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Luigi Cancrini e il lavoro con le psicosi
Valentina Albertini, CSAPR 14.04.2017
Un pensiero in evoluzione
Il pensiero sistemico relazionale intorno alle psicosi
ricorda l’evoluzione della pianta di una città: con il
trascorrere del tempo, a partire da nuclei che restano
immutati, si abbattono mura, altre se ne costruiscono, il
confine si allarga, cambiano strade e paesaggi.
Ogni città riceve la sua forma
dal deserto a cui si oppone.
I. Calvino
Due filoni di ricerca clinica sono all'origine dell'approccio sistemico alle psicosi:
1. gli studi psicodinamici sulle famiglie dei pazienti psicotici che fioriscono negli Stati Uniti
negli anni '50 con le ricerche di Lidz, Bowen, Wynne, Boszormenyi-Nagy e Framo;
2. gli studi sulla comunicazione nelle famiglie degli schizofrenici avviati dal gruppo di Bateson
con l'ipotesi del doppio legame.
“Negli anni ‘60 Bowen ricovera nel suo reparto psichiatrico intere famiglie, Jackson teorizza
esplicitamente la necessità terapeutica di allontanare sistematicamente i pazienti dalle loro
famiglie (1965). In questo senso ancora più radicali sono gli esponenti dell'antipsichiatria
(Ronald Laing e David Cooper).”
(Selvini M.)
Le origini del pensiero sistemico
Negli anni Settanta-Ottanta, i terapeuti sistemici
cercheranno di contrastare una simile
negatività che percepiscono come antiterapeutica:
Cancrini, in analogia con la lettura marxista,
sottolinea l'involontarietà dei comportamenti di
chi è “imprigionato” in certe leggi del sistema
(Cancrini, 1977).
Selvini Palazzoli teorizzerà la
"connotazione positiva" dei comportamenti sia
del paziente che dei familiari.
“Purtroppo tutto ciò non è sufficiente a correggere
l'errore di fondo: per molti anni i terapeuti
familiari, un po’ come Topolino nella celebre
versione disneyana dell'apprendista stregone,
si affanneranno per prosciugare l'allagamento
(colpevolizzazione) che essi stessi
hanno provocato e continuano a provocare!”
(Selvini, M.)
“La (ipotesi) più consistente dal punto di vista tecnico e la più utile dal punto di vista
terapeutico appare, ancor oggi, quella legata all’incompletezza dei suoi [del paziente] processi
di individuazione. Nella famiglia a transazione schizofrenica, infatti, ciò che accade di
verificare abitualmente è un’incertezza diffusa dei confini dell’Io, con scambi continui di
emozioni, sentimenti, desideri, aspettative fra i suoi membri e con l’impressione clinica, per
colui che ne considera l’interazione complessiva, di una frammentazione dell’Io individuale a
favore di un grande Io collettivo” (1991)
Il vaso di Pandora
“La città non dice il suo passato,
lo contiene come le linee d’una
mano, scritto negli spigoli delle
vie, nelle griglie delle finestre,
negli scorrimano delle scale,
nelle antenne dei parafulmini,
nelle aste delle bandiere, ogni
segmento rigato a sua volta di
graffi, seghettature, intagli,
svirgole.”
I. Calvino
Il trentennio Settanta-Novanta è caratterizzato dal consolidamento
ed insieme dalla crisi della psicoterapia della psicosi (Selvini M.).
La terapia familiare si diffonde soprattutto nei servizi psichiatrici: molti psichiatri
negli anni '70-'80 si formano in questo senso. Il filone della psichiatria sociale o
democratica (Basaglia, 1968) resta molto importante, specialmente in Italia.
Dagli anni ‘70 ai ‘90
Nasce l’approccio psicoeducazionale
(Leff e Vaughn) che riprende alcuni temi
fondamentali dell'approccio sistemico:
il coinvolgimento dei familiari nel
trattamento, il tipo di comunicazione
familiare.
Ma per contrastare il rischio della
colpevolizzazione dei familiari, viene
messo l'accento sulla schizofrenia come
malattia biologica
In generale un approccio
psicoterapeutico alla psicosi non sfonda,
mentre al contrario questo trentennio vede
avanzare l'associazione tra terapie
biologiche e terapie cognitive
Dagli anni ‘70 ai ‘90
“Il modo in cui i disturbi psichiatrici
maggiori si collegano a forme diverse di
disturbi di personalità può essere
presentato, ancora oggi, come un problema
cruciale della moderna psicopatologia”
(Cancrini, De Gregorio 1997)
“Il disturbo schizofrenico può presentarsi
almeno in due modi:
a) in forma di storia personale
sfortunata ma ricostruibile e
caratterizzato, in linea di principio, da
una certa reversibilità: con un decorso
clinico per crisi, separate da fasi di
remissione che si lega più spesso a quella
della forma paranoidea (o della catatonia
periodica) confondendosi a volte con
quello della psicosi ciclica
b)in forma di storia personale che si
allontana in modo apparentemente
inesorabile da quella degli altri esseri
umani; con spazi ridotti di
comprensibilità e con margini molto
ridotti di curabilità, con un decorso
clinico che ricalca, più spesso, quello
caratteristico della forma ebefrenica o
ebefreno-catatonica” (Cancrini, De
Gregorio 1997)
Errore storico dell'approccio sistemico alla psicosi è stato quello di basarsi su una troppo
radicale normalizzazione del paziente. Il principio di competenza secondo il quale il
paziente è attivo e strategico nell'uso dei suoi sintomi (Selvini Palazzoli et al., 1988)
collude con una controproducente negazione della sofferenza e del deficit.
Al contrario la terapia delle psicosi deve, come ogni psicoterapia, aiutare il paziente a
conoscere meglio se stesso, ed aiutare i familiari a conoscere meglio il paziente. Tuttavia,
nel campo delle psicosi, questo può non essere possibile, o non esserlo in prima battuta.
Selvini M.
Esiste una omogeneità di fondo dell'area
delle psicosi: un analogo ed affine
intrecciarsi di fattori patogeni di tipo
biologico, psicologico e sociale
Complessivamente l'elemento fondamentale
è proprio dato dalla co-presenza non
integrata di tratti del tutto eterogenei:
”Possiamo così riscoprire l'esistenza di
un'acuta intuizione nel termine stesso di
"schizofrenia" (mente divisa) così come in
tutta la tradizione psicoanalitica che ha
parlato di "frammentazione" dell'Io” (Selvini
M.)
Un punto su cui riflettere come terapeuti
sistemici riguarda il fatto che la terapia
familiare nasce negli USA intorno a due filoni
di esperienze:
– Neuropsichiatri infantili (Minuchin)
– Schizofrenie (Bateson,Bowen) in cui il punto è
quello per cui il disordine comunicativo del
paziente è un pezzo del disordine di tutta la
famiglia. In famiglia, molti comportamenti del
paziente schizofrenico acquistano senso
A che punto siamo oggi?
Tutto l’entusiasmo legato al comprendere e il considerare il
paziente come un pezzo del sistema non ha corrisposto poi, nel
tempo, a una totale capacità trasformativa del sistema. A livello
terapeutico, questi trattamenti sono stati in larga parte insuccessi.
Anche il modello di “Paradosso e controparadosso” ha dimostrato
che la comprensione in seduta non corrisponde poi ad una
guarigione.
La diagnosi di psicosi, se fatta da terapeuti esperti in grado di
differenziare la “sclerata momentanea” o la crisi legata ad una
forte fase di stress, è una diagnosi che descrive un processo
insidioso che cresce nel tempo. Ci vogliono più casi di
allucinazioni per avere una diagnosi di schizofrenia.
Citazione del libro “Recovery. Nuovi paradigmi per la salute
mentale” di Maone e D’avanzo:
In inglese “guarigione” si traduce con “Full recovery”.
Per “Recovery” si intende più il recupero di una situazione
accettabile. Aiutare il paziente a vivere nella migliore situazione
possibile con le sue risorse.
E’ importante differenziare il delirio nelle situazioni acute
dalle psicosi.
Kernberg scrive che ci sono pazienti che uscendo dal
delirio acuto rientrano in una normale organizzazione
nevrotica.
Altri tipi di crisi psicotiche interrompono una traiettoria più
borderline, ad esempio le cosiddette doppie diagnosi.
Quando i pazienti escono dal delirio, mantengono
caratteristiche di un disturbo di personalità importante.
In questi due casi, è possibile per il terapeuta dare un senso
al delirio, tentare interpretazioni, restituire un significato a
ciò che avviene e spesso anche al contenuto del delirio
stesso.
Ci sono poi un terzo tipo di pazienti con deliri che poi si
concretizzano sui contenuti e diventano stabili.
Questo terzo tipo di persone non è accessibile alla
psicoterapia nei modi in cui noi la intendiamo: sono
strutture psicopatologiche non avvicinabili dal nostro
modello in quanto è impossibile creare un’alleanza
terapeutica.
In queste situazioni, il crinale è il percorso di accettazione
della terapia farmacologica
1. Il lavoro si muove “nelle frontiere dell’IO” (Paul Federn). Il
terapeuta sta su temi concreti, non segue le fantasie.
I fantasmi non si evocano e non si esorcizzano “perché quando il
paziente ti espone al delirio il rapporto è bruciato” Il paziente che
viene seguito nel delirio è come se si sentisse “tradito” dal terapeuta.
“La psicosi è senza tempo”: gli avvenimenti che restano nella
memoria vengono ricordati con intensità e precisione.
Di fronte a questo tipo di psicopatologie meglio quindi muoversi sul
principio di realtà, perché ciò che il terapeuta fa quando interpreta è
entrare nella mente del paziente.
Alcuni elementi per il lavoro con pazienti psicotici gravi
2. Per favorire il lavoro sulle frontiere dell’io, se il
paziente ha difficoltà a seguire, le sedute non durano
60 minuti, ma sono più corte. Possono durare anche
30 minuti se necessario.
3. E’ fondamentale l’alleanza con la famiglia, che non va
colpevolizzata
4. Si fanno interventi di terapia familiare per aiutare i
genitori. Laddove possibile si possono attivare gruppi
multifamiliari (Narracci e Badaracco “La psicoanalisi
multifamiliare in Italia”. “Il gruppo multifamiliare” A.
Canevaro).
5. Tema dei farmaci. Il dolore e l’angoscia vissuta dai
pazienti psicotici è molto alta e i farmaci possono
aiutare ad alleviare questi sintomi.
Non vanno però trascurati alcuni effetti collaterali
come l’ingrassamento, che per i giovani pazienti può
essere un problema.
I pazienti che mantengono un’aderenza ai loro vissuti
deliranti anche quando sono in trattamento sono casi
con esiti meno favorevoli, perché solitamente se i
farmaci funzionano e i pazienti sono ben seguiti
criticano le esperienze deliranti.
6. Si attivano i servizi se possibile, per creare
rete o situazioni di inserimenti e progetti
riabilitativi.
7. Se necessario, si lavora per un inserimento
in comunità terapeutica del paziente, senza
lasciare alla famiglia la decisione perché
altrimenti è difficile che la prendano da soli.
Il ricovero in reparto è un sostituto non
ottimale della comunità psichiatrica.
D'una città non godi
le sette o le
settantasette
meraviglie,
ma la risposta che dà
a una tua domanda.
I. Calvino

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Il lavoro sistemico relazionale con le psicosi

  • 1. Luigi Cancrini e il lavoro con le psicosi Valentina Albertini, CSAPR 14.04.2017
  • 2. Un pensiero in evoluzione Il pensiero sistemico relazionale intorno alle psicosi ricorda l’evoluzione della pianta di una città: con il trascorrere del tempo, a partire da nuclei che restano immutati, si abbattono mura, altre se ne costruiscono, il confine si allarga, cambiano strade e paesaggi. Ogni città riceve la sua forma dal deserto a cui si oppone. I. Calvino
  • 3. Due filoni di ricerca clinica sono all'origine dell'approccio sistemico alle psicosi: 1. gli studi psicodinamici sulle famiglie dei pazienti psicotici che fioriscono negli Stati Uniti negli anni '50 con le ricerche di Lidz, Bowen, Wynne, Boszormenyi-Nagy e Framo; 2. gli studi sulla comunicazione nelle famiglie degli schizofrenici avviati dal gruppo di Bateson con l'ipotesi del doppio legame. “Negli anni ‘60 Bowen ricovera nel suo reparto psichiatrico intere famiglie, Jackson teorizza esplicitamente la necessità terapeutica di allontanare sistematicamente i pazienti dalle loro famiglie (1965). In questo senso ancora più radicali sono gli esponenti dell'antipsichiatria (Ronald Laing e David Cooper).” (Selvini M.) Le origini del pensiero sistemico
  • 4. Negli anni Settanta-Ottanta, i terapeuti sistemici cercheranno di contrastare una simile negatività che percepiscono come antiterapeutica: Cancrini, in analogia con la lettura marxista, sottolinea l'involontarietà dei comportamenti di chi è “imprigionato” in certe leggi del sistema (Cancrini, 1977). Selvini Palazzoli teorizzerà la "connotazione positiva" dei comportamenti sia del paziente che dei familiari. “Purtroppo tutto ciò non è sufficiente a correggere l'errore di fondo: per molti anni i terapeuti familiari, un po’ come Topolino nella celebre versione disneyana dell'apprendista stregone, si affanneranno per prosciugare l'allagamento (colpevolizzazione) che essi stessi hanno provocato e continuano a provocare!” (Selvini, M.)
  • 5. “La (ipotesi) più consistente dal punto di vista tecnico e la più utile dal punto di vista terapeutico appare, ancor oggi, quella legata all’incompletezza dei suoi [del paziente] processi di individuazione. Nella famiglia a transazione schizofrenica, infatti, ciò che accade di verificare abitualmente è un’incertezza diffusa dei confini dell’Io, con scambi continui di emozioni, sentimenti, desideri, aspettative fra i suoi membri e con l’impressione clinica, per colui che ne considera l’interazione complessiva, di una frammentazione dell’Io individuale a favore di un grande Io collettivo” (1991) Il vaso di Pandora “La città non dice il suo passato, lo contiene come le linee d’una mano, scritto negli spigoli delle vie, nelle griglie delle finestre, negli scorrimano delle scale, nelle antenne dei parafulmini, nelle aste delle bandiere, ogni segmento rigato a sua volta di graffi, seghettature, intagli, svirgole.” I. Calvino
  • 6. Il trentennio Settanta-Novanta è caratterizzato dal consolidamento ed insieme dalla crisi della psicoterapia della psicosi (Selvini M.). La terapia familiare si diffonde soprattutto nei servizi psichiatrici: molti psichiatri negli anni '70-'80 si formano in questo senso. Il filone della psichiatria sociale o democratica (Basaglia, 1968) resta molto importante, specialmente in Italia. Dagli anni ‘70 ai ‘90
  • 7. Nasce l’approccio psicoeducazionale (Leff e Vaughn) che riprende alcuni temi fondamentali dell'approccio sistemico: il coinvolgimento dei familiari nel trattamento, il tipo di comunicazione familiare. Ma per contrastare il rischio della colpevolizzazione dei familiari, viene messo l'accento sulla schizofrenia come malattia biologica In generale un approccio psicoterapeutico alla psicosi non sfonda, mentre al contrario questo trentennio vede avanzare l'associazione tra terapie biologiche e terapie cognitive Dagli anni ‘70 ai ‘90
  • 8. “Il modo in cui i disturbi psichiatrici maggiori si collegano a forme diverse di disturbi di personalità può essere presentato, ancora oggi, come un problema cruciale della moderna psicopatologia” (Cancrini, De Gregorio 1997) “Il disturbo schizofrenico può presentarsi almeno in due modi: a) in forma di storia personale sfortunata ma ricostruibile e caratterizzato, in linea di principio, da una certa reversibilità: con un decorso clinico per crisi, separate da fasi di remissione che si lega più spesso a quella della forma paranoidea (o della catatonia periodica) confondendosi a volte con quello della psicosi ciclica b)in forma di storia personale che si allontana in modo apparentemente inesorabile da quella degli altri esseri umani; con spazi ridotti di comprensibilità e con margini molto ridotti di curabilità, con un decorso clinico che ricalca, più spesso, quello caratteristico della forma ebefrenica o ebefreno-catatonica” (Cancrini, De Gregorio 1997)
  • 9. Errore storico dell'approccio sistemico alla psicosi è stato quello di basarsi su una troppo radicale normalizzazione del paziente. Il principio di competenza secondo il quale il paziente è attivo e strategico nell'uso dei suoi sintomi (Selvini Palazzoli et al., 1988) collude con una controproducente negazione della sofferenza e del deficit. Al contrario la terapia delle psicosi deve, come ogni psicoterapia, aiutare il paziente a conoscere meglio se stesso, ed aiutare i familiari a conoscere meglio il paziente. Tuttavia, nel campo delle psicosi, questo può non essere possibile, o non esserlo in prima battuta. Selvini M.
  • 10. Esiste una omogeneità di fondo dell'area delle psicosi: un analogo ed affine intrecciarsi di fattori patogeni di tipo biologico, psicologico e sociale Complessivamente l'elemento fondamentale è proprio dato dalla co-presenza non integrata di tratti del tutto eterogenei: ”Possiamo così riscoprire l'esistenza di un'acuta intuizione nel termine stesso di "schizofrenia" (mente divisa) così come in tutta la tradizione psicoanalitica che ha parlato di "frammentazione" dell'Io” (Selvini M.)
  • 11. Un punto su cui riflettere come terapeuti sistemici riguarda il fatto che la terapia familiare nasce negli USA intorno a due filoni di esperienze: – Neuropsichiatri infantili (Minuchin) – Schizofrenie (Bateson,Bowen) in cui il punto è quello per cui il disordine comunicativo del paziente è un pezzo del disordine di tutta la famiglia. In famiglia, molti comportamenti del paziente schizofrenico acquistano senso A che punto siamo oggi?
  • 12. Tutto l’entusiasmo legato al comprendere e il considerare il paziente come un pezzo del sistema non ha corrisposto poi, nel tempo, a una totale capacità trasformativa del sistema. A livello terapeutico, questi trattamenti sono stati in larga parte insuccessi. Anche il modello di “Paradosso e controparadosso” ha dimostrato che la comprensione in seduta non corrisponde poi ad una guarigione. La diagnosi di psicosi, se fatta da terapeuti esperti in grado di differenziare la “sclerata momentanea” o la crisi legata ad una forte fase di stress, è una diagnosi che descrive un processo insidioso che cresce nel tempo. Ci vogliono più casi di allucinazioni per avere una diagnosi di schizofrenia.
  • 13. Citazione del libro “Recovery. Nuovi paradigmi per la salute mentale” di Maone e D’avanzo: In inglese “guarigione” si traduce con “Full recovery”. Per “Recovery” si intende più il recupero di una situazione accettabile. Aiutare il paziente a vivere nella migliore situazione possibile con le sue risorse.
  • 14. E’ importante differenziare il delirio nelle situazioni acute dalle psicosi. Kernberg scrive che ci sono pazienti che uscendo dal delirio acuto rientrano in una normale organizzazione nevrotica. Altri tipi di crisi psicotiche interrompono una traiettoria più borderline, ad esempio le cosiddette doppie diagnosi. Quando i pazienti escono dal delirio, mantengono caratteristiche di un disturbo di personalità importante. In questi due casi, è possibile per il terapeuta dare un senso al delirio, tentare interpretazioni, restituire un significato a ciò che avviene e spesso anche al contenuto del delirio stesso.
  • 15. Ci sono poi un terzo tipo di pazienti con deliri che poi si concretizzano sui contenuti e diventano stabili. Questo terzo tipo di persone non è accessibile alla psicoterapia nei modi in cui noi la intendiamo: sono strutture psicopatologiche non avvicinabili dal nostro modello in quanto è impossibile creare un’alleanza terapeutica. In queste situazioni, il crinale è il percorso di accettazione della terapia farmacologica
  • 16. 1. Il lavoro si muove “nelle frontiere dell’IO” (Paul Federn). Il terapeuta sta su temi concreti, non segue le fantasie. I fantasmi non si evocano e non si esorcizzano “perché quando il paziente ti espone al delirio il rapporto è bruciato” Il paziente che viene seguito nel delirio è come se si sentisse “tradito” dal terapeuta. “La psicosi è senza tempo”: gli avvenimenti che restano nella memoria vengono ricordati con intensità e precisione. Di fronte a questo tipo di psicopatologie meglio quindi muoversi sul principio di realtà, perché ciò che il terapeuta fa quando interpreta è entrare nella mente del paziente. Alcuni elementi per il lavoro con pazienti psicotici gravi
  • 17. 2. Per favorire il lavoro sulle frontiere dell’io, se il paziente ha difficoltà a seguire, le sedute non durano 60 minuti, ma sono più corte. Possono durare anche 30 minuti se necessario. 3. E’ fondamentale l’alleanza con la famiglia, che non va colpevolizzata 4. Si fanno interventi di terapia familiare per aiutare i genitori. Laddove possibile si possono attivare gruppi multifamiliari (Narracci e Badaracco “La psicoanalisi multifamiliare in Italia”. “Il gruppo multifamiliare” A. Canevaro).
  • 18. 5. Tema dei farmaci. Il dolore e l’angoscia vissuta dai pazienti psicotici è molto alta e i farmaci possono aiutare ad alleviare questi sintomi. Non vanno però trascurati alcuni effetti collaterali come l’ingrassamento, che per i giovani pazienti può essere un problema. I pazienti che mantengono un’aderenza ai loro vissuti deliranti anche quando sono in trattamento sono casi con esiti meno favorevoli, perché solitamente se i farmaci funzionano e i pazienti sono ben seguiti criticano le esperienze deliranti.
  • 19. 6. Si attivano i servizi se possibile, per creare rete o situazioni di inserimenti e progetti riabilitativi. 7. Se necessario, si lavora per un inserimento in comunità terapeutica del paziente, senza lasciare alla famiglia la decisione perché altrimenti è difficile che la prendano da soli. Il ricovero in reparto è un sostituto non ottimale della comunità psichiatrica.
  • 20. D'una città non godi le sette o le settantasette meraviglie, ma la risposta che dà a una tua domanda. I. Calvino