1. Ul di dul pan giold
Giù la claire, chiude un mondo.
Il nome "Aurora" aveva da tempo smesso di richiamare alla mente quella
donnina mite e un pò eterea "cunt i cavei bianc e ul scusà celest", che
avrebbe preferito per carattere stare dietro le quinte ma che spesso doveva
mettersi al bancone a servire i clienti con una flemma e una vocina che
ben si conciliavano con la delicata vetustà del locale. "Aurora"
identificava un microcosmo, un mondo fatto di riti quotidiani, di lunghe
attese condite da piccole grandi dicerie, di scatole blu di pasta e di pane,
tanto pane, a ogni ora del giorno, "pan cumugn" per tutti e "pan a l'oli" per
i palati più delicati e “par i fiò”.
"Aurora" aveva soprattutto il potere di dare una scossa al consolidato tran
tran del paese il martedi pomeriggio perché il martedì era da sempre "ul di
dul pan giold". Non mi sono mai preoccupato di capire come fosse fatto il
pan giold, cosa lo distinguesse dal pane del mattino, semplicemente era
molto più buono, soprattutto caldo, morbido dentro e fragrante al tempo
stesso, una tentazione a cui pochi sapevano resistere e che sapeva attrarre
anche i clienti degli altri due negozi di alimentari, “ul Valerio” e “aa
Cuperativa”. La forma poi aveva qualcosa di arcaico e richiamava subito
alla mente il miracolo biblico della moltiplicazione. Il pane che Gesù
Cristo aveva moltiplicato e spartito me lo immaginavo proprio cosi, grande
e rotondo, che si poteva dividere in grandi pezzi anche con le mani.
Tornavo da scuola il martedì e subito iniziava il rito della raccolta ordini
nel cortile. Tutti avevano già fatto la loro prenotazione e chi era al lavoro
aveva lasciato detto la sera prima o il mattino presto. Nessuno si era
dimenticato.
“Mez par la Viturina”, “vun intreg par la zia Maria”, “mez par mi e l’ziu
Bagàt”, “mez par la to mama”. Suonava più o meno cosi la sequenza degli
ordini che raccoglievo da mia zia Delina già verso le due del pomeriggio.
Ma non era finita li perché il pan giold non era il pane quotidiano, era un
di più, un diversivo piacevole, qualcosa al di sopra dello standard degli
altri giorni che andava goduto appieno ma con discrezione e senza
esagerare, una piccola “puscena” e allora ecco che l’ordine si completava
2. con “vutanta gram da pansceta par la Viturina”, “mez’etu par mi,
cupoda”. Con il pan giold andava la pancetta, quasi sempre quella
comune, grassa e solo qualche volta la coppata e quasi mai si osava l’etto,
non perché l’Aurora arrotondasse già di suo, ma per una forma di
morigeratezza, come se esagerare fosse disdicevole. Non ricordo di aver
mai comprato “ul giambum cru”, qualche volta la bologna o il cotto.
Partivo cosi col mio bigliettino e le mie poche lire verso le quattro meno
dieci. lungo un tragitto di cinquanta metri e qualche tentazione.
Il primo ostacolo da superare era una sorta di stretto tra Scilla e Cariddi, il
Paolo “barbé” a destra, l’Angela e il Giulio “frutirò” a sinistra.
Se il cliente latitava il Paolo era di vedetta sulla porta della bottega ad
annusare la piazza e allora era impossibile sfuggire a qualche domanda del
tipo "vai? dove? a trovare la tua morosa?". Quanto bastava per farmi
arrossire.
La tentazione a sinistra era quella delle "figu", ne mancava sempre
qualcuna per completare un album qualunque esso fosse, e la sola vista
del negozio del Giulio e dell'Angela mi faceva comparire nella mente i
rettangoli vuoti dell'album che erano come un richiamo morale al
raggiungimento di un fine, perché l'album da completare era un po' come
un lavoro da finire che non si poteva lasciare a metà, che faceva aguzzare
l'ingegno per ritrovare le poche lire necessarie a comprare l'ennesimo
pacchetto e faceva crescere le capacità di negoziazione tra bambini. Avrei
capito solo tanti anni dopo che completare un album di figurine era più
formativo di tante lezioni teoriche a scuola.
Riuscivo a superare la tentazione solo pensando alla possibilità di potermi
tenere qualche soldo del resto della spesa che mi accingevo a fare.
Uno sguardo sulla sinistra e spesso nella bella stagione c'era la Romana
che sferruzzava sulla sua carrozzina, la copertina sulle gambe anche nella
bella stagione e l'Ernesto, un baffo su un viso a triangolo, un grande
occhiale marrone, un uomo incapace di non sorridere. Quasi impossibile
invece scorgere la Rosita, donna semplice ma austera che amava stare
dietro le quinte anche nel quotidiano.
Un'occhiata attraverso le strisce verticali di plastica gialle e rosse della
tenda antimosche sulla porta della Madonnina per vedere se il flipper era
3. in azione e si arrivava in zona Bar Roma dove attraverso la finestra era
possibile scorgere l’Eugenia. Anche nello spazio angusto dietro il banco
l’Eugenia mostrava tutto il suo dinamismo di donna piccola ma dai
movimenti decisi. Spesso la coglievo mentre riempiva qualche bicchiere
col bottiglione del bianco che riusciva a tenere con una mano sola anche se
pieno.
Un balzo per attraversare la strada e davanti alla tintoria Marina quasi
sempre facevo una sosta nell’attesa di vederli comparire dalla curva in
fondo sotto il portico che a un certo punto copre ancora oggi la via
Magnani. Padre e figlio, mano nella mano. Già verso la metà dei sessanta
il signor Enrico, ancora sotto i trenta il Nandino. Il Nandino era down.
Salivano con una andatura lenta, vestiti sempre in modo quasi elegante
senza mai staccarsi. Nella mano libera il signor Enrico reggeva la borsa
della spesa. Mai una parola l’uno all’altro, un’intesa perfetta fatta di riti
quotidiani ben rodati. Li guardavo salire e non potevo fare a meno di
cercare di immaginare come potesse essere il loro quotidiano soprattutto
dopo che la moglie del signor Enrico era morta ed erano rimasti soli nella
bella casa della Barona. Nella loro casa ero entrato una volta da
chierichetto per la benedizione natalizia e mi avevano colpito l’ordine la
pulizia e un senso di composta tristezza che l’ambiente emanava. Li
guardavo salire fin verso la “curt di Bioss” poi entravo nel negozio dove
bisognava armarsi di pazienza e affrontare la lunga attesa. D’estate la
porta rimaneva aperta e la speranza era che qualcuno facesse partire un
disco nel Jukebox del Bar Roma. Accadeva spesso anche in pieno
pomeriggio che qualche giovane alle prese con una partita di bigliardo non
resistesse alla tentazione di un sottofondo musicale.
Di melodie ne ricordo tante, una in particolare, era “Lo straniero”, la
cantava un tale George Moustaki in un buon italiano anche se era un greco
francese. Una cadenza lenta che aveva la capacità di insinuarsi nella
mente per non uscirvi più.
Benché l'inglese medio schiannese tra gli anni 60 e i 70 arrivasse a
malapena a “dog” e “sun”, erano ovviamente i pezzi d’oltremanica ad
andare per la maggiore. Solo qualche secchione delle medie sapeva
tradurre "Come Together" ma poco importava, a nessuno era mai venuta
voglia di capire il senso di quello che il Jukebox urlava. Quel che
4. importava non era il contenuto ma la reazione che ogni pezzo riusciva a
scatenare. Procedevo nel lento avvicinamento al bancone e poteva
accadere che sull'incipit di “Obladì Obladà mi partisse un fremito
incontrollato dal ginocchio destro in giu'. “Let it be” mi provocava
invece un leggero ma continuo ciondolio laterale della testa. Una volta
mi rimbalzò nelle orecchie un interrogativo strano: “che ne sai tu di un
campo di grano?” e fu l’unica volta che riflettei sul fatto che mi sarei
dovuto interessare agli ingredienti del pan giold, ma me ne dimenticai
presto. Un bel martedì finalmente qualcuno ebbe il coraggio di far partire
“Je t'aime moi non plus”, pezzo censuratissimo che ogni venerdì metteva
in imbarazzo Lelio Luttazzi perchè non lo poteva mandare in onda durante
la hit parade e ogni volta si inventava dei giri di parole per motivare la
cosa suscitando cosi l’enorme curiosità di tutti. Lo si poteva ascoltare su
Radio Monte Carlo ma anche li era una rarità. Nessuno capiva il francese
e i famigerati sospiri della Birkin arrivarono ovattati e indistinguibili da un
rumore di sottofondo qualunque, per cui nessuno ci fece troppo caso.
D’inverno con la porta del negozio chiusa non si poteva fare altro che
lasciarsi trasportare lentamente verso il banco dall’odore di pane caldo,
cliente dopo cliente, in un’atmosfera che condita dalla sonnolenza
pomeridiana aveva qualcosa di vagamente mistico, non fosse stato per
l’apparire irruento della Rosa che di tanto in tanto si faceva largo tra la
gente in coda trascinando una nuova cesta di plastica bianca piena di pan
giold. Qualche rarissima volta al posto della Rosa appariva l’Eugenio,
sempre schivo e quasi sofferente per doversi mostrare imbiancato fuori dal
forno che era il suo ambiente naturale.
Al banco l’Aurora aveva sempre lo stesso ritmo lento e costante.
Tagliava, pesava, infilava il pan giold nelle buste marroni e segnava i
parziali su dei piccoli foglietti di carta a quadretti con una scrittura
obliqua. Sul peso della pietanza era di una precisione maniacale e quasi si
dispiaceva e si scusava se travalicava il grammo: “dig a la to zia ca ma n’è
scapo un zic pusé”. Alla fine faceva il totale tirando una riga quasi
diagonale.
Quando faceva freddo era piacevole tornare col sacchetto caldo tra le mani
appoggiato sul petto. All’arrivo a casa partiva immediatamente il conto
dei resti e soprattutto il rito della distribuzione a ciascuno della fetta di
pane con la pancetta. Mio zio Bagàt lasciava l’officina tugurio dove
5. svolgeva il suo lavoro di ciabattino e si presentava in cucina con le mani
sporche della colla per le suole di un odore cosi intenso da provocare un
immediato ribaltamento dei profumi dell’ambiente cancellando quasi del
tutto la fragranza del pane.
C’era chi tagliava la fetta di pane e infilava la pancetta, c’era chi la
appoggiava sopra, chi alla pancetta preferiva il “pan butér e zucur”, tutti si
fermavano per dieci minuti e davano sfogo a un’attesa che si protraeva dal
mattino.
Quasi sempre con le venti lire che mi ero meritato davo sfogo immediato
all’altro desiderio, quello di tentare di riempire qualche rettangolo vuoto
dell’album delle figu. Il più delle volte si allungava invece il mazzo delle
doppie, ma poco importava, si partiva subito alla ricerca di una nuova
occasione per raggranellare altre venti lire e ritentare.
Gli album delle figu li ho conservati tutti, di tanto in tanto li apro a caso
solo per cercare di richiamare alla mente i personaggi che in un modo o in
un altro hanno contribuito al loro completamento. Non sono poche le
figurine che portano con sé un ricordo del tutto particolare.
La signora Premazzi Aurora ci ha lasciati il 28 maggio del 92.
L’Aurora sarebbe sopravvissuta molti anni ancora.
La claire ora é abbassata.
Il martedì pomeriggio mi capita ancora qualche volta di sentire il desiderio
di mordere “un bel tuchel da pan giold, duma un zic, a see par fam sinti ul
fa i udur e i vus d'un paes ca ghé pu”.
6. Piccolo frasario Schiannese - Italiano
ul di dul pan giold il giorno del pane giallo
cunt i cavei bianc e ul scusà celest con i capelli bianchi e il grembiule celeste
pan cumugn pane comune fatto di farina, acqua, lievito e sale
pan a l'oli pane all’olio
par i fiò per i bambini
ul Valerio Valerio Martignoni, alimentari di via Verdi
accessibile anche dal Vicolo Bardelli
aa Cuperativa la Cooperativa
mez par la Viturina mezzo per la Vittorina
vun intreg par la zia Maria uno intero per la zia Maria
mez par mi e l’ziu Bagàt mezzo per me e per lo zio Bagàt (calzolaio)
mez par la to mama mezzo per tua mamma
puscena merenda abbondante
vutanta gram da pansceta ottanta grammi di pancetta
mez’etu par mi, cupoda mezzo etto per me, coppata
ul giambum cru il prosciutto crudo
barbé parrucchiere
frutirò fruttivendolo
curt di Bioss cortile dei Bioss, il primo a destra scendendo
dall’Aurora per Vicolo Magnani
dig a la to zia ca ma n’è scapò un zic di a tua zia che me ne è scappato un po’ di più
pusè
pan butér e zucur pane burro e zucchero
un bel tuchel da pan giold, duma un zic, un bel pezzo di pane giallo, solo un po’, quel che
a see par fam sinti ul fa i udur e i vus basta per farmi sentire i sapori, gli odori e le voci
d'un paes ca ghe ' pu. di un paese che non c’è più.
Nota
Qualcuno potrebbe obiettare che si dice “Pan Giald” e non “Pan Giold...
Se qualcuno a Schianno dicesse “Giald” rischierebbe si sentirsi chiedere : “te se diventò
un milanes ?”
7. Ricetta
http://www.cookaround.com/yabbse1/showthread.php?t=25083
Si trattava di pagnotte da mezzo chilo l’una, che venivano cotte ogni sette giorni.
Quando era fresco, il pane si consumava per “tirare su” qualsiasi alimento, oppure come
companatico:
Quando il pane diventava raffermo e duro, si consumava nel latte o nel brodo delle zuppe