Articoli dedicati al mondo dell'arte pubblicati sul numero di D del 12/07/2013
1. D 14
COVER STORYCOVER STORY
pERChé
SOnO
fEliCEMarinaAbramovic',lapiù
celebreprotagonistadi
performancechoc,
raccontacom’ècambiata:
“Orabastaprovocazioni,
vogliotrasmettere
unanuovaserenità”di Andrea Visconti Foto di Marco Anelli
Fotodifotografo
Marina Abramovic
nella performance
Kitchen, messa
in scena nel 2009
in Spagna
nelle stanze di un
ex convento.
2. D 16
COVER STORY
S
ono felice. Una felicità interiore profon-
da che non ho mai provato in vita mia. Lo
scriva, ci tengo tanto che si sappia», dice la
performance artist MarinaAbramovic´ arriva-
ta all’angolo di casa,al termine di una lunga
chiacchierata sulla carriera che nell’arco di
quarant’anni l’ha portata da Belgrado,dove
è nata, fino a NewYork, dove abita e lavora
daunaquindicinad’anni.
Di ragioni concrete per essere felice,questa artista fra le più
controverse al mondo, celebre per mettersi in scena in ma-
ratoneallimitedellatorturafisicaedemotivaoggineavreb-
be parecchie: il suo progetto di un “Marina Abramovic´
Institute” sta prendendo forma nella cittadina di Hudson
a nord di NewYork, la piece teatrale Life and Death of Ma-
rinaAbramovic˘, che ha scritto con BobWilson, debutterà a
dicembre all’Armory di Manhattan, e ha appena messo in
cantiere un film sull’attore James Franco... Ma no, non è
niente di tutto questo, chiarisce: «La mia felicità non viene
dai riconoscimenti o dal fatto che l’istituto sta per diventare
realtà.È una felicità che non dipende dalle persone intorno
a me.Viene da una profonda trasformazione interiore, co-
minciataunpaiod’annifadopolaperformancealMoMA».
Si riferisce a The Artist is Presence, una piece che nel 2010
portò per cento giorni al Museum of Modern Art e dalla
quale uscì trasformata. Settecentotrentasei ore e trenta
minuti seduta immobile e in silenzio su una sedia, avvolta
in un lungo abito rosso. Davanti a lei un tavolino spoglio
al di là del quale c’era un’altra sedia. A turno, circa mille-
quattrocento persone si sono sedute davanti a lei, fissando
silenziosamente lo sguardo su quel volto slavo mantenuto
senza espressione, da cui scaturiva una corrente d’energia
mentale. Ha provato anche Lady Gaga, e la cosa ha fatto
notizia. Molti partecipanti hanno reagito all’esperienza
emotiva con un attacco di sommesso pianto, e sul web il
Marina Abramovic´,
nata a Belgrado
66 anni fa, artista
di fama internazionate
e Leone d’oro alla
Biennale di Venezia nel
1997, fotografata
quest’anno in Brasile
durante la performance
Landscape. In alto
a sinistra, l’artista
in un ritratto di
Marco Anelli del 2011.
13 LUGLIO 2013 D 17
Fotodifotografo
“Non vedo che
bisogno ci sia
di definirsi
femministe,
dal momento che
comunque una
donna è sempre
più forte
di un uomo”
3. COVER STORY
DaBelgrado
aNewYork
1964-1970
Quando lei ha 18 anni
i genitori si separano e inizia
un lungo periodo di conflitto
con la madre, che le impone
una disciplina ferrea.
Si diploma nel 1970
all’Accademia di Belle Arti
di Belgrado.
1976
Si trasferisce ad Amsterdam
e incontra l’artista tedesco
Uwe Laysiepen, in arte
Ulay, col quale inizia un
sodalizio professionale umano
intensissimo: parlano di se
stessi come di «un corpo
a due teste» e un’identità sola.
1988
L’addio con Ulay è una
performance clamorosa: l’uno
e l’altra percorrono a piedi
la Grande Muraglia cinese
partendo dagli estremi opposti.
Quando dopo 2500 km di
viaggio solitario si incontrano
a metà, il commiato.
1946
Nasce a Belgrado, figlia di una
coppia di partigiani titini:
il padre, Vojo, eroe nazionale
jugoslavo, la madre Danica
maggiore dell’esercito
e poi direttrice del Museo
dell’Arte e della Rivoluzione.
1971-1975
Si sposa con l’artista concettuale
Nes˘a Paripovic´ (il matrimonio
dura fino al 1976). Tra il 1973
e il 1974 realizza il suo primo
ciclo di performance, le violente
piece Rythm, «una ricerca
sui limiti fisici del dolore».
1977-1987
È il decennio delle performance
a due (Relation, Breathing
in/out, Imponderabilia) e delle
polemiche con il femminismo
per l’ideale di simbiosi di coppia
che Abramovic´ mette in scena.
Qui accanto, la
performance Energy
Clothes, realizzata
nel 2001 a Como.
A destra Anima Mundi:
la pietà (al Carr Theatre
di Amsterdam, 1983)
e, sotto, un momento
della performance
Relation in space, alla
Biennale di Venezia
nel 1976: Marina
Abramovic´ e Ulay
correvano nudi per
ore in una stanza,
mettendo in scena
il tema delle identità
del maschile e del
femminile nella coppia.
In alto a destra, ancora
l’artista in Ritratto
con patate (2008).
FotodiJaapDeGraaf-Themahler.com-CharlesGriffin
D 19
2010
Porta al MoMA
di New York per cento
giorni la performance
The artist is present,
in contemporanea
con una retrospettiva
del suo lavoro al
sesto piano del museo.
2013
In aprile mette
in scena all’Opera
Ballet di Parigi
il Bolero di Ravel.
blog con i filmati Marina Abramovic´ made me cry ha fatto
altrettanta sensazione. «È come un’opera silenziosa nella
quale Abramovic´ è la primadonna», ha scritto esaltando la
performance il critico Holland Cotter sulle pagine del New
YorkTimes, pur facendo a pezzi nello stesso articolo la re-
trospettiva dei lavori dell’artista allestita in contemporanea
al sesto piano del museo: «Lì mancano due elementi che
definiscono l’arte della performance come mezzo di comu-
nicazione:l’imprevedibilità e la natura effimera dell’evento.
In mancanza di questi,tutto suona falso».
Q
uelle 700 ore al MoMA per Abramovic´ sono
state una pietra miliare. L’hanno fatta cono-
scereaunpubblicopiùvasto,soprattuttogio-
vanissimi che fino a quel momento sapevano
pocodell’artistachegiàneglianni’70siferiva
in scena usando coltelli infilati ritmicamente
fre le dita delle mani (Rythm),ballava per ore
alritmoossessivodiuntamburoafricanocon
la testa avvolta in una sciarpa fino a cadere esausta (Freing
the body) o si autoflagellava nuda per poi incidersi una stella
sulventreconunrasoio(LipsofThomas). «Èun’artistainter-
nazionale fra le più inquietanti», scrisse nel 2003 Maureen
Turim sulla rivista Camera Obscura, sottolineando nei lavo-
ri della Abramovic´ «forti implicazioni sia per le teorie della
psicanalisi che per quelle sul femminismo».Un’affermazio-
nechedieciannidopoMarinaancorarespinge:«Quelloche
faccio io non ha niente a che vedere col femminismo. Non
credocheunadonnadebbasentireilbisognodiproclamar-
si femminista quando è comunque più forte dell’uomo».
Sono affermazioni che hanno creato col pubblico delle
donneunrapportodiodio-amore.Odioperlesuecontinue
1997-2005
Vince il Leone d’Oro alla
Biennale di Venezia nel 1997
con il lavoro Balkan Baroque,
sugli orrori della guerra. Nel
2005 Porta al Guggenheim di
New York Seven Easy Pieces,
ripresa dei suoi primi lavori.
4. 13 LUGLIO 2013
provocazioni, come quando con il tedesco Ulay, suo com-
pagno di vita e d’arte per un decennio,arrivò a teorizzare la
totale simbiosi;amore per la sua capacità di sentirsi libera e
rompere ogni regola,come quando forzò il pubblico a pas-
sare per uno spazio stretto fra il suo corpo nudo e quello di
Ulay,scegliendoqualesfiorarecolproprio(Imponderabilia).
A 66 anni, col suo corpo Abramovic´ ha un rapporto com-
plesso. «Durante le mie performance non me ne importa
nulladicomeappaio,perchèinquelmomentoilcorponon
è altro che uno strumento per diffondere un messaggio.
Ma nella vita di tutti giorni ne sono estremanente conscia,
semisentotroppograssaosesemivedoinvecchiata.Èuna
totale contraddizione, ma una cosa che ho imparato è che
le contraddizioni non vanno nascoste».Anche ad accettare
i contrasti, dice Marina, è arrivata nelle ore di «immobile
energia creativa» al MoMA: «Mi hanno fatto prendere co-
scienza che siamo presenze temporanee su questo pianeta.
È qualcosa a cui penso ogni giorno e che mi dà molta con-
centrazione».Pensiericupiperfettamenteinlineaconl’ani-
mo slavo che si è porta dentro dalla nascita nella Belgrado
degli anni ’40, figlia di due partigiani comunisti che com-
batterono conTito durante la Seconda Guerra mondiale.
Marina è cresciuta con tutti i comfort della borghesia rossa
yugoslava,ma a 18 anni ha risentito molto della separazio-
ne dei genitori. La madre tentò di imporle una disciplina
quasi militare, lei si ribellò sposandosi e dopo pochi anni,
con una laurea ottenuta all’Accademia delle Belle Arti di
Belgrado, trasferendosi da sola ad Amsterdam. «All’ini-
zio fu orribile, perchè non ero abituata a essere creativa
quando tutto intorno a me era facile. Come artista avevo
bisognodisofferenza,disituazionidifficili.Èquelsensodel
dramma che noi slavi ci portiamo dentro e che ci influenza
in musica, letteratura, poesia». Ne sa qualcosa il suo pub-
blico italiano che nel 1997, alla Biennale diVenezia, osser-
vò sgomento Abramovic´ su una grande pila di ossa insan-
guinate, che lavava con uno spazzolone nel vano tentativo
diripuliresimbolicamentegliorroridellaguerrainBosnia.
Per la performance,Balkan Baroque,vinse il Leone d’Oro.
D
ifficile pensare che MarinaAbramo-
vic´ possa avere anche un lato legge-
ro. Invece è proprio questo a sor-
prendere chi la incontra:ride spesso
edigusto(«adorolebarzellettespor-
che»), fa battute scanzonate con un
forte accento slavo, in un inglese ai
confini della grammatica. Più che a
parole, comunica con l’energia coltivata in anni di intera-
zione spirituale con aborigeni australiani, monaci tibetani,
gli sciamani in Brasile.«Le culture indigene mi hanno inse-
gnato un rapporto diverso tra corpo ed energia mentale».
È la nuova tappa del suo percorso: «Il mio lavoro non è più
creare performance artistiche. Ora desidero creare cultu-
ra fondendo arte, scienza, spiritualità e nuove tecnologie».
Le ridono gli occhi quando mostra sull’Ipad il prototipo
del “Marina Abramovic´ Institute” a Hudson, che se tutto
andrà come previsto inaugurerà nel 2014.«Ma devo prima
trovare20milionididollari,inqualchemodomelacaverò»,
scherza annunciando che è già partito il fund-raising.Tutto
nasce dall’acquisto di un edificio nel centro di Hudson: un
teatropoidiventatocinema,poicampodatenniscomunale
coperto. «Il progetto è pronto e presto inizieranno i lavori
per trasformarlo in un centro aperto non solo ad artisti,ma
a tutto il pubblico, che lì potrà vivere l’esperienza dell’arte
immateriale».Ivisitatoridovrannoimpegnarsiatrascorrere
nell’Istituto almeno sei ore, durante le quali non avranno
accesso a nessun oggetto personale, neppure il cellulare
o l’orologio. Perderanno la nozione del tempo mentre si
sposteranno di sala in sala con indosso camici bianchi, «un
abbigliamento per sottolineare che saranno ore di eserci-
zi mentali e spirituali, di sperimentazione delle capacità
sensoriali, proprio come stare in un laboratorio», spiega la
Abramovic´.Quanto a lei,che in passato ha fatto un labora-
torio planetario della sua frequentazione di vulcani attivi,
di settimane di marcia lungo la Grande Muraglia e full im-
mersione per mesi nella foresta brasiliana, in ottobre starà
unmeseneldesertodelQatar.«PoitorneròinAmericadove
vivo da quindici anni. Ma non vengo qui per creare.Vengo
per consegnare le mie idee, senza mai scendere a compro-
messi col mercato dell’arte, perchè la mia anima non è in
vendita. Amo fare solo le cose che mi interessano. Quello
che ora mi interessa è elevare lo spirito umano».
COVER STORY
“Ilmiolavoroadesso
nonèpiùfare
performanced’arte,
macrearecultura
fondendoarte,
scienzaetecnologia”
Marina Abramovic´
fotografata da
Marco Anelli
in Brasile (2013).
5. D 84
lavita
Èun
attimo
Ilmaestrodella
fotografiadistrada
JoelMeyerowitz
raccontaaCortona
50annidiarte
centratasul“quieora”
di Valeria Fraschetti
D 85
GRANDI OBIETTIVI
I
l movimento è tutto. Energia,
luce, cellule. È l’essenza della
vita e dell’esperienza fotogra-
fica». Questa intuizione brilla
nei pensieri di Joel da 50 anni.
Si accende in lui un giorno del
1963,quandoèunpromettenteartdi-
rector dell’East Bronx. Viene spedito
dal suo capo a osservare un fotografo
scattareimmaginiperunlibrettodicui
aveva curato la grafica. Quel fotografo
è il gigante Robert Frank. Joel non ne
ha mai sentito parlare,ma resta incan-
tato da quell’uomo che si muove men-
tre fotografa persone che si muovono.
«A ogni clic vedevo il picco assoluto di
quell’istante». Il giorno stesso Joel ras-
segna le dimissioni, prende una mac-
china fotografica in prestito e corre nel
suo nuovo ufficio:la strada.
Joel è quel Joel Meyerowitz (oggi 75
anni) che ha saputo ritagliare alla stre-
et photography un posto al di fuori del
reportage.L’haelevataadarte.Benché
usasseilcolorecomelinguaggioprima-
rio,quando questo era ancora snobba-
to dai colleghi perché riproponeva il
mondotaleequale,senzatrasformarlo,
come si riteneva che la “vera” fotogra-
fia dovesse fare. Più tardi, Meyerowitz
ha anche contribuito a riabilitare il
banco ottico in un territorio che non
fosse quello del documentario. E ora,
dopo mezzo secolo, ha messo insieme
ilsuolavoroinunaretrospettivacapace
direstituireancoralaforzadiquelgior-
New York City,
1975. Pagina
accanto, sempre
Manhattan, 1965.
6. D 86
no con Robert Frank. In due volumi
che condensano i movimenti di cui è
stato testimone «nella loro breve ed ef-
fimera gloria»,istanti tragici e ironici di
vitaquotidiana.
Il sunto della sua opera si chiama Ta-
king my Time, “Prendere il mio tem-
po”. Lo stesso nome che avrà la sua
mostra ospitata,dal 18 luglio,all’inter-
no del festival di fotografia Cortona On
The Move.All’apparenza il titolo stride
con l’immagine di un fotografo che la-
vorasulfilodel“quieora”.Malasciar-
siandareallatentazionedellasemplifi-
cazione con Joel Meyerowitz significa
sbandare. «Durante la mia carriera,
grossomodo ogni sette anni, mi sono
concesso del tempo: per rimettere in
discussione il mio approccio, il mio
metodo», ci racconta, «perché la foto-
grafiaèanchestrumentodiscopertadi
sestessi».Nelfrattempo,ancheilsenso
dellafotografiastessaècambiato:«Ne-
gli anni 70 era considerata come una
forma di artigianato, di commercio».
Poi,è arrivata la sua promozione a for-
ma d’arte e, infine, l’era del sospetto
perl’immagine,acausadiinternet:«Se
Cartier-Bresson scattasse nella Parigi
di oggi, rischierebbe di essere fermato
dallapolizia:quandolagentescopredi
essere immortalata da una macchina
fotografica,specie di un anziano come
me, pensa al peggio: allo sberleffo sul
web,quando non alla pedofilia».
Un percorso di riflessioni ed evolu-
zionicheemergenelle600immagi-
ni(molteinedite)delsuolibro.Dal-
le celebri foto nelle strade della New
Yorkanni60,aquelleingrandeforma-
to, più riflessive, dei paesaggi di Cape
Cod,passando per quelle“più sociali”
e, per molti più note, di Ground Zero.
Nei giorni dopo l’11/9 è stato l’unico
fotografo ad avervi accesso illimita-
to. Eppure anche lì, in quel cratere di
morte e umiliazione, dice, «non ho
smesso di vedere il mestiere come
un’arteottimistache,nell’attimoincui
dai lo scatto,ti fa pensare“Yes”,sì!».
Perché per Meyerowitz il medium è
senz’altro il messaggio. «La fotografia
mi tiene in contatto con l’umanità»,
amaripetere.«Èunaformadicomuni-
cazione che permette agli esseri umani
di sentirsi più vicini». Non è l’estetica,
quindi,l’ingredientechefaparlareuno
scatto, ma il suo potenziale demiurgi-
co. «Una buona foto è una capsula del
tempo: deve trasportarci in quell’esat-
tomomentoincuièstatascattata,con-
nettere la nostra identità con quell’i-
stante e insegnarci qualcosa».
Questa «ricerca di una profondità che
porti ad elevare le persone» ora la sta
focalizzando in un progetto che è già
nel nome: Elements, un approfondi-
mento sui fenomeni che governano le
nostre vite. L’idea gli è venuta mentre
era a Colonia,in Germania,in una ca-
mera dai muri trasparenti interrata ai
bordi in una piscina olimpionica: «Ho
guardato l’enorme esplosione di bolle
prodotta dal tuffo degli atleti. E sono
rimasto lì, a osservarla ancora e anco-
ra».E così ha iniziato a voler andare «al
cuore di ciò che visibile».Uno sforzo al
quale si sta dedicando anche ora che
ha lasciato, per qualche mese, la sua
NewYorkperunafattoriadiBuoncon-
vento,nel senese.
Paesaggi, città, persone sono stati fis-
sati dal suo sguardo affamato,seppure
con approcci diversi. Quale filo invisi-
biletieneinsiemeisuoi50annidilavo-
ro?«Iltentativodisetacciarelabellezza
contenuta nell’effimero», confida. E ti
rendi conto che, nonostante gli anni,
Joel Meyerowitz porta con sé le trac-
ce del ragazzino del Bronx che è stato,
figlio di un piccolo commerciante di
origini ebraiche che, in quel quartiere
che era un proscenio su cui sfilavano
l’ironiaelatragediadellavita,glihain-
segnato a osservare il mondo come un
caleidoscopio di rivelazioni.
New York City, 1976.
Pagina accanto, un
parco nel Bronx, 1967
e, foto grande, Parigi,
sempre nel 1967.
D 87
CORTONA SI MUOVE
Il Viaggio sarà declinato in ogni forma
al festival di fotografia Cortona On
the Move 2013. Dal 18/7 al 29/9, corti e
vicoli della cittadina saranno animati
da racconti e immagini dei viaggiatori
per eccellenza, i fotografi. Giunto
alla III edizione, il festival ospiterà
mostre di artisti importanti: Joel
Meyerowitz, Christian Luz, Zed Nelson.
E workshop, proiezioni, letture di
portfolio arricchiranno un programma
che prevede anche l’assegnazione del
premio On the Move, che quest’anno
sceglierà il miglior lavoro fotografico
sul tema Happiness on the move,
felicità in movimento. Italiani on the
move è invece il nome della novità 2013
per i turisti desiderosi di condividere
un’esperienza di viaggio fatta entro il
1999. Pubblicate sul sito di Repubblica,
media partner dell’evento, le oltre
1500 foto inviate dai 500 partecipanti
daranno vita a una mostra del festival.
«Non ho mai smesso
di vedere il mestiere come
un’arte ottimista, che ti
fa dire mentre scatti: “Sì!”»