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174 175
l’avventura di uno spettatore italo calvino e il cinema
Lietta Tornabuoni
Il cinema inesistente. Intervista a Italo Calvino
Italo Calvino è nella giuria della prossima Mostra del cinema di
Venezia, forse ne sarà il presidente. È uno degli scrittori che di-
rettamente hanno meno contribuito al cinema italiano: qualche
collaborazione a sceneggiature, per esempio di Renzo e Luciana,
episodio di Boccaccio ’70 diretto da Monicelli; il soggetto bellis-
simo per un film di Antonioni mai realizzato; un film d’anima-
zione di Pino Zac tratto dal suo Cavaliere inesistente; uno sketch
diretto e interpretato da Nino Manfredi tratto dal suo racconto
L’avventura di un soldato. Ma è forse lo scrittore italiano che
più ha anticipato nella propria opera l’immaginario, le fascina-
zioni, le tendenze del cinema internazionale contemporaneo: il
mondo medievale rivissuto con ironia, l’universo magico ripeti-
tivo e fatale della fiaba, le cosmogonie fantastico-scientifiche, le
città del sogno tra Oriente visionario e megalopoli moderna, la
narrativa come processo combinatorio di elementi preesistenti,
la narrazione come forma compiuta che è possibile scomporre
giocando col racconto come con gli scacchi. Calvino si definisce
«uno spettatore medio», ma sta per diventare giudice di film: lo
interroghiamo sui suoi rapporti con il cinema.
Cosa le piace nell’idea di far parte della giuria della Mostra del
cinema di Venezia?
Mi piace sempre andare a Venezia. Mi piace vedere i film in
versione originale, cosa impossibile in Italia: è una prova di bar-
barie italiana credere che un film doppiato equivalga a un film
che parla la propria lingua; è un pregiudizio estetico pensare che
un film sia fatto solo d’immagini, che la sovrapposizione d’un
linguaggio estraneo e di voci fittizie non lo snaturi; è una muti-
lazione culturale vedere doppiati in italiano persino i film giap-
ponesi, nei quali è essenziale il fatto fonico, i toni, l’ansimare, il
ritmo del dialogo. Mi piace vedere i film dal principio alla fine,
contrariamente all’assurda abitudine italiana d’entrare al cinema
in qualsiasi momento. Certi film, soltanto adesso rivedendoli in
TV, io li vedo davvero, dal principio alla fine, non destrutturati
narrativamente, né emotivamente alterati: e spesso riconosco il
punto in cui allora, la prima volta, ero entrato nella sala.
E il cinema, le piace? Ci va spesso?
No, non ci vado particolarmente spesso. Ho anch’io un mio pas-
sato di cineclub, di giornate intere passate alla Cinémathèque
di Parigi, ma credo che mi abbiano invitato nella giuria della
Mostra di Venezia perché non so niente di cinema, perché sul
cinema non ho mai teorizzato. Credo di non aver mai letto storie
del cinema né testi di teorica cinematografica, anche se per anni
ho lavorato in una casa editrice che pubblicava molti libri del
genere, se di questi libri ho scritto per anni i risvolti di copertina
o le sinossi pubblicitarie. Soprattutto detesto i libri con la sce-
neggiatura del film: sarebbero interessanti soltanto se offrissero
tutte le varie fasi attraverso cui passa una sceneggiatura, tutte le
successive riscritture di una scena o di un dialogo, tutti i tagli,
gli scarti, le rinunce, le parole che non sono diventate immagini,
quello che non è mai stato girato.
Al cinema, le piace andare solo?
Quando sono solo, presto mi dico «va bene, ho già capito», mi
alzo e me ne vado, mentre se ci sono altre persone resto sino
alla fine del film. Al cinema vado con mia moglie, è lei che mi ci
porta, io invece rimanderei, rimanderei sempre.
176 177
l’avventura di uno spettatore italo calvino e il cinema
Significa che dal cinema lei non ricava oggi uno speciale nu-
trimento?
Io sono a dieta: questo non vuol dire che il nutrimento non ci sia.
Se le dicono che al cinema la gente non va quasi più, che il ci-
nema è un genere di spettacolo non più contemporaneo, che il
cinema è morto, cosa pensa?
Penso che l’opera lirica è un fenomeno chiuso nel giro di due
secoli, e che pure quest’anno la mia principale attività è stata
dedicarmi alle opere liriche. L’agonia di un impero può durare un
millennio, come quella di Bisanzio.
Da ragazzo, il cinema per lei è stato una passione, un mito, il
mondo?
Più o meno come per tutti: credo di rappresentare davvero lo
spettatore medio. Nell’infanzia sono stato educato molto seve-
ramente: mia madre non mi mandava al cinema da solo, e per
me sceglieva soltanto film educativi. C’era in casa la macchi-
na da proiezione, una Pathé Baby che i miei avevano portato
dall’America, e mi proiettavano film istruttivi. Anche comiche,
ma mia madre pensava che Charlot fosse troppo maleducato.
Preferiva Harold Lloyd perché si comportava molto meglio, era
più composto, e così c’erano molti film di Harold Lloyd. Alle
volte venivo anche portato al cinema. Ho pochi ricordi del muto,
ma ricordo l’inizio del parlato: Africa parla, un documentario
sulle belve feroci; o Trader Horn, che pure si svolgeva in Africa,
ma credo che ci fossero scene di tortura inflitta dai selvaggi agli
esploratori, e mia madre mi portò via, diceva che le scene im-
pressionanti fanno male al sistema nervoso.
Erano più importanti i libri o i film, nel suo mondo fantastico?
E i film comici o quelli avventurosi?
Non leggevo mica tanti libri: non sono stato precoce in niente,
neppure nella lettura. Cinema avventuroso e cinema comico
corrispondono entrambi, credo, a uno stesso bisogno interio-
re elementare: essere sorpresi da un’emozione, che può essere
quella che scatena la risata come quella che libera da una ten-
sione di pericolo.
I suoi eroi, i suoi modelli, appartenevano al cinema?
Nell’adolescenza mi sono subito orientato verso modelli ironici e
riflessivi, come potevano essere il sublime Leslie Howard o l’im-
perturbabile William Powell. O Fred Astaire, che anch’io adora-
vo: le sue straordinarie doti di ballerino lo facevano appartenere
a un mondo superumano, ma come personaggio umano aveva
humour e grazia. Faceva certo parte del mio Olimpo, e oggi resta
un grande piacere rivedere i suoi film così perfetti anche formal-
mente, come oggetti compiuti e chiusi in sé, come meccanismi
assolutamente funzionanti.
Tutti attori che impersonano l’eleganza, la levità, la disinvoltura
mondana del vivere, lo stile...
Corrispondono anche a un’epoca in cui la mia lettura principale
erano i romanzi di P.G. Wodehouse: come vede, queste domande
mi riportano a un mondo che non ha più a che fare con il mondo
di oggi né con il cinema di oggi.
Berto Woodster o Psmith, i giovanotti inglesi protagonisti di tan-
ti romanzi di Wodehouse, sono degli sciocchi, dei pasticcioni…
Ma Jeeves, no: il mio modello di onniscienza, onnipotenza, sicu-
rezza e uso di mondo era lui, Jeeves.
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  • 1. 174 175 l’avventura di uno spettatore italo calvino e il cinema Lietta Tornabuoni Il cinema inesistente. Intervista a Italo Calvino Italo Calvino è nella giuria della prossima Mostra del cinema di Venezia, forse ne sarà il presidente. È uno degli scrittori che di- rettamente hanno meno contribuito al cinema italiano: qualche collaborazione a sceneggiature, per esempio di Renzo e Luciana, episodio di Boccaccio ’70 diretto da Monicelli; il soggetto bellis- simo per un film di Antonioni mai realizzato; un film d’anima- zione di Pino Zac tratto dal suo Cavaliere inesistente; uno sketch diretto e interpretato da Nino Manfredi tratto dal suo racconto L’avventura di un soldato. Ma è forse lo scrittore italiano che più ha anticipato nella propria opera l’immaginario, le fascina- zioni, le tendenze del cinema internazionale contemporaneo: il mondo medievale rivissuto con ironia, l’universo magico ripeti- tivo e fatale della fiaba, le cosmogonie fantastico-scientifiche, le città del sogno tra Oriente visionario e megalopoli moderna, la narrativa come processo combinatorio di elementi preesistenti, la narrazione come forma compiuta che è possibile scomporre giocando col racconto come con gli scacchi. Calvino si definisce «uno spettatore medio», ma sta per diventare giudice di film: lo interroghiamo sui suoi rapporti con il cinema. Cosa le piace nell’idea di far parte della giuria della Mostra del cinema di Venezia? Mi piace sempre andare a Venezia. Mi piace vedere i film in versione originale, cosa impossibile in Italia: è una prova di bar- barie italiana credere che un film doppiato equivalga a un film che parla la propria lingua; è un pregiudizio estetico pensare che un film sia fatto solo d’immagini, che la sovrapposizione d’un linguaggio estraneo e di voci fittizie non lo snaturi; è una muti- lazione culturale vedere doppiati in italiano persino i film giap- ponesi, nei quali è essenziale il fatto fonico, i toni, l’ansimare, il ritmo del dialogo. Mi piace vedere i film dal principio alla fine, contrariamente all’assurda abitudine italiana d’entrare al cinema in qualsiasi momento. Certi film, soltanto adesso rivedendoli in TV, io li vedo davvero, dal principio alla fine, non destrutturati narrativamente, né emotivamente alterati: e spesso riconosco il punto in cui allora, la prima volta, ero entrato nella sala. E il cinema, le piace? Ci va spesso? No, non ci vado particolarmente spesso. Ho anch’io un mio pas- sato di cineclub, di giornate intere passate alla Cinémathèque di Parigi, ma credo che mi abbiano invitato nella giuria della Mostra di Venezia perché non so niente di cinema, perché sul cinema non ho mai teorizzato. Credo di non aver mai letto storie del cinema né testi di teorica cinematografica, anche se per anni ho lavorato in una casa editrice che pubblicava molti libri del genere, se di questi libri ho scritto per anni i risvolti di copertina o le sinossi pubblicitarie. Soprattutto detesto i libri con la sce- neggiatura del film: sarebbero interessanti soltanto se offrissero tutte le varie fasi attraverso cui passa una sceneggiatura, tutte le successive riscritture di una scena o di un dialogo, tutti i tagli, gli scarti, le rinunce, le parole che non sono diventate immagini, quello che non è mai stato girato. Al cinema, le piace andare solo? Quando sono solo, presto mi dico «va bene, ho già capito», mi alzo e me ne vado, mentre se ci sono altre persone resto sino alla fine del film. Al cinema vado con mia moglie, è lei che mi ci porta, io invece rimanderei, rimanderei sempre.
  • 2. 176 177 l’avventura di uno spettatore italo calvino e il cinema Significa che dal cinema lei non ricava oggi uno speciale nu- trimento? Io sono a dieta: questo non vuol dire che il nutrimento non ci sia. Se le dicono che al cinema la gente non va quasi più, che il ci- nema è un genere di spettacolo non più contemporaneo, che il cinema è morto, cosa pensa? Penso che l’opera lirica è un fenomeno chiuso nel giro di due secoli, e che pure quest’anno la mia principale attività è stata dedicarmi alle opere liriche. L’agonia di un impero può durare un millennio, come quella di Bisanzio. Da ragazzo, il cinema per lei è stato una passione, un mito, il mondo? Più o meno come per tutti: credo di rappresentare davvero lo spettatore medio. Nell’infanzia sono stato educato molto seve- ramente: mia madre non mi mandava al cinema da solo, e per me sceglieva soltanto film educativi. C’era in casa la macchi- na da proiezione, una Pathé Baby che i miei avevano portato dall’America, e mi proiettavano film istruttivi. Anche comiche, ma mia madre pensava che Charlot fosse troppo maleducato. Preferiva Harold Lloyd perché si comportava molto meglio, era più composto, e così c’erano molti film di Harold Lloyd. Alle volte venivo anche portato al cinema. Ho pochi ricordi del muto, ma ricordo l’inizio del parlato: Africa parla, un documentario sulle belve feroci; o Trader Horn, che pure si svolgeva in Africa, ma credo che ci fossero scene di tortura inflitta dai selvaggi agli esploratori, e mia madre mi portò via, diceva che le scene im- pressionanti fanno male al sistema nervoso. Erano più importanti i libri o i film, nel suo mondo fantastico? E i film comici o quelli avventurosi? Non leggevo mica tanti libri: non sono stato precoce in niente, neppure nella lettura. Cinema avventuroso e cinema comico corrispondono entrambi, credo, a uno stesso bisogno interio- re elementare: essere sorpresi da un’emozione, che può essere quella che scatena la risata come quella che libera da una ten- sione di pericolo. I suoi eroi, i suoi modelli, appartenevano al cinema? Nell’adolescenza mi sono subito orientato verso modelli ironici e riflessivi, come potevano essere il sublime Leslie Howard o l’im- perturbabile William Powell. O Fred Astaire, che anch’io adora- vo: le sue straordinarie doti di ballerino lo facevano appartenere a un mondo superumano, ma come personaggio umano aveva humour e grazia. Faceva certo parte del mio Olimpo, e oggi resta un grande piacere rivedere i suoi film così perfetti anche formal- mente, come oggetti compiuti e chiusi in sé, come meccanismi assolutamente funzionanti. Tutti attori che impersonano l’eleganza, la levità, la disinvoltura mondana del vivere, lo stile... Corrispondono anche a un’epoca in cui la mia lettura principale erano i romanzi di P.G. Wodehouse: come vede, queste domande mi riportano a un mondo che non ha più a che fare con il mondo di oggi né con il cinema di oggi. Berto Woodster o Psmith, i giovanotti inglesi protagonisti di tan- ti romanzi di Wodehouse, sono degli sciocchi, dei pasticcioni… Ma Jeeves, no: il mio modello di onniscienza, onnipotenza, sicu- rezza e uso di mondo era lui, Jeeves. Continua......