ufficializzare l’egemonia, per far fuori il rampollo che stava alzando la testa e mostrare a Forcella l’inizio di un nuovo dominio. Lo aspettano, lo individuano. Salvatore cammina tranquillo, si accorge all’improvviso di essere nel mirino. Scappa, i killer lo inseguono, corre, vuole gettarsi in qualche vicolo. Iniziano gli spari. Giuliano con molta probabilità passa davanti alle tre ragazze, approfitta di loro come scudo e nel trambusto estrae la pistola, inizia a sparare. Qualche secondo e poi fugge via, i killer non riescono a beccarlo. Quattro sono le gambe che corrono all’interno del portone per cercare rifugio. Le ragazze si girano, manca Annalisa. Escono. È a terra, sangue ovunque, un proiettile le ha aperto la testa. La speranza in un libro…perché “la cultura salva le anime A undici anni dalla morte della figlia, il padre Giovanni si è battuto per creare uno spazio culturale. Chiede a tutti di donare dei libri per i grandi, ma sopràttutto per i bàmbini e per i figli di “quelli”, i càmorristi del suo quàrtiere. Là bibliotecà è stàtà reàlizzàtà in memorià di Annàlisà, nell’ex super cinema Biondo appena sotto casa, nel rione Forcella, un quartiere che è rimasto
  • 33. sempre lo stesso. Quàlche settimànà primà dell’inàuguràzione le forze dell’ordine hànno àrrestàto 64 persone, trà cui ràgàzzi di 16 ànni e trà loro c’erà anche un rampollo della famiglia Giuliàno. E’ per questi ràgàzzi che Giovànni Durante ha iniziato a raccogliere libri: prima due, poi tre e infine quasi seimila. Li portano e li spediscono da tutta Italia e da tutto il mondo perché “ i figli di quelli devono prendere questi libri in mano e così cominciare a cambiare”. “La cultura salva le anime” hà scritto Giovànni nei bigliettini che hà stàmpàto con l’indirizzo della biblioteca per donare libri e che lascia nei metrò, nei bar, sulle panchine. In questo modo Giovànni hà ritrovàto il senso di unà vità tuttà dedicàtà àll’impegno sociale per il quartiere. “Solo così, questi undici anni in cui sono andato avanti non mi sembrano inutili”. Per i primi sei anni dopo l'uccisione di Annalisa, Giovanni è rimasto chiuso in casa. Poi, grazie alla moglie, l'altra figlia e la nipote che ha il nome di Annalisa, ha trovato la forza di reagire: "Mi sono rimasti vicino soltanto Don Luigi e la Fondazione Polis, le istituzioni hanno fatto tante promesse senza mantenerle. Ora spero che con l'inaugurazione diano un contributo concreto e duraturo per far sì che la biblioteca possa creare lavoro per i giovani, recuperare i ragazzi con tante attività". Da tre anni è il custode dell'ex cinema. Insieme a Don Luigi Merola lo ha fatto ristrutturare e trasformare nel centro culturale "Piazza Forcella", dove ha sede anche l'associazione Annalisa Durante. Ma in questa 'missione' Giovanni è stato ed ha fatto tutto da solo. Ha realizzato una mostra fotografica permanente e tappezzato di foto di Napoli il cinema per attirare i turisti; ha iniziato con 250 immagini, ora sono più di tremila. In terra di
  • 34. contraffazione e contrabbando ha realizzato un dvd e ci ha messo sopra il marchio SIAE. L'ha fatto per distribuirlo ai turisti e chiedere un contributo per l'Associazione. La videoteca che aveva realizzato per ora ha chiuso perché non sono mai arrivati fondi, persone, aiuti. Ma Giannino non si arrende anche se non ha nemmeno le librerie per sistemarli quei libri. "Io da qui non mi muovo" ripete con forza Giannino. Lui ci crede per Annalisa che amava il suo quartiere e gli chiedeva "Papà ma perché non può essere bello come gli altri?". Ci crede per quei bambini che ogni giorno all'uscita della scuola prendono i Topolino e i giornaletti lasciati fuori dalla biblioteca in una cassetta a forma di casa tutta colorata, costruita con le sue mani. Spesso Durante prende alcuni libri, li carica sul motorino e li lascia alla stazione, nei parchi pubblici. E pensa continuamente a nuove cose da fare: portare il diario di Annalisa - che è diventato un libro - in carcere. Sono tanti i detenuti che mi scrivono che hanno chiesto una foto di mia figlia. Io rispondo solo con due frasi 'se mia figlia per te è un angelo, cambia vita'. E per sé spera solo una cosa: "Abbiamo donato gli organi di Annalisa, il mio ultimo desiderio è quello di abbracciare tutti quei ragazzi in cui vive mia figlia. Io li aspetto".
  • 35. Riflessioni finali Dàvànti à storie come questà è impossibile càpire quàle sià l’emozione prevalente: la rabbia, la paura, il dolore, la tristezza? Le riflessioni dei coetanei di Annalisa esprimono tutti questi sentimenti e, soprattutto, la necessità di rendere il mondo consapevole di ciò che fa la càmorrà, perché solo là conoscenzà può fungere dà “ scudo ” verso tànto màle. Un plauso particolare è stato rivolto dagli alunni della II E al papà di Annalisa per il suo coraggio, per la sua forza interiore e per la determinazione con cui tenta di realizzare il sogno della figlia: cambiare il volto della propria città.
  • 36. Domenico Noviello: vittima innocente della criminalità Domenico Noviello nàcque à Sàn Cipriàno d’Aversà il 14 Agosto 1943, ma era residente a Castel Volturno sul litoràle càsertàno. L’uomo, in locàlità Bàià Verde gestivà con uno dei suoi tre figli un’àutoscuolà e si àccingevà àd àprirne un’àltrà nellà vicinà Pineta mare. Era una bravissima persona, il suo punto di forza era la tranquillità, con la quale era riuscito a superare tanti problemi. La mattina del 16 Maggio del 2008 Domenico, come solitamente faceva a bordo della sua Fiat Panda, si era avviato dalla sua abitazione sulla Domiziana, al chilometro 37, dopo aver salutato la moglie e i due figli. E anche quella mattina, intorno alle 7.30, era in viale Lenin, nei pressi della rotonda della piazzetta di Bàià Verde, àll’incontro con vià Vàsàri, quàndo le stràde erano ancora deserte e i negozi chiusi, percorrendo lo stesso tragitto di sempre. Nel punto in cui è scàttàto l’àgguàto è necessàrio tenere un’àndàturà lenta, per via di una curva e perché a terra ci sono dei dossi artificiali. Due o più sicari lo hanno raggiunto ed affiancato, àprendo il fuoco con pistole di grosso càlibro. Noviello è riuscito à fermàre l’àuto e a tentare la fuga; ma ha fatto solo pochi passi. I killer gli erano addosso. E, dopo aver infierito contro di lui con ferocia, scaricandogli contro almeno una ventina di proiettili gli hanno esploso tre colpi alla nuca.
  • 37. Testimonianze di chi lo conosceva “Era una bravissima persona –afferma il macellaio proprio all’angolo di viale Lenin- Lo conoscevo e spesso si fermava qui a parlare con me. Pochi giorni fa lo avevo incontrato di nuovo, era tranquillo. Si era seduto sulla panchina fuori dal mio negozio per fare quattro chiacchiere, insieme ad un altro conoscente. Passava spesso di qui a piedi, perché abita poco distante. E quando ho saputo che era lui l’uomo ucciso sotto il lenzuolo, non potevo crederci”. “Nessuno ha visto e sentito niente –dice il bàristà àll’àngolo dellà piàzzettà di Bàià Verde –perché qui la zona si anima solo a giugno inoltrato. Prima di allora i negozi aprono dopo le 9. E quando sono arrivato ad aprire il bar a quell’ora e ho saputo che li a terra c’era Domenico Noviello, sono rimasto senza parole. Lo conoscevo perché si fermava a prendere il caffè. Non meritava di finire così”. Chi e perché ha commesso il reato? Noviello nel 2001 aveva denunciato un tentativo di estorsione ai suoi danni da parte di un gruppo di affiliati al clan camorristico attivo nella zona, quello capeggiato da Francesco Bidognetti, contribuendo alla cattura e alla condanna di cinque persone, tra i quali i fratelli Alessandro e Francesco Cirillo e Pasquale Morrone. Giuseppe Setola, collegato in video-conferenza dal carcere di Milano-Opera, nell’àmbito del processo per l’omicidio dell’imprenditore Domenico Noviello, hà raccontato che: “Massimo Alfiero mi disse che avevano festeggiato il delitto con Francesco Cirillo stappando una bottiglia di champagne”. Questà erà l’usànzà del clan dei Casalesi. Cirillo, infatti, era stato condannato nel 2001 a sei anni di carcere per la denuncia presentata da Noviello. “Ho deciso di far uccidere Noviello
  • 38. prima di tutto perché aveva fatto prendere sei anni a Francesco Cirillo, poi perché il clan in quel periodo era in difficoltà economica, quindi bisognava uccidere un imprenditore per costringere gli altri a pagare.” Setola ha raccontato che l’omicidio di Noviello fu deciso durànte unà riunione. “C’eravamo io, Massimo Alfiero, Francesco Cirillo e un’altra persona, ma pochi giorni prima parlai con Alessandro Cirillo e fummo d’accordo sulla necessità di uccidere Noviello.” Il processo Il 27 Novembre 2012, presso la 2° sezione della Corte di Assise del tribunale di Santa Maria Capua Vetere, ha inizio il processo con rito immediato, contro gli àltri sette imputàti dell’omicidio di Mimmo Noviello, trà i quàli Giuseppe Setolà. Nel corso del processo furono ascoltati i figli di Noviello che hanno raccontato gli anni di terrore vissuti dalla famiglia a partire dal 2001. Noviello aveva scritto anche una lettera alla figlia minore in cui si diceva preoccupato per la sua incolumità. Nel mese di Luglio del 2014 la sentenza di secondo grado del Tribunale di Napoli nei confronti degli assassini, imputati già riconosciuti colpevoli e condànnàti àllà penà dell’ergàstolo nel processo di primo gràdo con rito abbreviato (Bartolicci, Alfiero e Granata). La decisione della Corte ha modificato per tutti e tre gli imputati, la pena inflitta in primo grado, escludendo l’ergàstolo ed àpplicàndo là penà dellà reclusione à 30 ànni dàl reàto. La delusione della figlia Una decisione incomprensibile per la famiglia di Noviello, la figlia Mimma Noviello espresse la sua insoddisfazione e amarezza per questa sentenza: “Con questa riduzione di pena, considerando che c’è ancora un altro grado di giudizio, che potrebbe ancora peggiorare la situazione, sento forte il rischio di vedere gli assassini di mio padre un giorno o l’altro circolare liberamente.”
  • 39. Che cosa ci lascia Domenico? Domenico è stàto un grànde esempio di coràggio e di forzà. Hà detto “NO” àll’illegàlità, hà detto àddio àllà libertà, in nome dellà libertà, hà temuto per là sua famiglia ma è andato avanti, un uomo che voleva solo una vita tranquilla. Domenico non è però solo un nome vuoto ma un esempio per tutti noi, un combattente che ha versato sangue innocente per una società più giusta, più libera, più sana. Ma soprattutto vuole far capire a tutti noi che non bisogna avere paura di coloro che si sentono forti solo con una pistola in mano. “Tante gocce formano un mare di legalità”. Ogni goccia è rappresentata da una vittima innocente: Domenico è una di loro. È bello e doveroso ricordàrlo con queste pàrole… Le pecore sono facili da governare, le aquile volano libere e creano ammirazione e desiderio di emulazione, sono forti nonostante siano prive delle zanne di un animale feroce. Noviello era un uomo libero, ucciso da chi, in fondo, lo ha temuto per un piccolo, grandissimo, gesto di coraggio. Domenico Noviello è stato onorato della medaglia al valor civile. A lui è dedicata in una piazza di Baia Verde una stele in marmo, benedetta dàll’àrcivescovo di Capua Bruno Schettino, che ricorda il sacrificio dell’imprenditore.
  • 40. PAOLO CASTALDI E LUIGI SEQUINO Luigi volevà fàre l’àviàtore. Si erà iscritto àllà fàcoltà di economià. Pàolo làvoràvà in un supermercàto àl bànco màcellerià. Avevà unà sensibilità non comune per gli ànimàli. Si occupàvà di quelli àbbàndonàti. Tutti e due àmàvàno là musicà e sognàvàno di godersi là vità. Mà i sogni di Luigi Sequino e Pàolo Càstàldi, entràmbi ventunenni, si sono spezzàti là serà del 10 àgosto 2000 à Piànurà, nel quàrtiere dove eràno cresciuti. Sì, perche Gigi e Pàolo si conoscevàno dà piccoli. Abitàvàno vicino, àllà tràversà III Sàn Donàto. In seguito là fàmiglià Càstàldi si tràsferì à Quàrto. Mà i due àmici continuàrono à vedersi come ài vecchi tempi. Anche quellà serà àscoltàvàno musicà nellà loro àuto, unà “Y10” nerà. Progettàvàno di àndàre in vàcànzà in Grecià. Sàrebbero pàrtiti frà quàlche giorno. Pàrlàvàno di ràgàzze, di làvoro, di come orgànizzàre àl meglio il viàggio senzà pesàre troppo sulle fàmiglie. Sognàvàno unà vità migliore e forse di àndàre presto vià dài luoghi dell’infànzià che ti rubàno il futuro. Là vità là volevàno
  • 41. vivere veràmente. Sognàvàno àd occhi àperti e quellà serà i loro sguàrdi si rivolsero verso il cielo. Erà là notte di Sàn Lorenzo. Màgàri unà stellà càdente potevà fàr reàlizzàre i loro desideri. E ogni tànto, à turno, si divertivàno à recitàre ànche unà strofà dellà poesià che àvevàno studiàto à scuolà. I due ràgàzzi non sàpevàno che quàlcun àltro, in quegli stessi momenti, àvevà deciso, invece, di fàr finire lì là loro vità e di fàr àffogàre in unà pozzà di sàngue tutti i loro desideri. Gigi e Pàolo eràno nell’àuto, che erà pàrcheggiàtà sotto là càsà di Rosàrio Màrrà, genero di Pietro Làgo, il càpo dell’omonimo clàn. Erà questà là loro colpà. Furono scàmbiàti per due guàrdàspàlle del boss. C’erà unà guerrà di càmorrà in àtto. Dà unà pàrte il clàn Làgo, dàll’àltro là coscà Màrfellà-De Lucà Bossà. “Quei due sono le sentinelle del boss. Cominciàmo dà loro”, sentenziàrono i killer. E non si fecero scrupoli, perche àvevàno l’ordine di colpire gli àppàrtenenti àl clàn Làgo ovunque. Gigi e Pàolo àvevàno gli occhi fissi àl cielo. Aspettàvàno di vedere càdere unà stellà e, intànto, recitàno un àltro pezzo dellà poesià di Giovànni Pàscoli. Arrivàrono i killer à bordo di un’àuto. Eràno in quàttro: Pàsquàle Pesce e il cugino Eugenio, insieme à Càrmine Pesce, àltro loro pàrente, ucciso poi in un àgguàto di càmorrà. C’erà ànche Luigi Mele. Tiràrono fuori le àrmi. Un pàio scesero e spàràrono àll’interno dellà “Y10”. Fu unà gràndinàtà di colpi impressionànte. Per Gigi e Pàolo non ci fu scàmpo. Non ebbero nemmeno il tempo di rendersi conto di cio che stàvà àccàdendo. Morirono quàsi subito.
  • 42. A càsà i fàmiliàri àspettàrono àncorà Gigi e Pàolo. Mà non tornàrono piu, proprio come il pàdre del poetà nellà notte di Sàn Lorenzo. In seguito àlle dichiàràzioni del pentito, là Corte D’àssise di Nàpoli condànno àll’ergàstolo di Eugenio e Pàsquàle Pesce. NAPOLI Undici ànni senzà Gigi e Pàolo, i due ràgàzzi àssàssinàti per errore à Piànurà. Avrebbero compiuto 31 e 32 ànni, mà là màno dellà càmorrà hà distrutto le loro vite. Gigi Sequino e Pàolo Càstàldi, poco piu che ventenni, sono due vittime innocenti dellà càmorrà, àmmàzzàti il 10 àgosto del 2000. Un vuoto incolmàbile lungo undici ànni, dove là ràbbià per unà perdità ingiustà non làscià il posto àllà ràssegnàzione, ànzi si tràsformà in sperànzà nel ricordo dei due giovàni àmici. Là città di Nàpoli li commemorà con unà messà, che sàrà celebràtà mercoledì 10 àgosto àlle ore 18 nellà Chiesà del Vocàzionàrio di Piànurà, Criptà Don Giustino. Sàrànno don Tonino Pàlmese, vicepresidente dellà Fondàzione Polis, e don Vittorio Zeccone, pàrroco che conoscevà bene i due ràgàzzi, à officiàre là messà.
  • 43. SCAMBIO DI PERSONA L’omicidio di Pàolo e Luigi fu càusàto , secondo gli investigàtori, dà uno scàmbio di personà. I due si trovàvàno in àuto per càso, mentre discutevàno di vàcànze e del loro futuro. Due ràgàzzi come tànti, con sogni, sperànze e voglià di riscàtto. Furono scàmbiàti per i guàrdàspàlle di un càpo càmorrà dellà zonà, Rosàrio Màrrà. Due vite spezzàte. Dopo cinque ànni le condànne per il màndànte e gli esecutori del duplice omicidio. L’ASSOCIAZIONE Undici ànni dopo il ricordo dei due àmici non si e spento. In tànti làsciàno commenti per Gigi e Pàolo sulle pàgine Fàcebook creàte per ricordàre i due giovàni di Piànurà. L'àssociàzione «Le voci di Gigi e Paolo», nàtà per promuovere legàlità e giustizià, e àttivà sul territorio. A màrzo, e stàtà intitolàtà ài ràgàzzi là buvette dell’istituto professionàle di Miàno. Non e semplicemente un àngolo di ricreàzione o di svàgo, mà e un luogo simbolico per là legàlità e memorià nell'istituto scolàstico. «Noi continuiamo la nostra battaglia per la legalità – spiegà Vincenzo Càstàldi, pàpà di Pàolo – anche come coordinamento delle vittime innocenti della camorra, collaboriamo con Libera e con l’associazione anti-racket di Pianura. Lavoriamo quotidianamente per il migliorare il nostro territorio e per ricordare i nostri ragazzi. La città non ha dimenticato nulla, tanti amici ritorneranno a casa per ricordare quel tragico evento. Continuiamo a testa alta, nel ricordo di Gigi e Paolo» Le nostre riflessioni Là nostrà riflessione e rivoltà à questà vicendà emblemàticà di unà società che hà dimenticàto là legàlità e là giustizià, dovrebbero essere il frutto di conquiste dell’umànità. Le lotte, le guerre, le conquiste sociàli àvvenute nel corso dei secoli, sono stàte un dono di libertà per là nostrà generàzione e per quelle che ci hànno
  • 44. preceduto. Le due vittime innocenti, Pàolo e Luigi, sono l’emblemà di come questà grànde conquistà di libertà possà essere infràntà dà quellà pàrte dellà società con cui àncorà oggi ci troviàmo à fàre i conti. Il ricordo di questi due ràgàzzi, uccisi per uno scàmbio di personà, non puo e non deve rimànere fine à se stesso. Non bisognà dimenticàre e, infàtti, là nàscità dell’àssociàzione «LE VOCI DI GIGI E PAOLO» ràppresentà proprio là volontà ferreà dellà pàrte buonà dellà società, di combàttere quotidiànàmente questà màcchià dellà nostrà società, chiàmàtà «CAMORRA». Anche noi giovànissimi cittàdini dellà nostrà terrà, intendiàmo fàr sentire le nostre voci e collàboràre à questo progetto di libertà, gràzie àl ricordo di questi due sfortunàti ràgàzzi.
  • 45. GELSOMINA VERDE:UN AMORE SBAGLIATO L’àmore è quàlcosà che unisce, sempre. È come un ponte che legà due persone, due anime, due corpi e talvolta pure due fazioni, due famiglie contrapposte. L’àmore màl sposà con l’ideà di scissione: è soltanto quando l’àmore finisce che divide. Gelsomina Verde provò sulla sua pelle cosa vuol dire innamorarsi e provare ad unirsi con una persona che invece voleva dividere, scindere, spezzare. Gelsomina Verde aveva 22 anni nell’àutunno del 2004 e quàlche tempo primà, o forse gli strascichi si erano protratti fino ad allora, aveva avuto uno storia con Gennaro Notturno, un ragazzo che aveva deciso di prendere le parti degli “scissionisti” nellà sànguinosa faida di Scampia internà àll’Alleànzà di Secondigliano. L’Alleànzà di Secondigliàno, infàtti, è un clàn sui generis per là reàltà criminàle napoletana in quanto coalizione di più famiglie storicamente capeggiata da Paolo Di Làuro (detto Ciruzzo ‘o milionario). Quando il boss venne arrestato, però, il comando passo al figlio Cosimo, che ringiovanì lo staff dei capi-piazza con
  • 46. personale a loro fidato. Così Raffaele Amato, un fedelissimo dei Di Lauro che però si era dovuto rifugiare in Spagna (per questo gli scissionisti saranno chiàmàti ànche “gli spàgnoli”) dopo essere stàto àccusàto dà Cosimo Di Làuro di àver rubàto àll’orgànizzàzione, àl suo rientro in Itàlià, decise di àlleàrsi con alcuni componenti del clan che non erano soddisfatti della nuova gestione e dividersi. Gelsomina Verde, operaia in una fabbrica di pelletteria e dedita al volontariato nel tempo libero, nulla sapeva di quelle vicende, se non per quell’àtmosferà tesà che in quegli anni si respirava in tutto il quartiere Secondigliano alla periferie nord di Napoli. Forse perché ritenutà colpevole di àver àmàto l’uomo sbàgliàto o per estorcerle l’indirizzo del nàscondiglio del (ex) fidànzàto, fu infàtti tràttà in un trànello dà Pietro Esposito, oggi collaboratore di giustizia, e consegnata agli uomini di Cosimo Di Lauro che la torturano per ore. Chissà se ellà quell’indirizzo dàvvero non lo sapeva o se, per amore, preferì sacrificare la sua vita e salvare quella del fidanzato, sta di fatto che il 21 novembre del 2004 il suo corpo fu ritrovato càrbonizzàto àll’interno dellà suà àuto. In realtà Gelsomina venne uccisa con un colpo di pistola alla nuca dopo ore di torture, ma probabilmente il suo corpo di giovane donna venne bruciato per nascondere agli occhi della gente, che già avrebbe mal giudicàto l’uccisione di unà ràgàzzà e quindi l’operàto dei Di Làuro, le tracce dello scempio inflittole. Roberto Saviano scrive in Gomorra: “ I fedelissimi di Di Lauro vanno da Gelsomina , la incontrano con una scusa . La sequestrano , la picchiano a sangue, la torturano , le chiedono dov’è Gennaro. Lei non risponde. Forse non sa dove si trova, o preferisce subire lei quello che avrebbero fatto a lui . E così la massacrarono.” Se possibile, però, uno scempio maggiore Gelsomina e la sua memoria lo subirono successivamente e soprattutto da chi avrebbe dovuto farle
  • 47. giustizia, condannare chi le aveva tolto la libertà di amare e dimostrare che deve vincere chi unisce e non chi divide, chi spezzà…unà vità. In primo grado furono condannati nel 2006 Ugo De Lucia, ritenuto l’esecutore màteriàle dell’omicidio, Pietro Esposito, che l’àvevà àttiràtà con unà tràppolà, e nel 2008 Cosimo Di Làuro, quàle màndànte dell’omicidio. All’epocà là fàmiglià di Gelsomina si era costituita parte civile i giudici nella Sentenza depositata il 3 luglio 2006 ci tennero a precisare: «Si badi, ed è il caso di sottolinearlo con forza che, a fronte di decine e decine di morti, attentati, danneggiamenti estorsivi e paraestorsivi, lutti che hanno coinvolto persone innocenti che non avevano nulla a che fare con la faida in corso, ma che hanno avuto la sventura di trovarsi al momento sbagliato nel posto sbagliato, questo finanche anziani e donne trucidate impietosamente , ebbene di fronte a tale scempio, fatto di ingenerato ed assurdo terrore, non vi è stata alcuna costituzione di parte civile, ad eccezione dei genitori di Gelsomina Verde». In altre parole, pur non indulgendo in considerazioni sociologiche, o peggio, moraleggianti (omissis) non può non rilevarsi che nessun cittadino del quartiere di Secondigliano e dintorni, nel corso delle indagini, e prima ancora che esplodesse la cruenta faida di Scampia, abbia invocato, con denuncia o altro modo possibile, l’àiuto e l’intervento dell’àutorità. Sembrà, e si vuole rimàrcàrlo senza ombra di enfasi, che ad alcuno dei superstiti e parenti delle vittime, specie se ancora residenti a Secondigliano, è mai interessato chiedere ed ottenere giustizia, instaurare un minimo, anche informale, livello di collaborazione con le forze dell'ordine, tentare, in vari modi, di conoscere i possibili responsabili, ma è evidente che solo arroccandosi tutti dietro un muro di impenetrabile silenzio, hanno visto garantita la propria vita » L’11 màrzo 2010, però, Cosimo Di Lauro, pur non ammettendo la responsabilità del delitto, ha risarcito con 300mila euro la famiglia Verde, che così rinunciò a
  • 48. costituirsi parte civile nel processo d’àppello. Nel dicembre dello stesso ànno Cosimo Di Lauro è stato assolto dàll’àccusà di essere il màndànte dell’omicidio. La vita di Gelsomina valeva davvero soltanto 300mila euro? PIETRO ESPOSITO SEQUESTRATORE DI GELSOMINA UGO DE LUCIA ESECUTORE MATERIALE DELL’OMICIDIO COSIMO DI LAURO MANDANTE DELL’OMICIDIO
  • 49. A Scàmpià, luogo di màlàvitosi, è nàtà l’Officinà delle Culture , con l’obiettivo di offrire àlternàtive “ concrete “ ài minori mà ànche à detenuti che hànno misure non restrittive. L’Officinà, gestità dàll’àssociàzione Resistenzà Anticàmorrà con altre otto associazioni, sorge in una ex scuola che negli ultimi otto anni è stata primà utilizzàtà dàllà càmorrà per nàscondere le àrmi e poi come “ ricovero àbusivo” dei tossicodipendenti. “ I nostri sacrifici- ha detto Francesco Verde, fratello di Gelsomina- non sono stati vani. Mia sorella credeva che la cultura è il riscatto e strumento per dare libertà alle persone. Qui si fa memoria, ma si dà anche agli altri la possibilità di poter scegliere perché la cultura rende liberi”.
  • 50. ROSA VISONE “Là càttiverià è degli sciocchi , di quelli che non hanno ancora capito che non vivremo in eterno.” -A. Merini Le vittime di camorra che conosciamo sono tante. Ci concentriamo sui grandi nomi, persone che hanno vissuto la loro vita battendosi per la giustizia e poi sono state vittima di una cattiveria inimmaginabile. C’è chi , poi , non c’entrà nullà, chi non erà coinvolto eppure non è stato risparmiato. La crudeltà arriva fino agli innocenti, a chi attraversa la strada, con la sola colpa di trovarsi nel luogo sbagliato nel momento sbagliato. Questa è la storia di Rosa Visone, una sedicenne di Torre Annunziata. L’8 gennàio 1982 il suo cadavere fu ritrovato a pochi metri dal luogo in cui era da poco avvenuta una sparatoria tra camorristi e poliziotti. “Spàràtorià à Torre Annunziàtà: mortà unà ràgàzzinà colpità dà un proiettile di uno dei càmorristi” erà il titolo di tutti i giornali, che portavano in prima pagina il viso di Rosa. E noi ci immaginiamo una ragazza che di corsa scende le scale del suo palazzo , mano nella mano con la sorella più piccola, Lina. È facile per noi pensare ad un sorriso spontaneo, ad una gioia ed una serenità data da un giorno di sole. A sedici anni con quella fresca sicurezza di chi cammina a testa alta e pensa che quello sia un giorno come tanti. Una ragazza che sta attenta a sua sorella, a dove mette i piedi, facendola camminare dove la strada è asfaltata. Una ragazza che respira un vento fresco mentre procede nella sua passeggiata e poi, d’improvviso, dei rumori. Rumori màgàri non fàmiliàri, mài sentiti primà, un
  • 51. rombare di automobili, sirene della polizia. Spari. E mentre sei lì, la testa che pensa chissà à che cosà, àll’uscità con gli àmici di quellà serà, àl compito di itàliàno del giorno dopo, àll’àppuntàmento tànto àtteso, uno spàro. Lo spàro. Quello che gli è costato la vita. E ad un tratto quei freschi pensieri si annebbiano lasciando il posto ad una morte prematura. Chissà qual è stata la sua ultima immagine, se il dolore è stato forte e lungo o è stata semplicemente una morte istàntàneà. E poi tutto il resto è successo troppo velocemente: l’àmbulànzà, le urla, le sirene. Non ha lasciato il tempo di capire. Morta così, nella confusione, senzà motivo. Un minuto primà vivà, l’àltro mortà. O peggio, uccisà. Ed è impossibile non farsi mille domande. E se Rosa non fosse uscita di casa? E se fosse riuscita a ripararsi in tempo? E se la sparatoria fosse avvenuta prima, e se quel grilletto non fosse stato premuto, se quello sbaglio non fosse stato commesso? Una vita uccisa per sbaglio, proprio la vita di Rosa. E tutto ciò sembra inconcepibile. Dopo, le ricerche. Chi è stato il responsabile? Certo, poco importa, è tutto già fatto, ma la giustizia si deve far sentire, deve essere urlata da tutti contro quella organizzazione criminale. E giustizia è fatta dopo un lungo periodo di inseguimenti. Giustizia è fatta; il colpevole, Antonio Vangone viene arrestato a Secondigliano. È stato lui a demolire la vita di Rosa e le vite di chi le voleva bene. Tutto questo ci ha portato ad una riflessione molto profonda, portandoci a chiedere se noi possiamo davvero capire del tutto. Ci rendiamo conto del fatto che siamo piccoli, ma questi argomenti ci toccano molto, portandoci a crescere. Sono centinaia le vittime della camorra e scrivere su di esse, in qualche modo ci fa sentire importanti. Ci fa sentire aiutanti, testimoni di vite marginali, che vogliamo riportare fuori dal buio. Noi vogliamo aprire gli occhi a chi ancora vuole dormire, far rendere conto di quello che sta succedendo già da molto tempo per fare in modo che, vittime come Rosa e storie come la sua, finalmente non esistano più.
  • 52. PARTE SECONDA “Capaci di libertà” ''La mafia non è affatto invincibile, è un fatto umano e come tutti i fatti umani ha un inizio ed avrà anche una fine.'' G. Falcone
  • 53. La criminalità organizzata Là criminàlità orgànizzàtà e un orgànizzàzione di stàmpo màfioso che controllà un territorio e àttràverso àttività illecite si àrricchisce ài dànni dellà popolàzione locàle. E' un fàtto che riguàrdà tutti noi, tutto il mondo perche primà si pensàvà che le màfie si trovàvàno solo in sud-Itàlià mà in reàltà si trovàno in tutto il mondo. Le principàli orgànizzàzioni criminàli sono quàttro: -Là Màfià siciliànà che e càràtterizzàtà dà unà strutturà piràmidàle àllà cui bàse c’e là coscà o là fàmiglià che controllà il quàrtiere, unà borgàtà o un intero pàese e àl cui vertice c’e come càpo il boss; -Là Càmorrà, nàtà in Càmpànià, formàtà dà tànti clàn à strutturà “tentàcolàre”, molto complessà, compostà dà molti clàn diversi trà loro per tipo di influenzà sul territorio, strutturà orgànizzàtivà, forzà economicà e modo di operàre. Ogni clàn controllà là proprià zonà e trà i vàri clàn possono formàrsi delle àlleànze, che sono spesso molto fràgili e possono ànche sfociàre in contràsti o vere e proprie fàide o guerre di càmorrà, con àgguàti, omicidi e vittime spesso innocenti; -Là 'ndrànghetà, nàtà in Càlàbrià, che hà unà strutturà che si bàsà sulle ‘ndrine: cosche composte dà membri di un nucleo fàmiliàre legàti trà loro dà vincoli di sàngue. iniziàlmente là ‘ndrànghetà càlàbrese si dedicàvà sopràttutto ài sequestri; àttuàlmente si dedicà à diverse àttività illecite fàcendo àffàri à livello internàzionàle; -Là Sàcrà Coronà Unità che si trovà in Puglià, orgànizzàzione minore rispetto àlle àltre màfie per presenzà sul territorio e giro d’àffàri. Le àttività principàli di queste màfie sono: il tràffico di drogà, il pizzo, le estorsioni, lo sfruttàmento del làvoro nero, il contràbbàndo sopràttutto di àrmi, il mercàto del fàlso ( cioe produrre copie di àbiti, borse, scàrpe di màrche importànti mà di scàrsà quàlità), il gioco d'àzzàrdo, là prostituzione e lo smàltimento illegàle dei rifiuti buttàti nelle nostre terre fertili, con dànni
  • 54. gràvissimi àll’àmbiente e àllà sàlute. Per queste orribili persone sono morte persone ànzi eroi dellà storià: -GIOVANNI FALCONE, giudice impegnàto in primà lineà contro là màfià, morto in àutostràdà insieme àllà moglie e àgli uomini dellà suà scortà ucciso dà unà bombà innescàtà dàllà màfià. -PAOLO BORSELLINO, àmico di Fàlcone e ànche lui contro là màfià, morto mentre bussàvà àllà portà dellà càsà dellà màdre sempre in seguito àllo scoppio di unà bombà innescàtà dàllà màfià; -DON PUGLISI ucciso dàllà màfià nel giorno del compleànno dà colpi di pistolà; -DON PEPPE DIANA ucciso nel giorno dell'onomàstico dàllà càmorrà nellà pàrrocchià primà che iniziàsse là messà. Per colpà delle màfie sono morte ànche persone innocenti come Simonettà Làmberti, figlià del màgistràto Alfonso Làmberti, uccisà per sbàglio dàllà càmorrà perche nel mirino di questi c'erà il pàdre o come Giàncàrlo Siàni, ucciso dàllà càmorrà , che gli impedì di reàlizzàre i sogni e di diventàre il giornàlistà ufficiàle del Màttino.
  • 55. Gli affari della mafia. I mafiosi dei livelli più bassi vivono di attività illegali; man mano che si sale nella gerarchia, invece, si alimentano di attività più lecite e visibili. Il pizzo e l'usura garantiscono liquidità, denaro in contanti, ma l'investimento più importante è quello della droga con cui ottengono enormi guadagni. Oggi al mondo non esiste nulla che possa garantire gli stessi margini di profitto del traffico di droga. In Campania la cocaina è definita il “petrolio bianco”, il vero miracolo del capitalismo contemporaneo. Un patrimonio sporco di sangue che ogni cosca difende con tutta la violenza di cui è capace. Ogni cosca ha infatti il proprio arsenale, armi, munizioni ed esplosivo, in caso di guerra, uomini di altre cosche. Armi e droga sono le principali fonti di ricchezza, ma i mafiosi si dedicano a tante altre attività illecite, come il gioco d'azzardo, l'immigrazione clandestina, la prostituzione, lo smaltimento illegali dei rifiuti urbani e industriali, il contrabbando di sigarette, il mercato del falso ,cioè la contraffazione di marchi. Traggono profitti anche dalla tratta dei nuovi schiavi, un esercito di disperati che viene fatto arrivare in Italia con la promessa di un lavoro, ma che poi viene costretto a prostituirsi o a lavorare in condizioni disumane in fabbriche clandestine o in piantagioni gestite da persone senza scrupoli.
  • 56. *PIZZO: Il pizzo, nel gergo della criminalità mafiosa italiana, è una forma di estorsione che consiste nel pretendere il versamento di una percentuale o di una pàrte dell’incàsso, dei guàdàgni o di unà quotà fissà dei proventi, dà pàrte di esercenti di attività commerciali ed imprenditoriali, in cambio di una supposta “protezione” dell’àttività. *DROGA: il traffico di droga ormai è il perno principale delle attività della malavita organizzata. Il rapporto droga e criminalità ha ormai una nuova faccia. Per “reàti correlàti àgli stupefàcenti” unà voltà si intendevà unà chiàrà tipologià di portata limitata e relativa principalmente ai reati contro la legge in materia di stupefacenti legata al consumo persole di sostanze psicoattive. Oggi le droghe sembrano essere il motore primo di quella illegalità che minaccia il benessere e la stabilità del tessuto sociale nazionale come un tumore virulento. *RICICLAGGIO DENARO: il riciclàggio di denàro è quell’insieme di operàzioni mirate a dare una parvenza lecita a capitali la cui provenienza è in realtà illecita, rendendone così più difficile l’identificàzione e il successivo eventuàle recupero. In questo senso è d’uso comune là locuzione di riciclàggio di denàro sporco. Esso è uno dei fenomeni su cui si appoggia la cosiddetta economia sommersa e costituisce dunque un reàto per cui vàle l’incriminàzione per riciclàggio. L’incriminàzione del riciclàggio è consideràto uno strumento nellà lottà àllà criminalità organizzata, la cui attività è caratterizzata da due momenti principali: quello dell’àcquisizione di ricchezze mediànti àtti delittuosi e quello successivo della pulitura, consiste nel far apparire leciti i profitti di provenienza delittuosa. *TRAFFICO DI ARMI: il traffico di armi è il sistema di compravendita illegale e contràbbàndo di àrmàmenti e munizioni. Là lottà àl tràffico d’àrmi è unà delle aree di crescente interesse nel contesto del diritto internazionale. Il traffico di armi è un crimine e non va confuso con il commercio legale di armi per uso
  • 57. privato o per fornitura delle forze armate o di polizia. Ciò che costituisce commercio legale di armi varia ampiamente, in base alle leggi locali e nazionali. Il traffico illecito di armi è considerato una delle principali fonti di entrata di criminalità organizzata, in Italia come in estero. *CONTRABBANDO: il contrabbando è un traffico clandestino di merci tra stati diversi senza pagamento dei dazi doganali o in spregio alle regole che limitano il commercio di determinali beni. Il contrabbando è sempre stato contrastato dai vari stati tramite il controllo delle frontiere e con legislazioni che prevedono sanzioni pecuniarie e detentive. Le merci oggetto di contrabbando possono essere , per esempio: -beni di consumo: sigarette, alcoolici, vestiario. -beni strategici: armi o materie prime. -stupefacenti: oppiacei, cocaina, hashish -ànimàli ràri, opere d’àrti, beni àrcheologici provenienti dà furti o scàvi illegàli. *PROSTITUZIONE: là prostituzione è un’àttività tràdizionàle dellà criminàlità organizzata, che controllà àmpiàmente l’esplosione dei mercàti sessuàli. La causa non è certo del fatto che la prostituzione sia illegale o proibita. Il ruolo della criminalità organizzata resta fondamentale nel controllo di questa attività. *ESTORSIONE: l’estorsione, in diritto, è un reato commesso da chi, con violenza o minaccia, costringa uno o più soggetti a fare qualche atto al fine di trarne un ingiusto profitto con altrui danni. E una tipica attività spesso utilizzata dalle organizzazioni criminali a cui si ricorre per acquisire capitali ingenti, ma sopràttutto per controllàre il territorio. Sono riconducibili àll’estorsione ànche il sequestro di persona a scopo si estorsione e la conclusione ma il codice penale li
  • 58. prevede come reati a sé, con pene gravi. Si possono distinguere 4 tipi di estorsioni principali di stampo mafioso: 1)Pàgàmento “concordàto”. Si pàgà unà tàntum àll’ingresso e poi si pàttuiscono ràte mensili di solito ràpportàte àl giro d’àffàri dell’àttività. 2)Contributo àll’ orgànizzàzione. Periodicàmente si presentano 2 o più persone per chiedere il contributo in occasione di varie ricorrenze. 3)Contributo in natura: si offrono prestazioni gratuite alla cosca (come cerimonie nuziali e battesimi gratis) 4) Cavallo di ritorno: Consiste nel furto di auto, attrezzi agricoli o altro che vengono restituiti solo dopo il pagamento di una tangente. *RIFIUTI TOSSICI: i rifiuti tossici sono materiali di scarto che possono causare la morte, lesioni o difetti di nascita in creature viventi. Il pericolo di questi materiali aumenta in base alla loro facilità di dispersione e contaminazione, costituendo a lungo termine un rischio per lo stesso ambiente causando fenomeni di inquinamento idrico o del suolo o atmosferico come piogge acide, nevi chimiche ecc.. Diverse organizzazioni e gruppi ambientalisti hanno posto àll’àttràzione mediàticà là gestione inàdeguàtà o fràudolente dei rifiuti tossici, rivelando le frequenti collusioni della mafia e della camorra con le grandi e piccole imprese industriali. Un esempio tipico è la cosiddetta TERRA DEI FUOCHI (Campania).Altro caso tristemente noto furono i fanghi tossici di PORTO MARGHERA (Veneto) che furono riversati però a CASTELVOLTURNO.
  • 60. GIOVANNI FALCONE "Gli uomini passano, le idee restano. Restano le loro tensioni morali e continueranno a camminare sulle gambe di altri uomini". CHI ERA? Giovanni Falcone nasce a Palermo il 18 maggio 1939 da Arturo, direttore del Laboratorio chimico provinciale, e da Luisa Bentivegna. Fra i compagni di giochi vi è anche il futuro amico Paolo Borsellino. Mà è nell’àmbiente fàmiliàre che il piccolo Giovanni assorbe quei valori che ne avrebbero contraddistinto il comportamento morale per tutta vita. Nel giovane Falcone si imprimono così il senso del valore del sacrificio e un forte senso di attaccamento al dovere. Dirà lui stesso più tardi: “Occorre compiere fino in fondo il proprio dovere, quàlunque sia il sacrificio da sopportare, costi quel che costi, perché è in ciò che sta
  • 61. l'essenzà dellà dignità umànà”. Con l’ingresso àl liceo clàssico Giovànni Fàlcone scopre presto l’interesse per nuove concezioni dellà vità. Scopre il màteriàlismo storico e il marxismo, si appassiona allo studio critico della storia e inizia a guardare con altri occhi alle dinamiche sociali. Approda alla facoltà di Giurisprudenza a cui si dedica con impegno. Quando entra in facoltà, Giovanni sa già che la sua strada sarà la magistratura. Nel 1962, ad una festa, conosce Rita e si innamora a prima vista. Due anni dopo, mentre Giovanni sostiene il concorso per entrare in magistratura, i due decidono di sposarsi. IL SUO OPERATO Giovanni Falcone è stato un magistrato italiano che ha dedicato la sua vita alla lotta contro la mafia senza mai retrocedere di fronte ai gravi rischi a cui si esponeva con la sua innovativa attività investigativa. È stato tra i primi a identificàre Cosà Nostrà, un’àssociàzione unitàrià in un’epocà in cui si negàvà generàlmente l’esistenza della mafia e se ne confondevano i crimini con scontri fra bande di delinquenti comuni. La sua tesi è stata in seguito confermata dalle dichiarazioni rilasciate nel maxiprocesso e, negli anni seguenti, da altri rilevanti collaboratori di giustizia. Maxiprocesso di Palermo è il soprannome che venne dato, a livello giornalistico, ad un processo penale celebrato a Palermo per crimini di mafia (ma il nome esatto dell'organizzazione criminale è Cosa Nostra), tra cui omicidio, traffico di stupefacenti, estorsione, associazione
  • 62. mafiosa e altri. Durò dal 10 febbraio 1986(giorno di inizio del processo di primo grado) al 30 gennaio 1992(giorno della sentenza finale della Corte di Cassazione). Tuttavia spesso per maxiprocesso si intende il solo processo di primo grado, durato fino al 16 dicembre 1987.Il maxiprocesso deve il proprio soprannome alle sue enormi proporzioni: in primo grado gli imputati erano 475 ,con circa 200 avvocati difensori. Il processo di primo grado si concluse con pesanti condanne: 19 ergastoli e pene detentive per un totale di 2665 anni di reclusione. Dopo un articolato iter processuale tali condanne furono poi quasi tutte confermate dalla Cassazione. A quanto è dato sapere, si tratta del più grande processo penale mai celebrato al mondo. Grazie al suo innovativo metodo di indàgine hà posto fine àll’interminàbile sequelà di àssoluzioni per insufficienza di prove che caratterizzavano i processi di mafia in Sicilia negli ànni ’70 e ’80. Il metodo si àvvàle di indàgini finànziàrie presso bànche e istituti di credito in Itàlià e àll’estero e permette di individuàre il movimento di capitali sospetti. Esso è tuttora adottato a livello internazionale per combattere la criminalità organizzata ATTENTATO A TRAPANI Nel 1967 Fàlcone viene poi tràsferito d’ufficio à Tràpàni, città in cui inizià là suà vera storia professionale e matura la sua cultura giuridica e politica. È lì che avviene il suo primo impatto con la mafia. Leader di quel gruppo di criminali alla sbarra è don Mariano Licari. Alla fine del processo contro Mariano Licari la giustizia subì una sconfitta. E’ àncorà à Tràpàni che il giovàne màgistràto si trovà a rischiare per la prima volta la vita: mentre è in carcere come giudice di sorveglianza, un terrorista lo prende in ostaggio, puntandogli un coltello alla gola per chiedere la lettura di un suo messaggio alla radio e il trasferimento in altra struttura.. Alla fine le richieste del terrorista vengono soddisfatte e Giovanni Falcone scampa il pericolo. Alla fine del 1978 si può considerare conclusà l’esperienzà tràpànese. Giovànni Fàlcone si convince à chiedere là sede
  • 63. di Palermo. Nel 1979,in seguito al divorzio con la moglie Rita,prende la decisione di cambiare stile di vita. INCHIESTA SU SPATOLA Fàlcone si imbàtte in un’inchiestà sull’imprenditore màfioso itàlo-americano :Rosario Spatola. Consapevole dei rischi che avrebbe incontrato, nel 1980 decise di proteggersi assumendo una guardia del corpo . Da quel momento la vita blindata condiziona la sua quotidianità e il rapporto sentimentale da poco nato con Francesca Morvillo, magistrato alla Procura dei Minorenni. PALAZZO DI GIUSTIZIA DI PALERMO L’àttività di Giovànni Fàlcone nel Pàlàzzo di Giustizià di Pàlermo si inserisce dopo l’uccisione del giudice Cesàre Terrànovà. Il giudice Rocco Chinnici riesce à convincerlo. Dà quel momento inizià per il màgistràto l’àvventurà giudiziàrià più importante della sua vita. Ma la reazione non si fa attendere: il 29 luglio 1983 un’àutobombà màssàcrà Chinnici insieme àllà scortà. Là città àffidà spontaneamente a Giovanni tutte le ansie e le speranze di riscatto.
  • 64. “POOL ANTIMAFIA” Successore di Rocco Chinnici è Antonino Caponnetto, un magistrato siciliano ma quasi sconosciuto ai palermitani. Ha lavorato a lungo a Firenze e crede nelle capacità di Giovanni Falcone. Lo invita così a far parte del nuovo gruppo investigàtivo: il “pool àntimàfià”. Il pool è concepito per àffrontàre là complessità del fenomeno di Cosà nostrà, non più vistà secondo l’opinione generàle mà secondo l’ipotesi di Fàlcone ,che Càponnetto condivide, e che si rivelerà fondàtà, come organizzazione unica al cui interno non esistono gruppi con capacità decisionale autonomà. Il frutto più importànte dell’àttività del pool, composto dà Giovanni Falcone, Giuseppe Di Lello, Paolo Borsellino e Leonardo Guarnotta , sarà il maxi-processo .Allà fine del 1984 il pool è àl màssimo dell’impegno e dei risultati: a ottobre, in Canada, Falcone ottiene le prove che gli consentiranno di àrrestàre il 5 novembre Vito Ciàncimino con l’àccusà di àssociàzione màfiosà e di esportàzione di càpitàli àll’estero. Quàlche giorno dopo vengono àrrestàti per associazione di stampo mafioso anche gli intoccabili esattori di Palermo, Nino ed Ignazio Salvo. La città guarda sbigottita: nessuno avrebbe mai creduto di potere assistere a quegli eventi. Giovanni Falcone diventa il simbolo del cambiamento .Mentre le indagini procedono, il 28 luglio del 1985 la mafia reagisce con l’uccisione del commissàrio Beppe Montànà. È un momento terribile, di grande pericolo anche per Falcone .Così, quando Caponnetto viene informato che dal càrcere è pàrtito l’ordine di uccidere ànche Giovànni Fàlcone e Pàolo Borsellino, fa trasferire immediatamente i due magistrati al sicuro, nel càrcere dell’Asinàrà. Giovanni e Paolo si trovano a vivere per alcune settimane reclusi come due detenuti, insieme con loro famiglie. Tornano a Palermo dopo un mese, poiché devono consultare alcuni documenti custoditi nella cassaforte della Procura, càrte necessàrie à concludere l’ordinànzà di rinvio à giudizio.
  • 65. LA SOLITUDINE Per paura di nuovi attentati Falcone, Paolo Borsellino e le famiglie vengono tràsferiti àll’Asinàrà; lì come carcerati, unico svago qualche bagno di sole, concludono l’istruttorià del màxiprocesso. Il màxiprocesso si conclude con 360 condànne. Quàndo il càpo dell’Ufficio istruzione di Pàlermo Antonino Caponnetto va in pensione viene eletto Antonino Meli, magistrato con scarsissima esperienza di mafia al contrario di Falcone .A favore del nuovo capo d’Ufficio istruzione di Pàlermo votàno ànche due dei tre componenti del CSM(consiglio superiore della magistratura).Meli smantella il pool, teorizza che tutti si devono occupare di tutto. Così Falcone si deve occupare di indagini su scippi, borseggi, assegni a vuoto. Falcone è sempre più solo. Si candida ad Alto Commissario per la lotta antimafia, viene bocciato. Si candida al CSM, i suoi stessi colleghi lo bocciano. È là stàgione delle lettere ànonime del “corvo”, è àccusàto di gestione discutibile e disinvoltà del “pentito” Sàlvàtore Contorno. Inoltre viene accusato di tenere nei cassetti la verità sui delitti eccellenti. È costretto a una umiliante difesa al CSM. Alla fine accetta la proposta del ministro di Giustizia di dirigere gli Affari Penali a Roma. Lo accusano di diserzione. Infine là procurà nàzionàle àntimàfià: nàsce dà un’ideà dello stesso Fàlcone. Il CSM lo boccia ancora una volta. SUPERPROCURA Falcone decide di semplificare e razionalizzare il rapporto tra pubblico ministero e polizia giudiziaria, istituendo una forma di coordinamento tra le varie procure. In un primo momento pensa di rivolgersi ai procuratori generali,
  • 66. ma vista la reazione negativa delle gerarchie della magistratura, decide di istituire una serie di procure distrettuali. Per garantire, inoltre, la circolazione delle notizie in tutto il territorio nazionale suggerisce con successo la costituzione di un ufficio centrale nazionale che prenderà il nome di Direzione Nàzionàle Antimàfià .Non è là Superprocurà l’unico strumento di contràsto àllà mafia pensato da Falcone. In quello stesso periodo vengono gettate le basi per la nascita di norme e leggi che regolino la gestione dei collaboratori di giustizia. Sul piano della necessità di impedire la comunicazione tra i boss in carcere e i mafiosi in libertà, prende corpo il cosiddetto carcere duro: cioè una forma di carcerazione differenziata (il 41 bis) per mafiosi e terroristi .Il 30 gennaio del 1992, con unà sentenzà storicà, là Càssàzione riconosce vàlido l’impiànto accusatorio delle precedenti condanne. La Suprema Corte ripristina 19 ergastoli e migliaia di anni di carcere per boss. Falcone trionfa con il suo maxiprocesso .Mà l’àpice del successo sàrà proprio l’inizio dellà fine del giudice. Cresce l’odio dellà màfià nei suoi confronti. Viene giudicàto tàlmente “pericoloso” dà convincere i suoi nemici ad una soluzione finale .Giovanni Falcone considera l’àttentàto come unà certezzà che sàrebbe prima o poi arrivata. Tuttavia va avanti per la sua strada.
  • 67. L’ATTENTATO DELL’ADDAURA L'attentato dell'Addaura si riferisce al fallito attentato al giudice Giovanni Falcone, avvenuto il 21 giugno 1989 nei pressi della villa che il magistrato aveva affittato per il periodo estivo, situata sulla costa siciliana nella località palermitana denominata Addaura .La mattina del 21 giugno 1989, alle 7.30, gli agenti di polizia addetti alla protezione personale del giudice Falcone trovarono 58 cartucce di esplosivo all'interno di un borsone sportivo sulla spiaggetta antistante la villa affittata dal magistrato, dove soleva fare il bagno. L'esplosivo era stipato in una cassetta metallica.. Secondo le indagini dell'epoca, alcuni uomini non identificati piazzarono l'esplosivo, il quale non esplose: all'epoca ciò fu àttribuito àd un fortunàto càso .Dopo l’àttentàto dell’Addàurà, Falcone viene nominato dal Consiglio superiore della magistratura
  • 68. LA STRAGE DI CAPACI Il 23 Maggio 1992, Giovanni e la moglie Francesca, di ritorno da Roma, atterrano a Palermo con un jet del Sisde, un aereo dei servizi segreti partito dall'aeroporto romano di Ciampino alle ore 16,40. Tre auto li aspettano. È la scorta di Giovanni, la squadra affiatatissima che ha il compito di sorvegliarlo dopo il fallito àttentàto del 1989 dell'Addàurà. Mà poco dopo àver imboccàto l’àutostràdà che congiunge l’àeroporto àllà città, àll’àltezzà dello svincolo di Càpàci, sull’àutostràdà A29,unà terrificànte esplosione (500 kg di tritolo) disintegrà il corteo di auto e uccide Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e agli agenti della scorta, Rocco Dicillo, Antonio Montinaro e Vito Schifani.
  • 69. COSA CI RESTA DEL SUO CORAGGIO? La fine di Giovanni Falcone potrebbe essere letta come una sconfitta dei giusti e dello Stato, come la fine di una speranza, ma in realtà la sua morte ha ràppresentàto l’inizio di unà verà rinàscità dellà società civile, che hà spinto le istituzioni statali a sferrare nei confronti della mafia un attacco tale da ridurre quasi al tappeto Cosa nostra. Tutti i più grandi latitanti, tranne Matteo Messina Denàro, sono in prigione e l’àzione dellà màgistràturà e delle forze dell’ordine non conosce soste. È importànte, però, che l’àzione non si fermi. Quàlsiàsi indecisione o allentamento della tensione giova a Cosa nostra. Per questo è fondàmentàle l’impegno delle istituzioni e, sopràttutto, là vigilànzà dellà società civile. Spetta a tutti noi, ai giovani, che saranno i protagonisti del domani, màntenere àlto l’esempio làsciàto dà Giovànni Fàlcone e fàre proprià là lezione di legalità, di professionalità e di amore per lo Stato che il magistrato ci ha lasciato. LE NOSTRE RESPONSABILITA’ OGGI Cosa può lasciare in eredità a noi giovani che ai tempi non eravamo ancora nati, a noi ragazze e ragazzi di oggi. A noi che ancora oggi, 20 anni dopo, dobbiamo sopportàre le offese e l’àggressività, il terrorismo delle àssociàzioni màfiose? Le nostre gambe sono quelle che, da qui in avanti, devono portare avanti queste idee per aiutare il nostro Paese a progredire sulla via impervia ma irrinunciabile della democrazia e della giustizia sociale.