3. Il metodo clinico di Jean Piaget
L’originalità del metodo piagetiano sta proprio
nell’aver fatto convergere l’osservazione diretta
del bambino con il metodo del colloquio clinico di
origine psicoanalitica, al fine di comprendere le
sottigliezze del pensiero infantile
Per l’autore è necessario l’esame clinico,
consistente in un’interazione verbale a catena tra
bambino e sperimentatore, attraverso cui
quest’ultimo cerca di comprendere la linea di
ragionamento seguita dal bambino nelle sue
risposte (Piaget, 1926)
4. Piaget (1926) sottolinea alcune precauzioni che il
ricercatore dovrebbe prendere:
fondare il colloquio sulla base delle domande
poste spontaneamente dai bambini e raccolte
in occasioni precedenti
imparare il linguaggio dei bambini. Questo
punto è importante per due ragioni:
in rapporto alla padronanza del linguaggio da
parte del bambino
in rapporto alla formulazione verbale delle
domande da parte dello sperimentatore
5. La comunicazione con il bambino
Nel colloquio tra adulto e bambino sono privilegiati
codici comunicativi e linguistici non verbali
Il colloquio clinico con il bambino è soggetto a
dinamiche che si distaccano decisamente da quelle
delle varie forme di colloquio con l’adulto, anche
perché nel primo caso interagiscono nel rapporto
tra terapeuta e bambino le dinamiche psicologiche e
i comportamenti della famiglia del paziente dal
momento che, il più delle volte, il soggetto
manifesta il proprio disagio in riferimento a stimoli
che gli provengono dall’ambiente familiare
6. Un punto che differenzia
significativamente la terapia dell’adulto da
quella del bambino è il fatto che il piccolo
paziente non decide spontaneamente di
sottoporsi a questo tipo di cura ma vi è
“costretto” dai genitori che, in maniera del
tutto personale, stabiliscono il criterio di
normalità e/o di anormalità del proprio
figlio
7. Questo significa che l’approccio iniziale del
bambino al colloquio clinico è da principio
funzionale a quello che i genitori pensano di
questo tipo di terapia, ed evolve solo nel
momento in cui il giovane paziente riesce a
vivere in maniera “libera” (dalle influenze
dei genitori) il proprio rapporto con il
terapeuta
8. La differenza tra analisi dei bambini e
analisi dell’adulto concerne tutto lo
svolgimento della terapia e tutti gli
aspetti della relazione tra piccoli
pazienti e terapeuti
Il bambino, per la scarsa consistenza
della struttura linguistica e del
vocabolario, ha spesso difficoltà ad
esprimersi adeguatamente con le parole
9. Il linguaggio non verbale è una forma
comunicativa particolarmente utilizzata dal
bambino nella dinamica interazionale, tanto in
generale, quanto nello specifico ambito del
colloquio
Il linguaggio che si sviluppa da questo tipo di
comunicazione è soggettivo, dal momento che in
questa forma espressiva entrano in gioco non
solo una grande varietà di componenti istintive,
ma anche una serie di componenti imitative e
culturali che vengono apprese dal bambino nel
contesto familiare e sociale in cui vive
10. La personalizzazione del linguaggio non
verbale si sviluppa sin dai primi mesi di
vita del bambino, dando luogo ad una
serie di codici di comunicazione che,
dapprima decodificabili solo dalla madre,
successivamente divengono veicolo di
espressione per tutto il contesto sociale
nel quale il bambino si muove
11. Il volto costituisce sin dai primi mesi di vita un
importante canale di interazione tra l’adulto e
il bambino: esso rappresenta l’area del corpo
più importante e specializzata sul piano
comunicativo, veicolando l’espressione delle
emozioni e manifestando gli atteggiamenti
interpersonali
La rapidità e l’immediatezza espressiva
proprie del volto, infatti, rendono
particolarmente efficaci i messaggi non
verbali prodotti nel corso della comunicazione
interpersonale
12. Particolare rilevanza riveste la “ricerca
del volto dell’adulto” attraverso lo
sguardo. Si tratta della prima forma di
comunicazione intenzionale, che si
sviluppa sin dai primi giorni di vita, in
grado di stabilire precocemente – o di
rafforzare – la comunicazione reciproca
tra adulto e bambino
13. Solo in una fase evolutiva successiva – cioè alla
comparsa della motricità volontaria, costituita
da mimica e gesto – il bambino ha la possibilità
di partecipare più attivamente alla
comunicazione con l’adulto, esprimendo i
propri bisogni e sentimenti attraverso il
linguaggio del corpo e del gesto
In questa fase il bambino non solo utilizza il
linguaggio non verbale per scopi comunicativi,
ma se ne serve anche per soddisfare il proprio
bisogno di esplorazione del mondo, allo scopo
di conoscere l’ambiente che lo circonda
14. La risposta dell’adulto all’espressione e alla
comunicazione non verbale del bambino è
fondamentale perché questo possa
sviluppare forme differenti e
progressivamente più evolute di
comunicazione; la possibilità che il bambino
comunichi fattivamente con l’adulto è
conseguenza del fatto che quest’ultimo
consideri il bambino come individuo a sé
stante, dotato di esigenze personali ed
autonome, in grado di esprimere bisogni
individuali e specifici
15. Esiste poi come forma espressiva
caratteristica e privilegiata il “linguaggio del
gioco”, importantissimo ai fini terapeutici e
diagnostici, poiché il gioco si colloca tra la
realtà psichica interna e il mondo esterno,
consentendo al bambino di assorbire da
quest’ultimo una serie di informazioni e di
stimoli da utilizzare in base alle sue esigenze
e possibilità di apprendimento e di
assimilazione
16. È necessario che l’adulto si sforzi di
utilizzare i medesimi codici espressivi
del bambino, concedendogli quanto più
possibile attenzione e considerazione,
al fine di stimolarlo a sviluppare le sue
capacità espressive e comunicative
17. La relazione clinica con il bambino
L’utilizzo di forme di comunicazione non
verbali all’interno del colloquio clinico
non si ha solo nei casi nei quali il bambino
non ha ancora acquisito un’adeguata
padronanza del linguaggio verbale, ma
anche in tutti i casi di colloqui
terapeutici con bambini nei quali si
renda necessario concedere il massimo
spazio alla comunicazione istintiva e
“libera” del paziente (Petter, 1995)
18. Il limite di questo tipo di comunicazione
è dato dal fatto che il colloquio si può
sviluppare solo sulla base di domande
semplici riferibili ad oggetti o situazioni
presenti nel setting terapeutico, senza
che mai si renda possibile un progressivo
sviluppo delle domande e delle loro
conseguenti risposte
19. Quando il colloquio con il bambino può svilupparsi
sulla base di una comunicazione verbale, sorgono
difficoltà in relazione a due ordini di motivi (Petter,
1995):
i bambini piccoli sono coinvolti da interessi di tipo
ludico dai quali è di norma difficile distoglierli; la
comunicazione verbale resta circoscritta ad
argomenti che poco hanno a che vedere con il
colloquio e che riguardano invece oggetti o
argomenti specifici che catturano l’attenzione del
bambino in quel preciso momento
la conversazione, nel corso del colloquio, rimane in
genere circoscritta al presente senza che il bambino
riesca a prestare attenzione a quanto da lui
espresso sino a quel momento o a quanto espresso in
precedenza dall’interlocutore
20. Il colloquio può svilupparsi in forma
coerente se anche il bambino è in
grado di parteciparvi prestando
sufficiente attenzione al dialogo e
dimenticando il presente nel quale è
totalmente immerso, per proiettarsi
in una dimensione più ampia
21. Anche quando l’età del bambino – superati i 4 o 5
anni - consente l’instaurarsi di un colloquio
significativo con il terapeuta, restano problemi
relativi alla possibilità di ottenere risposte
attendibili (Diatkine, Simon, 1972)
Il bambino sottoposto al colloquio clinico tende a
produrre risposte generiche, casuali o fabulate, non
fornendo un quadro reale di quanto gli viene chiesto,
ma proponendo al terapeuta una sorta di racconto
fantastico comprendente avvenimenti recenti o
passati, ai quali vengono aggiunti particolari non
reali che, nell’ottica del paziente, costituiscono un
sistema infallibile per catturare l’attenzione
dell’operatore
22. Vi è poi un’altra tipologia di risposte non
utilizzabili dall’operatore fornite dal
bambino in conseguenza di domande
suggestive
Occorre tenere presente che i bambini
sono tanto più facilmente esposti
all’azione suggestiva (spesso involontaria
e inconsapevole) di un adulto quanto più
sono giovani (Petter, 1995)
23. È fondamentale che il terapeuta
consideri il bambino come un individuo in
sé completo, non limitando il suo
comportamento o i suoi disturbi al
contesto familiare e sociale nel quale si
muove, ma sforzandosi di fargli
prendere coscienza dei suoi problemi e
della sua personalità, a prescindere dalle
difficoltà derivanti dai rapporti con gli
adulti che lo circondano (Klein, 1950)
24. È necessario che il terapeuta si metta
quanto più possibile al “livello” del
piccolo paziente, utilizzando codici di
comunicazione verbale e non verbale che
siano facilmente accessibili al bambino
È il comportamento del bambino verso i
genitori, verso gli oggetti, verso il
terapeuta che va analizzato e capito
25. Il colloquio deve concedere ampio spazio
al gioco
Nel gioco il bambino si presenta meno
controllato e difeso, poiché la situazione
di fantasia e non di realtà gli consente
di esprimere i propri impulsi e desideri
senza dover temere le reazioni
dell’adulto, i suoi giudizi
26. Freud (1908), parlando per la prima
volta del gioco del bambino e
paragonandolo alla creazione poetica,
afferma che attraverso il gioco il
bambino crea un proprio mondo,
riordinando le cose presenti e passate
secondo il suo volere e la sua idea
27. Melanie Klein ha teorizzato per prima
l’uso dei giocattoli nella terapia infantile
come qualcosa di esattamente analogo
all’utilizzo delle libere associazioni nella
terapia degli adulti
“Nel gioco i bambini riproducono
simbolicamente fantasie, desideri,
esperienze” (Klein, 1926, p. 156)
28. Diversamente dalla Klein, Anna Freud ha
dedicato massima attenzione all’importanza
del sogno nella terapia infantile
Oltre all’analisi del lavoro onirico, la Freud
teorizza l’utilizzo del disegno come ulteriore
sostituto delle libere associazioni:
elaborando dei disegni nell’ambito del
setting terapeutico il bambino ha la
possibilità di lasciare emergere i propri
contenuti profondi
29. Winnicott (1958) sottolinea come il
bambino osservato insieme alla madre
possa fornire importanti elementi sul
grado del suo sviluppo emozionale
L’autore (1971) privilegia l’attività del
gioco
30. Winnicott (1971, 1989) utilizza la “tecnica
dello scarabocchio”: il terapeuta propone al
bambino un gioco consistente nel fatto che il
clinico traccerà sul foglio uno scarabocchio e
il piccolo lo completerà trasformandolo in un
disegno, tracciando poi a sua volta uno
scarabocchio libero su un nuovo foglio che il
terapeuta completerà
In tal modo si instaura un gioco in cui i
giocatori attuano mosse interpretativorelazionali attraverso scarabocchi, disegni
ed eventuali commenti
31. Scale di valutazione del bambino
Test di valutazione dello sviluppo e test
di intelligenza (WISC-R, Bayley, etc.):
completano il colloquio di valutazione
psicologico-clinica
Test di personalità: permettono una
valutazione qualitativa dei processi
psichici che concorrono
all’organizzazione della personalità
32. Tra i test di personalità si possono
distinguere:
questionari: poco usati con il bambino
per la lunghezza dell’esecuzione
test proiettivi: forniscono uno stimolo
percettivo che facilita la proiezione dei
temi affettivi rilevanti
33. Tra i proiettivi distinguiamo:
gli strutturali, di cui il più rilevante è il
Rorschach, forniscono indicazioni su come
l’individuo coglie la realtà, come organizza
la propria personalità, vive le sue
esperienze
i tematici evidenziano alcuni contenuti
significativi della personalità (sentimenti,
bisogni, conflitti, aspirazioni, timori, etc.) e
tra questi vi sono ad esempio il TAT, il
CAT, le favole della Düss
36. Il primo colloquio
Il colloquio con l’adolescente ha luogo tra un
adulto e un soggetto che non lo è ancora e per il
quale non è facile “aprirsi” con un individuo adulto
e parlargli delle proprie difficoltà, dei propri
problemi o disagi
I familiari che di solito accompagnano
l’adolescente rivestono il ruolo di “effettivi”
interlocutori del professionista
In particolare nel primo colloquio, il rapporto
interpersonale tra professionista e adolescente è
influenzato dal legame che l’adulto ha con la
propria adolescenza (Telleschi, Torre, 1997)
37. Molti autori (ad esempio A. Freud, 1958;
Blos, 1962) hanno evidenziato le
difficoltà che si possono incontrare
nell’approccio all’adolescente, ai suoi
sintomi, al suo trattamento causa la
particolare fase di sviluppo che sta
varcando
38. L’assenza delle figure genitoriali durante la
consultazione è molto significativa ed è una
situazione degna di indagine
Quasi sempre sono i genitori a domandare
una consultazione per il figlio; quando al
contrario, il giovane si presenta da solo è
rilevante investigare quale sia
l’atteggiamento dei caregiver verso la
consultazione e la richiesta
dell’adolescente
39. La finalità è di avere una visione degli
accadimenti relazionali nei quali egli è inserito,
individuare informazioni inerenti alle
inclinazioni relazionali della coppia genitoriale
e coniugale, osservare se il giovane
contribuisce all’unione o, viceversa, al distacco
dei caregiver, comprendere se la diade può
costituire un punto focale di alleanza con
l’operatore allo scopo di dare impulso ad
un’alleanza a favore dell’adolescente
40. Durante il primo colloquio con le figure parentali
possiamo avere tre diverse eventualità (Pandolfi,
1997):
i genitori chiedono la consultazione in merito ai
loro disagi come individui o come coppia nella
gestione dell’adolescente. È auspicabile, in questa
circostanza, vedere inizialmente la coppia e solo
in un secondo momento il giovane autonomamente
o con loro
i genitori domandano la consultazione per il
giovane causa le sue difficoltà ma palesano
estraneità a tali impedimenti, rivestendo così il
ruolo di invianti. Quando questo avviene, il
professionista tenterà di incontrare i tre attori
insieme
l’adolescente chiede la consultazione da solo. È
consigliabile, in questo caso, svolgere il colloquio
con i caregiver successivamente
41. Il fine del colloquio, quindi, può essere anche
quello di cercare di ripristinare la comunicazione
spezzata tra genitori e figli
Se la segnalazione è stata fatta dai genitori è
necessario indagare se il giovane è stato avvertito
ed eventualmente secondo quale modalità
Se l’adolescente si autosegnala occorrerà
prendere in esame i motivi della scelta (ad
esempio, per sganciarsi dalle relazioni infantili,
per conservarle senza accettare di proseguire
verso la separazione e l’individuazione) (Lis, 1993)
42. Proprio per la difficoltà di instaurare
un’alleanza terapeutica, sovente con gli
adolescenti il primo colloquio rischia di
rappresentare l’ultimo: l’adolescente non
è d’accordo sulla richiesta di
consultazione e i genitori possono
mostrare ambivalenza tra il volere
ricevere aiuto e il sentire le proprie
qualità genitoriali minacciate
dall’intervento del professionista
43. Spesso la richiesta di valutazione di un disagio
adolescenziale deve essere considerata una
richiesta dell’intero nucleo familiare che
attraversa delle difficoltà di fronte al
cambiamento del ragazzo e abbisogna,
pertanto, di un supporto perché il processo
adolescenziale di maturazione verso
un’identità adulta avvenga di pari passo alla
trasformazione della relazione genitoribambino in una relazione adulto-adulto
(Telleschi, Torre, 1997)
44. Tra i compiti dell’operatore spiccano il compito
di contenimento e il compito dell’ascolto
L’adolescente che attende il primo colloquio
auspica di incontrare un adulto competente che
possa identificarsi con lui, instaurare una
relazione positiva in un’atmosfera
caratterizzata da correttezza, impegno e
discrezione. Il ragazzo intende trovare qualcuno
in grado di ascoltare per comprendere e far
comprendere alle figure significative del suo
ambiente ciò che sta accadendo (Pietropolli
Charmet, 1999)
45. L’adolescente che giunge al colloquio può aver
voglia di parlare, può succedere che parli di sé
in termini astratti e intellettualizzanti come
una difficoltà da trattare senza farsi
coinvolgere direttamente (A. Freud, 1958; Lis,
1993), oppure può vivere l’operatore come una
figura intrusiva, minacciosa e analoga a quella
genitoriale dalla quale tenta di rendersi
autonomo, altrimenti può manifestare
disponibilità per il clinico come adulto distinto
dai caregiver
46. L’operatore dovrebbe mantenere un
atteggiamento di apertura rispetto ai
bisogni dell’adolescente
È possibile pregiudicare un’alleanza di
lavoro nel caso in cui con l’adolescente
avente una condotta ribelle il
professionista adotti un atteggiamento
reattivo punitivo, piuttosto che un
atteggiamento di comprensione
47. Obiettivi del colloquio
Individuare il funzionamento intrapsichico
dell’adolescente
Valutare la qualità delle interazioni familiari
Aiutare il ragazzo a definirsi e individualizzarsi verso
l’identità adulta
Esaminare con l’adolescente le aree della sua fase
evolutiva e verificare insieme il punto in cui si colloca
lo sviluppo di abilità evidenziando il vissuto soggettivo,
vale a dire la modalità in cui l’individuo rappresenti il
sé in quella specifica area e nei legami ad essa relativi
Dopo aver accertato quali aree sono implicate nella
situazione di disagio, l’operatore dovrebbe rilevare il
tipo di angoscia conseguente e gli eventuali
meccanismi di difesa adottati per fronteggiare
l’angoscia
48. Ricostruire i fattori che possono aver
generato la situazione di stallo
Far acquisire all’adolescente una
rappresentazione coesa ed integrata di
sé
Fungere da strumento che il giovane
utilizza per i suoi processi di
individuazione
Individuare le finalità terapeutiche
49. L’operatore dovrebbe giungere ad
individuare le caratteristiche
dell’adolescente, della famiglia e
dell’ambiente nel quale egli è inserito,
possibili fattori organici, durata e gravità
del problema, la struttura di personalità,
l’inclinazione comunicativa e riflessiva, i
meccanismi di difesa, i deficit, il
funzionamento intellettivo, le capacità in
ambito relazionale (Gislon, 1993)
50. Prima di formulare delle proposte terapeutiche è
preferibile svolgere due o tre colloqui
Le sequenza dei colloqui permette non solo una
valutazione dinamica dell’adolescente, ma anche
della sua famiglia (Marcelli, Braconnier, 1983)
Quando il clinico avrà terminato le consultazioni
di valutazione comunicherà le sue opinioni, le sue
osservazioni e le proposte di intervento adeguate
all’adolescente e ai genitori. Le informazioni che
verranno date al giovane dovranno essere chiare e
precise, senza nascondere le problematiche
51. L’impiego dei test
Con gli adolescenti si impiegano
strumenti applicabili dalla media infanzia
per quanto concerne test proiettivi e
test psicometrici
52. I test proiettivi
Le problematiche che appaiono cruciali
nel corso dell’adolescenza possono
essere accertate ed esaminate
attraverso l’impiego dei test proiettivi,
quali il Rorschach e il TAT
53. I test psicometrici
I test maggiormente usati sono i test di
intelligenza di Wechsler: WAIS dai 13
anni, WISC-R fino ai 16 anni e mezzo
54. La restituzione
L’obiettivo è di giungere a restituire
un’immagine globale dell’identità che
venga interpretata dal ragazzo come una
storia delle proprie relazioni passate e
presenti, come esito di un percorso che
permetta di entrare in contatto con
un’immagine di identificazione di sé