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1. Concetti preliminari




1. Che cos’è la comunicazione


La comunicazione può essere interpretata come un atto semplice e autoconclusivo o come un processo
dinamico.
Nel primo caso è più corretto parlare di informazione (intesa come attività performativa e manipolatoria), si
ravvisa cioè un’intenzionalità comunicativa (la semplice trasmissione di un messaggio da un emittente
a un destinatario). Il rapporto comunicativo si realizza dunque a partire da un disallineamento tra la fonte e il
ricevente.
Un secondo caso è rappresentato dal processo attivato dai membri di una società nei confronti di eventi
naturali o sociali ai quali vengono attribuiti significati a prescindere da qualsiasi intenzionalità comunicativa.
Anche in caso di una relazione condizionata, se, cioè alla modificazione di A corrisponde una modificazione
di B, si può parlare di comunicazione (in particolare, di dinamica stimolo-risposta ).
Bisogna però tenere presente che la comunicazione non appare per nulla come un atto definito, bensì come
un processo continuo.


La comunicazione può essere classificata secondo otto concetti di base:


1.Comunicazione come contatto.
2.Comunicazione come trasferimento di risorse e influenza.
3.Comunicazione come passaggio di informazione.
4.Comunicazione come condivisione.
5.Comunicazione come inferenza.
6.Comunicazione come scambio.
7.Comunicazione come relazione sociale.
8.Comunicazione come interpretazione.



Gli elementi costitutivi della comunicazione sono:


La fonte, per la quale bisogna considerare intenzionalità comunicativa, competenza e abilità, credibilità
della fonte, rapporto con il canale, livelli di efficacia.


Il messaggio , per il quale vanno considerati la strutturazione/codificazione del messaggio, la distinzione tra
simbolo, segno, segnale e messaggio, la distinzione significante/significato, i livelli di efficacia.


Il canale, per il quale vanno considerati l’immediatezza e la capacità.



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Il codice, per il quale vanno considerati il livello di arbitrarietà/controllabilità e il
trasferimento/trasformazione.


2. La comunicazione di massa


È importante distinguere tra comunicazione interpersonale e comunicazione di massa. Una prima differenza
è rappresentata dal feedback (retroazione), attività del ricevente determinata dall’emittente.
All’interno di uno scambio comunicativo interpersonale, l’emittente può adattare i propri messaggi in rapporto
alle reazioni degli ascoltatori (feedback improprio ).
Nelle comunicazione di massa il feedback può essere per forza di cose solo deduttivo.
La definizione della locuzione comunicazioni di massa è problematica, a partire dal concetto stesso di
massa. La variabile “quantità del pubblico” è importante ma non dirimente.
I mezzi di massa non consentono una comunicazione paritaria, in quanto non è possibile formulare risposte
differenziate ai messaggi. Altrettanto importante non è la massa in sé, quanto la pluralità dei destinatari.
Ugo Volli indica con comunicazione di massa le tecnologie di comunicazione a larga banda organizzate in
broadcasting, dove l’emittente è una e i destinatari molti, raggiungibili in virtù di due variabili: il possesso e
uso di un apparecchio ricevente e una localizzazione entro il raggio di copertura del segnale della fonte
emittente.
In realtà, seppur con forti limitazioni, i destinatari conservano una capacità di intervenire nel processo di
diffusione dei messaggi.
Thompson ritiene che il termine massa sia esso stesso fuorviante, in quanto lascia pensare a un pubblico
vasto e indifferenziato, sebbene sia ormai appurato che il pubblico possa essere segmentato e
analiticamente contestualizzato. Internet e il web 2.0 ci obbligano a riconsiderare i vecchi legami
comunicativi.
La definizione di Thompson diventa estremamente utile. La comunicazione di massa è: la produzione
istituzionalizzata e la diffusione generalizzata di merci simboliche attraverso la fissazione e
la trasmissione di informazioni e contenuti simbolici .


2.1 Le caratteristiche della comunicazione di massa Innanzitutto, il grande tema delle tecniche e
delle tecnologie impiegate per la riproduzione e la diffusione dei prodotti mediali.
Le tecnologie di trasmissione sono quelle che annulla o riducono la distanza spaziale.
Le tecnologie di rappresentazione sono quelle che forniscono rappresentazioni parziali del reale
Le tecnologie di riproduzione permettono la riproduzione in serie infinite di prodotti culturali.
Altre importanti caratteristiche della comunicazione di massa: mercificazione delle forme simboliche . I
meccanismi di valorizzazione sono molteplici.
Un terzo elemento da prendere in considerazione è individuato da Thompson nella separazione
strutturale fra la produzione delle forme simboliche e la loro ricezione ., il rapporto fra emittenti e
riceventi è fortemente strutturato e le dinamiche di controllo avvengono mediante forme di feedback
mediato oppure attraverso forme di decodifica anticipatoria .
La fase di produzione, di per sé, non è il primo stadio della costruzione di un prodotto comunicativo: prima
vengono la creazione del prodotto e la pianificazione del suo impatto sul mercato, dei suoi effetti.
Più che di diffusione sarebbe poi meglio parlare di trasmissione, che include concetti di tipo broad e narrow
(lo sviluppo non procede verso un’estensione, quanto verso una specializzazione dell’offerta)
La fase di consumo riguarda l’interazione tra tutta l’attività produttiva-trasmissiva e il mercato.


Thompson individua altre due caratteristiche della comunicazione di massa: l’estesa accessibilità delle
forme simboliche nello spazio e nel tempo e la circolazione pubblica delle forme simboliche .
La separazione fra i contesti di produzione e ricezione favorisce infatti l’accesso alle forme simboliche a
diversi anni e chilometri di distanza, oltre a contribuire a determinare nuove forme di vicinanza e intimità.
Questo concetto proviene da Anthony Giddens (1984), secondo il quale, nella high modernity, si sono
verificati il distacco di tempo e spazio e la despazializzazione della simultaneità. Tempo e spazio diventano
due variabili assolutamente disgiunte.
La circolazione pubblica delle forme simboliche è connessa all’ampliamento dell’accessibilità, una
caratteristica sempre meno portante a causa delle tecnologie che permettono la personalizzazione dei
processi comunicativi.
Secondo Thompson esisterebbero tre tipi di interazione comunicativa: l’interazione faccia a faccia,
l’interazione mediata e l’interazione quasi mediata. Quest’ultima, tipica dei media, consente di sfuggire ai
vincoli spazio-temporali e, a differenza delle altre due, non è dialogica ma si fonda su meccanismi di flusso.
Questa definizione tuttavia non si attaglia alle ultime tecnologie, come la TV on demand, e tantomeno alle
logiche del web 2.0, all’interno del quale (vedi Youtube) convivono forme broadcast, narrowcast, meccanismi
di auto-produzione e di partecipazione. Che cosa sono allora i media?


3. Cosa sono i media?


Marshall McLuhan intendeva come media tutti gli artefatti e le tecnologie umane, intesi in senso materiale e
in senso spirituale e culturale. Questa definizione ci ha permesso di intendere i media anche come forme
culturali.
Fausto Colombo cataloga i media in base alle loro caratteristiche linguistiche e tecnologiche, proponendo
così questa definizione: i media sono apparati socio-tecnici che svolgono una funzione di
mediazione nella comunicazione fra soggetti .
Questo ci consente di studiare i media sotto diverse prospettive.
1.Come apparati socio-tecnici.
2.Nel loro rapporto con i soggetti sociali.
3.All’interno dello sviluppo delle reti.
4.Nel rapporto fra attore sociale e società
5.Come tecnologie e circuiti culturali al tempo stesso.

La televisione è un medium non solo in quanto apparecchio televisivo, ma in quanto “simbolo” dell’intero
processo di broadcasting.
L’altro concetto che spicca è quello di mediazione, un processo instabile che riguarda non solo la traduzione
intesa come dinamica diadica ma che ha a che fare con i meccanismi di rappresentazione e con le forme
dell’esperienza. I media possono così essere studiati come soggetti e veicoli di cultura.

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4. Media e società


I media intrattengono un rapporto molto forte con la società, di cui comunque fanno parte. Gli operatori dei
media e i membri della società condividono, ad esempio, ideologie. Poiché gli operatori dei media hanno il
controllo delle tecnologie, sono loro a promuovere miti e ideologie.
Le istituzioni mediali si collocano al’interno di una rete di relazioni molto fitta.
A questo punto è necessario introdurre la questione del potere. Il potere è un processo in cui una fonte può
esercitare una forza o un’influenza su altre istituzioni o sull’oggetto raggiunto dall’istituzione mediale. È la
capacità di intervento sugli eventi nonché di influenza sulle azioni di altri soggetti attraverso forme
simboliche. Il potere simbolico dei media è andato accreditandosi grazie alla sua sovrapposizione con altre
forme di potere.
Garnham (2000) distingue due tipi di potere.
1.Potere strutturale
2.Potere economico
Queste due forme di potere possono essere potenziali o già presenti nella situazione sociale in cui i media
operano.
Il processo di distanziazione spazio-temporal e è uno dei meccanismi attraverso cui i media esercitano,
appoggiano, legittimano il potere.
Uno dei meccanismi più studiati riguarda proprio il rapporto fra istituzioni mediali e audience, concernente il
potere di costruzione del significato. In proposito è bene ricordare l’elaborazione di Denis McQuail (1994),
che individua due tipologie di potere attribuendo a esso sei caratteristiche.
Nel modello dell’egemonia la fonte sociale è costituita dall’élite dominante, i media sono controllati da
forme di concentrazione, la produzione è standardizzata, la visione del mondo è selettiva e decisa dai
gatekeeper, il pubblico è passivo.
Nel modello del pluralismo la fonte è costituita dai diversi gruppi sociali e politici, i media sono molti e
indipendenti, la produzione è libera e creativa, la visione del mondo è aperta al pluralismo, il pubblico è
frammentato, selettivo e attivo, gli effetti sono imprevedibili.
Le sei caratteristiche principali del potere dei media sono dunque
1.capacità di attrazione e direzione dell’attenzione del pubblico;
2.capacità di persuasione in questioni riguardanti opinioni e credenze;
3.capacità di influenzare comportamenti;
4.capacità di strutturare i meccanismi di definizione della realtà;
5.capacità di conferire status e legittimazione sociale;
6.capacità di fornire informazione rapidamente e in modo estensivo.

Queste caratteristiche possono rientrare anche nell’alveo della teoria dell’”imperialismo culturale”, secondo
cui la cultura statunitense eserciterebbe un peso immenso sull’intero pianeta (Schiller, 1969).
Secondo Schiller il potere mediatico discendeva direttamente dalla forza economica delle imprese
transnazionali. Questa teoria si è poi evoluta nel tempo, in quanto sempre più le aziende transnazionali
travalicano quello derivante dalla localizzazione statunitense di alcune di esse. Inoltre sono emerse
dinamiche glocal, dove i significati derivanti da media globali sono acquisiti e rielaborati da forme locali.
Hesmondhalgh critica Schiller in quanto sovrappone i concetti di dominazione culturale e imperialismo
culturale/mediale. Hesmondhalgh ribadisce dunque la necessità di studiare le complesse relazioni fra il
sistema del mercato contemporaneo e la cultura intesa come produzione e consumo di simboli. In questa
prospettiva appaiono più interessanti le prospettive delle più recenti tendenze dell’economia politica dei
media.


5. Media e modelli sociali


I vari modelli che cercano di interpretare le relazioni fra media è società possono essere così tripartiti:
1.modelli macro-sociali;
2.modelli micro-sociali;
3.modelli dinamici.
I modelli macro-sociali considerano i media capaci di imporsi sulla società, influenzandola o determinando
effetti specifici. Rimandano all’idea di comunicazione come trasmissione e possiamo farvi rientrare gli
approcci deterministici, marxisti e funzionalistici.
I modelli micro-sociali sostengono che la società usi i media. Questi ultimi sono strumenti di connessione e
auto rappresentazione che la società utilizza più o meno consapevolmente. In tale ambito possiamo
collocare gli studi sulla ricezione e i cultural studies, le tendenze del post-modernismo e gli audience studies.
I modelli dinamici sono quegli approcci secondo cui i media e la società risultano connessi secondo un
rapporto interattivo, in una dinamica di influenza reciproca. Si rifiuta così la logica degli effetti, ma si accetta
la dinamica dell’influenza sociale, si rifiuta il determinismo a favore di uno sguardo olistico. Abbiamo dunque
a che fare con gli approcci interazionisti, gli audience studies più recenti e l’area del “realismo discorsivo”.




3. Il problema degli effetti




1. Le teorie degli effetti


Nel corso della storia dei media studies possiamo individuare quattro fasi: quella dei media onnipotenti va
dall’inizio del Novecento agli anni trenta e si regge su un concetto di comunicazione univoco e trasmissivo.
La seconda fase coincide con lo sviluppo delle ricerche empiriche e determina la verifica della teoria dei
media onnipotenti.
La terza fase corrisponde alla riscoperta del potere dei media . L’attenzione viene spostata sul
cambiamento a lungo termine, sulle cognizioni, sulle variabili intervenienti di contesto, disposizione e
motivazione, sui fenomeni collettivi come l’opinione pubblica, le credenze, le ideologie, gli schemi culturali e
le forme istituzionali di offerta dei media.




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La quarta fase viene definita influenza negoziata dei media e sostiene che la comunicazione di massa
fornisca significati socio-culturali che comunque vanno reinterpretati e ristrutturati dal pubblico, capace
talvolta di offrire forme di resistenza.
Quest’ultima fase adotta una prospettiva metodologica non quantitativa. Mauro Wolf non estrapola dai
periodi storici i paradigmi percepiti come dominanti ma cerca di individuare le linee di sviluppo costanti. Le
teorie degli effetti rappresentano uno dei modi di interpretare la comunicazione. Possiamo provare a
raggrupparle per aree teoriche omogenee.
•Hypodermic effects Considerano i media come produttori di effetti diretti sugli individui.
•Copycat effects Ritengono che i media siano capaci di attivare dinamiche di imitazione.
•Innoculation theory Le audience mediali si desensibilizzano ai contenuti mediali a causa dell’esposizione
ripetuta agli stessi contenuti.
•Two-step flow theory L’influenza dei media è considerata indiretta: mediazione effettuata da opinion
makers nelle istituzioni mediali e da opinion leaders nei gruppi sociali.
•Uses and gratification theory Le audience scelgono da cosa farsi influenzare.
•Cultivation theory Proviene dall’ipotesi delle coltivazione: il consumo ripetuto di alcuni contenuti mediali
determina la “coltivazione” di attitudini e valori.


1.1. Diffusione dell’informazione Produce solitamente effetti a breve e medio termine ma con
conseguenze sul lungo periodo. Per questa ragione i modelli di diffusione dell’informazione vengono
classificati come effetti intenzionali a lungo termine. In pratica, ogni notizia non si limita a fornire
informazione ma produce una comprensione da parte delle persone. La diffusione dell’informazione è
misurabile attraverso lo studio del ricordo degli eventi.
Alcuni eventi possono subire un’operazione di “remind”.
Le variabili usate in queste ricerche sono quattro: 1. il grado di conoscenza di un dato evento; 2. l’importanza
relativa dell’evento in questione; 3. il volume di informazione trasmessa in merito; 4. in che misura la
conoscenza di un evento proviene dai mezzi di informazione.
Uno dei modelli più utilizzati è la curva a J di Greenberg:
•per gli avvenimenti noti a tutti, una quota elevata è stata informata tramite contatto personale:
•per gli avvenimenti noti a quote decrescenti, scende la percentuale di quelli raggiunti da contatto personale
e sale quella da fonte mediale;
•per gli avvenimenti noti a settori ridotti sale la quota raggiunta da contatti personali.
La misurazione della diffusione è resa complicata dalla forte presenza di hard news e dall’esistenza di
variabili storico-ambientali non facilmente inquadrabili.


1.2. Agenda setting Elaborata da McCombs e Shaw negli anni settanta, secondo questa teoria gli
individui tenderebbero a includere o escludere dalle proprie conoscenze ciò che i media includono o
escludono dal loro contenuto. Il pubblico assegna importanza a ciò che viene enfatizzato dai media. Anche
questa teoria rientra nell’area degli effetti intenzionali a lungo termine.
Secondo questa teoria, i media non sarebbero i responsabili dei contenuti sui quali pensiamo bensì della
scelta di tali contenuti. Vengono ridimensionati gli effetti che sono mediati dalle predisposizioni del ricevente;
il potere di agenda varia in rapporto alle diverse aree tematiche ed è maggiore quanto più i temi sono distanti
dalle esperienze dei destinatari della comunicazione. Tra gli interesse prevalenti della teoria vi sono la
tipizzazione e la gerarchizzazione degli “oggetti cognitivi”. La teoria, cioè, esclude gli aspetti valutativi .
Molti critici la ritengono ancorata al modello “stimolo-risposta”, anche se gli stessi McCombs e Shaw
evidenziano che non esiste una sola agenda, ma anche quella dell’audience e della stessa politica. Le tre
agende sarebbero interconnesse, e grazie a questo rapporto le audience avrebbero una maggiore
autonomia di analisi e giudizio.
La teoria è facilmente applicabile negli studi sul newsmaking e rappresenta una parte importante nella
strutturazione delle campagne elettorali.


1.3. Effetti di framing Il modo in cui le notizie sono incorniciate dai giornalisti e il modo in cui
le incornicia il pubblico possono essere simili o differenti . Le notizie risulterebbero di più agevole
comprensione se incorniciate all’interno di convinzioni pregresse del pubblico. La costruzione di un frame si
muoverebbe come una decodifica anticipatoria .
Esistono due tipi di frames: i media frames e gli individual/audience frames, correlati e dipendenti tra loro.
Possiamo individuare quattro tipi di framing:
1.media frames elaborati dai giornalisti
2.trasmissione pubblica delle notizie
3.accettazione dei frames da parte del pubblico
4.feedback del pubblico che tende a rafforzare le dinamiche di framing.
Le due cornici non sono sempre corrispondenti: entrano in gioco le strutture cognitive dei soggetti, fondate
su esperienze pregresse non generalizzabili. Vengono individuati diversi tipi di framing nella narrazione
giornalistica:
1.conflitto;
2.interesse umano/personalizzazione;
3.conseguenze previste e/o ipotizzabili;
4.incornicia mento morale/moralistico
5.responsabilità.
Un esempio di framing si ha quando gli spin doctors costruiscono notizie sui propri candidati incorniciandole
entro un quadro logico e di facile accesso all’opinione pubblica.
Dalla teoria del framing si sono sviluppati anche metodi di immagine, come la frame analysis, o il priming,
traducibile come “innesco”, “facilitazione”, “attivazione”. È un fenomeno che deriva dalle scelte giornalistiche
di privilegiare o marginalizzare determinati argomenti, riguarda il peso della copertura informativa sulle varie
issues e non il peso della gerarchia delle stesse issues.
Si tende oggi a parlare di agenda building, attraverso il quale la società seleziona alcuni temi e li consegna
alle istituzioni. Questa prospettiva assegna un ruolo determinante alla sfera pubblica (in particolare negli
Stati Uniti, dove la presenza e la funzione dei gruppi di interesse è stata più decisiva dei partiti).


1.4 Teoria dei knowledge gaps I media svolgono una doppia funzione : da un lato modificano le
differenze di conoscenza derivanti dalla forbice sociale, dall’altro la forbice tra i diversi settori del pubblico
tende ad allargarsi a causa della maggiore richiesta di qualificazione e competenza. Lo scarto si amplia per
la crescita esponenziale delle competenze negli strati superiori della società. Le nuove tecnologie

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accentuano le differenze tra i gruppi sociali che possiedono e possono accedere all’informazione e quelli che
invece non possono.
La crescita dei canali specializzati favorisce un uso più consapevole e libero dei media, ma una fetta di
individui continua a non accedere ai nuovi servizi accentuando il distacco dalle élite.
La teoria dei knowledge gaps è una teoria sulla distribuzione della conoscenza. Baldin, McVoy e Steinfield
individuano otto diversi tipi di gap:
•gap informativo;
•gap nella fruizione dell’intrattenimento ;
•gap sociale;
•gap nella capacità di discriminazione dei messaggi televisivi ;
•gap nell’abilità di evitare gli spot commerciali ;
•gap nell’informazione legata al consumo ;
•gap fra minori;
•gap centro/periferia.

1.5. Spirale del silenzio Si inserisce nell’alveo degli effetti non intenzionali a lungo termine : la
società minaccia di isolare gli individui devianti, gli individui temono l’isolamento e quindi si rapportano
costantemente con quello che viene percepito come clima di opinione dominante.
Due tipi di conseguenze: individuali e collettive. Tra le prime, vanno segnalate la dissimulazione delle
proprie opinioni in minoranza e la loro manifestazione in maggioranza. Le idee percepite come dominanti
quindi si diffondono con un effetto “a spirale”, mentre le opinioni minoritarie sono destinate all’oblio.
I media possono proporre come maggioritaria un’opinione, influenzando le opinioni effettive dell’audience.


1.6. Teoria della coltivazione È una teoria sugli effetti a lungo termine prodotti dalla televisione. Ritiene
che tra la realtà e l’immagine che ne dà la TV esista una discrasia . I media quindi possono
influenzare le persone circa la realtà fenomenica e la televisione può diventare un vero e proprio agente di
omogeneizzazione culturale.
L’esposizione alla TV induce un meccanismo di mainstreaming. Nel caso della violenza fruita si verifica un
differenziale di coltivazione . Questo meccanismo determina un differenziale tra television answer e
reality choice: è possibile quantificare gli effetti di coltivazione.
La teoria di Gerbner non va confusa con il meccanicismo dei modelli “stimolo-risposta”. La cultivation theory
si basa sull’idea che la televisione produca l’adozione sociale di modelli stereotipati. La TV costituisce una
specie di ambiente simbolico, coerente al suo interno, che definisce i meccanismi di costruzione della
percezione della realtà sociale.
All’interno della teoria si situa il paradigma cultural indicators project, che intende studiare i meccanismi di
produzione mediale e la relazione fra esposizione dell’audience ai messaggi televisivi e i comportamenti
sociali.


1.7. Teoria della dipendenza Parte dall’assunto che la porzione di realtà che gli individui possono
conoscere direttamente è assai meno vasta e significativa di quella a cui possono accedere attraverso i
media. Gli individui tendono quindi a dipendere dai medi per la conoscenza di informazioni e nozioni
funzionali ai propri scopi.
Il sistema dei media costituisce una risorsa fondamentale della società e instaura relazioni molto articolate
fra tale sistema e il sistema politico: i due sistemi dipendo l’uno dall’altro.
Gli individui dipendono dai media per il raggiungimento di tre scopi principali:
1.la comprensione;
2.l’orientamento;
3.lo svago.
Al centro della riflessione della teoria è posta l’esistenza di “reti” dipendenti tutte dai media per
l’interpretazione della realtà sociale. Vi sono molti contatti con l’approccio uses and gratification.
De Fleur e Ball-Rokeach usano un paradigma di tipo cognitivo per spiegare il processo psicologico che
determina il rafforzamento della dipendenza dai media. Si articola in quattro fasi:
1.gli individui si espongono ai media attraverso una scelta (selezionatori attivi ) o casualmente
(osservatori casuali);
2.si determinano forme di dipendenza, attivate da vere e proprie stimolazioni cognitive ;
3.si ha il coinvolgimento;
4.si producono effetti cognitivi , affettivi e comportamentali .
La teoria ipotizza l’esistenza di effetti “forti” sebbene in presenza di un’audience non necessariamente
passiva.


1.8. Le distorsioni informative della stampa Gli individui, secondo Lippmann (1922), agiscono in
conseguenza di ciò che ritengono reale a partire dalle descrizioni provenienti dalla stampa. Le forme di
distorsione dipendono da fattori interni al lavoro giornalistico peraltro difficilmente controllabili. Le dinamiche
di newsmaking determinano forme di distorsione involontaria . Bisogna porre in evidenza che la stessa
modalità di produzione delle informazioni determina la decontestualizzazione dei fatti , lo sviluppo di
fattoidi, la mutazione genetica degli eventi. Le esigenze del trattamento delle notizie sono la causa di
routine produttive. L’immagine che la gente ha della realtà si configura come una conseguenza del modo in
cui i media vengono usati per dare le informazioni.


1.9. Teoria situazionale I media contribuiscono alla sedimentazione e alla ristrutturazione dei sistemi di
senso, costruiscono ambienti sociali ed è il loro “codice di accesso” che determina le capacità di decodifica e
interpretazione da parte dei destinatari. Pensiamo al successo della TV: nessuno ha bisogno di istruzione
per poterla guardare.
L’ambiente informativo comune non produce necessariamente comportamenti uniformi ma può favorire lo
sviluppo di gruppi superficiali e talvolta effimeri.
L’elaborazione di Meyrowitz può essere così riassunta.
•I media costruiscono ambienti sociali che includono o escludono, uniscono o dividono le persone in modi
specifici.
•È il codice di accesso al medium che determina chi dispone del potenziale di codifica e decodifica
necessario per inviare messaggi e accedere al patrimonio di informazioni disponibili.


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•Il successo della televisione è dovuto anche al superamento dei condizionamenti impliciti nel codice della
scrittura.
•I media elettronici hanno portato alla rottura dei sistemi informativi specialistici e segmentati creati e
mantenuti dall’alfabetizzazione e dalla stampa.
•L’ambiente informativo quotidiano non produce necessariamente comportamenti uniformi ma favorisce la
formazione di gruppi più superficiali ed effimeri.
•L’indebolimento dei luoghi di socializzazione favorisce l’adozione di comportamenti e pratiche da
retroscena.
La TV abbatte le barriere percettive che delimitavano nel passato i diversi territori sociali, la TV ridisegna la
nostra conoscenza sociale.


1.10. Il controllo sociale Herman e Chomsky affermano che i media difendono implicitamente l’ordine
sociale esistente. Il contenuto dei messaggi: a) difende norme e convinzioni sociali; b) dà voce alle élite
dominanti; c) oscura e condanna i comportamenti “non conformistici”; d) propone soluzioni ai problemi
nell’ambito delle regole date; e) tende a determinare “panico moralistico” e a creare “capri espiatori”.
Secondo la teoria, i media omettono volontariamente alcune informazioni e producono un controllo sociale
omologativo e/o “tranquillizzante”. La questione riguarda il più generale tema dei rapporti fra la società e i
media nonché le problematiche riguardanti il potere e il controllo.


1.11. Gaze theory Sono le cosiddette teorie dello “sguardo”. Nei media studies si fa riferimento all’approccio
femminista allo sguardo cinematografico. Laura Mulvey, nel suo Visual Pleasure and Narrative Cinema
(1973), teorizza che il cinema riproponga modelli patriarcali. Esprime l’idea che la macchina da presa
assuma sempre il POV maschile. Il processo di oggettificazione viene enfatizzato dai movimenti della
macchina da presa che esplorerebbe il corpo femminile come oggetto di piacere in una prospettiva maschile.
Lo sguardo maschile viene così adottato anche dalle donne, che hanno appreso che la loro “natura” è quella
di essere guardate.
Simili approcci sono stati applicati anche alla fotografia e alcuni ricercatori hanno usato tecniche della frame
analysis per individuare le forme dello sguardo maschile o, comunque, erotizzante.
John Ellis (1992) ha applicato il concetto di gaze alla TV: il grado di disattenzione dei telespettatori è
responsabile di un’attenuazione dell’effetto di oggettificazione. Ellis adopera il concetto di glance, che
riconduce alla nozione di intenzionalità. Diventa a questo punto difficile parlare di “effetto”, al massimo si può
fare riferimento all’influenza.
L’elaborazione della Mulvey è importante nella costruzione del pensiero della differenza.
La versione originaria della gaze theory adottava una posizione meccanicistica, poi rivista, e la Mulvey
proponeva un’analisi teorica elegante ma senza riscontri empirici.


1.12. Per concludere Molte teorie sugli effetti si concentrano sulla dimensione diacronica, indicando
come più rilevanti gli effetti a livello cognitivo (rappresentazione della realtà ). Tali effetti deriverebbero
dall’immersione del soggetto nel flusso comunicativo. Molte delle teorie più pessimistiche appaiono di fatto
fondate sull’assunto della dipendenza .
2. Effetti: un modello che non funziona


Il macro-modello degli effetti è alimentato dall’idea di fondo che i contenuti mediali producano sempre
esiti, per lo più pericolosi.
Il modello degli effetti ha successo perché semplice, deterministico e tranquillizzante. Non richiede alcuna
difficoltà concettuale. Lo stesso sistema dell’informazione trova maggiore facilità a spiegare fenomeni sociali
ricorrendo a uno schema “causa-effetto”.
La responsabilità è anche del mondo accademico e della ricerca, che ottiene più facilmente finanziamenti
pubblici con gli studi sugli effetti dei media, specialmente sui bambini. Inoltre i risultati si prestano alla
narrazione sociale. Lavorare sugli effetti è facile e conveniente, ma spesso la ricerca scientifica è in balia di
un uso ideologico/strumentale.
Sul tema degli studi sugli effetti, David Gauntlett ha realizzato Moving Experiences. Media Effects and
Beyond (1995). Gauntlett prende in considerazione decine di ricerche allo scopo di verificarne la fondatezza
metodologica e segue con attenzione il dibattito sugli effetti. Le obiezioni di Gauntlett sono riassumibili in
dieci punti.


2.1 Dieci motivi per ripensare la questione degli effetti


Il modello degli effetti non considera i problemi sociali Ha come punto di partenza i media e solo
successivamente stabilisce connessioni fra questi e la società. Molte delle ricerche che si collocano in
quest’area non considerano variabili importanti come il contesto sociale. A proposito, Gauntlett cita una
ricerca del 1994 che studiava le relazioni tra adolescenti e media. Dalla ricerca emerse che gli studenti
sanzionati per atti di violenza guardavano la televisione per un tempo medio di gran lunga inferiore rispetto al
gruppo dei “bravi ragazzi”. Le cause dei comportamenti violenti erano da ricercare altrove.


Il modello degli effetti considera i minori inadeguati Le ricerche studiano i minori solo come
potenziali “vittime” dei media. Molte ricerche di ambito psicologico si risolvono spesso in vere e proprie
“trappole” per i soggetti. Molte di queste ricerche utilizzano metodi e strumenti provenienti dalla cosiddetta
“ricerca clinica”.
Anche la ricerca italiana oscilla tra i due poli dei minori come soggetti “adulti” che usano i media per processi
di “auto-socializzazione” o, dall’altra parte, del minore come “minus habens”. Entrambi gli approcci sono
venati di un eccessivo semplificazionismo. Tuttavia esistono diverse ricerche che “ascoltano” i minori e ne
considerano le capacità, adottando approcci “grounded-theory”.


Il modello degli effetti si fonda su un’ideologia superficiale Gli studi sugli effetti infatti assumono
che: a) i problemi non sono presenti nell’organizzazione sociale e nelle disuguaglianze sociali ma b) in una
specie di “spirito magico” prodotto dalla cultura popolare. La violenza presente negli audiovisivi viene spesso
tematizzata come gratuita, ma, al tempo stesso, è considerata “misurabile”.
Questa logica conforta chi ritiene che le cause della violenza vadano cercate nei media, che rappresentano
un ottimo bersaglio su cui scaricare i problemi sociali. Anche quando si parla dei bambini “lasciati da soli”


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davanti al televisore, spesso non si coglie l’espressione “lasciati da soli” implica una responsabilità
genitoriale.


Il modello degli eff etti non definisce l’oggetto di studio Le teorie degli effetti non discriminano tra i
contenuti mediali e le loro conseguenze. Gli stessi “atti di violenza” sono genericamente definiti in maniera
non discriminante. Molti studi classificano tutti questi atti in base al “livello di aggressività”. Ne derivano
curiose tassonomie (vedere una sparatoria in un film western equivale a vedere un uomo morire sulla sedia
elettrica).


Il modello degli effetti si fonda spesso su studi artificiali Molte ricerche sono state realizzate in
setting laboratori ali, decontestualizzati dalla fruizione “naturale”. I bambini, è stato notato, spesso cambiano
atteggiamento in funzione di ciò che ritengono gradito agli adulti.


Il modello degli effetti presen ta una metodologia problematica Si tende ad accettare errori
grossolani solitamente del tutto stigmatizzati negli altri campi delle scienze sociali. Un errore molto frequente
è quello di costruire set di “conseguenze” non dimostrabili, stabilendo correlazioni scorrette. Ad esempio: un
comportamento antisociale è causato dalla fruizione di programmi TV violenti oppure chi ha
comportamenti antisociali preferisce vedere programmi violenti? Accettare tali errori legittima chi
accusa le scienze della comunicazione di scarso rigore metodologico e di semplicismo impressionistico.
Peraltro, le ricerche “impressionistiche” si radicano su visioni di tipo positivistico.


Il modello degli effetti analizza la violenza in maniera selettiva Si concentra sull’analisi delle
immagini e della rappresentazione di comportamenti violenti in film e fiction. Dà poca importanza alla
violenza decontestualizzata dell’informazione e dei factual programs.
Molti studioso hanno evidenziato una “violenza del discorso” come forma di discomunicazione . Guido Gili
(2006) ha introdotto il concetto di “violenza tiepida ”, che solitamente la ricerca sugli effetti non prende in
considerazione (talk show, reality, dibattiti politici).


Il modello degli effetti evidenzia un complesso di superiorità Da parte dei ricercatori. Le teorie
ritengono che i media abbiano la capacità di determinare effetti su tutti i soggetti raggiunti dai loro contenuti,
meno che sugli stessi ricercatori. Questo esito è reso possibile da una scarsa analisi del reticolo di relazioni
sociali che, unite alle dinamiche di uso dei media, contribuiscono a formare meccanismi di influenza.


Il modello degli effetti non considera il significato dei media In molte ricerche non si trova alcuna
analisi delle modalità di costruzione del significato. In realtà i significati mediali e lo stesso processo di
costruzione dei significati derivano da un’attività cooperativa. L’ encoding-decoding model elaborato da Stuart
Hall ha messo in luce la dinamica di “incorporazione” e di “resistenza ”.


Il modello degli effetti non ha radicamento teorico Non esiste un modello teorico che spiega perché
la gente dovrebbe copiare i media. Si tratta di un assunto discutibile. Non esiste alcuna teoria sistematica e
fondata sugli “effetti” (ne esistono sull’influenza). I diversi approcci trovano conferme limitate a un territorio.
Le condizioni strutturali e sociali risultano co-agenti sui processi operati dai contenuti mediali. Questo fa
crollare l’orientamento nomo tetico del modello degli effetti.


3. Effetti e influenza


Possiamo affermare che:
1.i media non producono effetti de terministicamente intesi;
2.essi però possono contribuire a sviluppare forme di “influenza”.
Il concetto di influenza è molto importante e dipende da molte variabili:
1.
•dipende da fattori personali e sociali;
•dipende dal contesto di ricezione ;
•è più o meno forte a seconda dei valori già diffusi nell’audience;
•può tradursi in forme di brevi “effetti comportamentali”.
L’effetto comportamentale (si pensi alle campagne di solidarietà) non implica una trasformazione
attitudinale .
La pluralità dei fattori in gioco in una rete rende superate e inadatte espressioni che si rifanno al processo
unilineare e monodirezionale del modello “stimolo-risposta”.
Il termine influenza non riduce l’importanza sociale dei media e la loro responsabilità politica. Da una parte si
abbandona l’idea che un messaggio possa indirizzare pedissequamente tutti i soggetti raggiunti; dall’altra si
considera il peso che i media hanno nei processi di costruzione del consenso.
La nozione di “microeffetti” è estremamente efficace poiché fa riferimento ad aspetti che possono attivare
elementi influenzanti ma che non sono in grado di generare un significativo mutamento d’opinione. Gli
esperimenti di Kepplinger e Dombach (1987) hanno evidenziato l’importanza delle inquadrature televisive
nell’attivazione di percezioni diverse dei candidati politici.
I telespettatori studiati da Keeter (1987) mostravano una maggiore disposizione a essere “influenzati”
dall’immagine televisiva dei candidati. Tale risultato dimostra l’incremento dei fattori che generano
consenso intorno a un candidato, e non un effetto “diretto” della televisione.
Si riscontrano micro-effetti anche nelle esperienze di partecipazione politica e sociale rintracciabili nei
processi di social-networking.


4. Misurare e/o descrivere? Dalla misurazione degli effetti alla misurazione del pubblico


Le teorie degli effetti hanno fatto riferimento soprattutto a metodi quantitativi. Gli studi nati all’interno dei
cultural studies hanno invece utilizzato approcci qualitativi.
Gli studiosi si sono spesso divisi sui metodi di ricerca, e la polemica è stata superata in favore di approcci
ibridi.
I fattori che hanno favorito gli approcci quantitativi sono diversi: il valore generalizzante del “numero”, un
diffuso pregiudizio positivista, la più agevole “vendibilità” e “notiziabilità”.
In realtà già molte delle ricerche quantitative nate nell’alveo della “ricerca amministrativa” possedevano un
impianto metodologico articolato e adottavano diversi metodi.
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Le ricerche qualitative hanno dovuto affrontare il pregiudizio positivista circa il loro apparente
impressionismo. Anche nel loro caso, però, un pregiudizio “in positivo” riguarda la possibilità di generalizzare
i risultati ottenuti, consegnandoci tendenze che potrebbero permettere forme di generalizzazione dei risultati.
Si va sempre più verso un superamento dello scontro quantitativo vs qualitativo, anche se esistono differenti
tradizioni di ricerca e metodologie ormai sedimentate.
D’accordo con Kim Christian Schrøder possiamo riassumere gli approcci di ricerca in quattro grandi
aree;
1.la ricerca quantitativa sull’audience;
2.la ricerca sperimentale;
3.la ricerca sulla ricezione;
4.la ricerca etnografica.
Le ricerche fondate sulle teorie degli effetti hanno fatto uso prioritariamente delle prime due. Ma già
all’interno della ricerca amministrativa vi furono molti autori che criticarono l’uso troppo disinvolto del dato
numerico. Fu proprio l’uso quasi “ideologico” dei metodi quantitativi a costituire uno dei più significativi motivi
della frattura tra Adorno e Lazarsfeld.
La Scuola di Francoforte usò tre argomenti contro i metodi quantitativi:
1.l’inevitabile sovrapposizione tra audience studies e studi quantitativi sulla persuasione;
2.il carattere ideologico di tali approcci: i “francofortesi” avevano intuito che la misurazione del pubblico
portava verso una sua oggettificazione;
3.il riduzionismo comportamentista .
Gli approcci quantitativi negli anni si sono molto modificati, abbandonando alcune rigidità di derivazione
positivista a favore di metodi al contempo induttivi e deduttivi. Gli approcci quantitativi hanno abbandonato
forme di analisi troppo ancorate all’evidenza del numero a favore di percorsi di studio più flessibili.
Una spinta in tal senso è venuta dall’evoluzione delle ricerche classiche in forma di survey, il cui concetto
implica un’indagine critica. Le forme più comuni di survey sono quelle riguardanti la misurazione
dell’audience ma tale approccio è stato impiegato anche in altri ambiti di ricerca sui media.
Gli studi sulla ricezione di Dallas portarono allo studio della “lettura negoziata ”, cioè di come il serial
venisse recepito in maniera differente dai diversi pubblici.
Le forme di monitoraggio sui media tradizionali sia le svariate modalità di new media monitoring adoperano
diversi tipi di survey.


4.1 Misurare il pubblico dei media Lo studio del pubblico non può prescindere dalla sua misurazione.
Le società contemporanee hanno la necessità strutturale di conoscere la configurazione dell’audience.
Il concetto di misurazione si è evoluto: considera anche le modalità di fruizione e i suoi significati sociali.
Possiamo individuare quattro modalità di misurazione:
•quantitativa;
•motivazionale;
•stile di fruizione;
•usi sociali.
La più comune è quella quantitativa, effettuata attraverso strumenti audiometrici.
Le rilevazioni possono essere di due tipi: ricerche per campione e rilevazioni d’ascolto . Le due
variabili sono spesse fuse insieme nel people meter, dove uno strumento di rilevazione è collegato al
televisore principale della famiglia membro del campione.
L’introduzione di una rilevazione sistematica e automatica degli ascolti cambia in maniera radicale l’uso e la
stessa funzione sociale della televisione.
I vantaggi prevalenti sono il campione statisticamente stratificato e la facile ed efficace generalizzabilità
dell’audience.
Gli svantaggi sono l’errore statistico, la possibilità di manipolazione e la scarsità di informazione sulle
modalità di fruizione.
Un altro caso interessante è il BARB del sistema britannico, che studia 1500 famiglie corrispondenti a oltre
11.500 soggetti.
La misurazione delle motivazioni si colloca in un’area intermedia. Si analizzano le idee, i giudizi, le
valutazione del telespettatore, cioè il modo di dispors i.
Gli strumenti più frequentemente utilizzati sono quelli psicometrici classici, dal questionario alle scale di
valutazione. In una zona ibrida si situa la misura del gradimento , cioè la misurazione del grado di
soddisfazione che il pubblico ricava dalla visione di un programma; costituisce uno strumento di inferenza
per la definizione di “qualità” di un programma. Vengono utilizzate due grandi famiglie di scale: a) la
progressione lineare; b) la progressione non lineare.
Le forme di sovrapposizione fra il modello degli effetti e le idee più tradizionali di “misurazione” dell’audience
sono molto evidenti: si fondano sull’idea della comunicazione come processo trasmissivo.




5. Da Simmel alla svolta semiotica


1. Il dialogo


Dialogo come dia-logos, la “parola che sta in mezzo”, disponibile a tutti ma che non appartiene a nessuno,
nessuno può ritenersene depositario unico.
Il significato non può che derivare da un processo cooperativo e lo stesso senso sociale non può che darsi in
una dimensione razionale. Emmanuel Lévinas afferma che l’umanità non solo ha origine nell’altro, ma non
può che misurarsi con lui (parzialità del soggetto).
L’idea di dialogo implica la centralità della persona rispetto ai sistemi, l’attenzione al contesto, un’ampia
considerazione dei meccanismi che consentono la messa in comune di esperienze e linguaggi.


2. Il problema del contesto


La sociologia funzionalista dei media mostra una notevole attenzione al ruolo sociale della comunicazione e
alle problematiche connesse alle possibili forme di influenza dei media sugli individui.
Molte delle ricerche commissionate si muovevano proprio dalla concettualizzazione di un “pubblico-massa”
facilmente orientabile e senza differenziazioni interne.


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Gli studiosi funzionalisti andavano man mano semplificando l’oggetto di studio, prima di tutto espellendo il
contesto dall’ambito della ricerca.
Il ricorso alla nozione di contesto implicava infatti la necessità di uscire dalla logica “stimolo-risposta” e di
considerare il pubblico come un aggregato instabile e segmentato al suo interno.
Il problema del contesto segnò una sorta di discrimine tra le ricerche sorte nell’alveo delle teorie della
trasmissione e quelle afferenti alle teorie del dialogo.
Lo sviluppo di questa nuova modellizzazione avviene a partire dalla metà degli anni cinquanta, in relazione
all’avvento della two-step flow of communication theory , che destruttura i capisaldi della sociologia
funzionalista dei media.
Esistono molte definizioni e classificazioni in merito al contesto. Levinson (1983) ipotizza l’esistenza di: a) un
contesto sociale connesso con le identità dei soggetti partecipanti al processo comunicativo; b) un contesto
epistemico, riguardante le forme di conoscenza dei soggetti; c) un co-testo, ovvero la posizione specifica
dell’enunciato nelle dinamiche comunicative.
Parret (1983) individua cinque tipi di contesto:
1.dimensione co-testuale;
2.contesto esistenziale;
3.contesto situazionale;
4.contesto dell’azione;
5.contesto psicologico.
Casetti (1994) individua quattro idee di contesto, cui faremo riferimento. Contesto come:
1.orizzonte di riferimento di un testo ;
2.ambiente culturale in cui si colloca un testo ;
3.circuito della comunicazione ;
4.insieme di enunciati .
L’analisi del contesto non può ridursi alla considerazione delle variabili sociali, ma deve comprendere lo
studio delle identità sociali.


3. Da Simmel alla Scuola di Chicago


Il concetto di “organismo-rete”, che conduce a quello di “rete”, può risalire a un sistema reticolare per lo
scambio di merci e informazioni ideato da Vauban. La società industriale viene considerata organica e i
mezzi di comunicazione ricevono una sorta di consacrazione funzionale.
L’altro caposaldo della nuova società è la divisione del lavoro , sistematizzato da Adam Smith (1723-
1790). Nella sua elaborazione, è la comunicazione che determina i meccanismi organizzativi del lavoro in
fabbrica e struttura le dinamiche degli spazi economici.
Babbage (1792-1871) progettò macchine che erano l’applicazione tecnica dell’idea di “divisione del lavoro
mentale” (la macchina a differenza e la macchina analitica ). Comte, tra il 1830 e il 1942, elabora i
concetti di base di una scienza positiva e, negli stessi anni Quételet elabora il concetto di uomo medio.
Nasce la psicologia delle folle. La folla viene vista come un’entità pericolosa e potenzialmente
destabilizzante. Secondo Le Bon, l’anima della folla è strettamente connessa all’anima della razza .
Gabriel Tarde preferisce parlare di pubblici, aprendo così la porta alle analisi sui gruppi sociali formali e
informali. Durkheim offre invece una sociologia organicista: il suo insegnamento avrà un peso notevole
anche sull’analisi della comunicazione, favorendo approcci “quantitativi” che arriveranno fino alla ricerca
amministrativa.
All’opposto, invece, Georg Simmel afferma che le interazioni sociali si fondano su una ragione di tipo
soggettivo e tutti gli aggregati sociali si organizzano su scambi dinamici intersoggettivi. I rapporti sociali sono
interazioni comunicative. Con Simmel nasce una vera e propria “sociologia della vita quotidiana”.
Un altro importante contributo ci è fornito dalla Scuola di Chicago, che ebbe in Robert Ezra Park il suo più
illustre esponente. La Scuola di Chicago pose sotto osservazione la città, interpretata come un laboratorio
e luogo della mobilità sociale . Le prime ricerche si concentrarono sui processi di integrazione di “poveri” e
“immigrati”. Park si interroga sulla funzione di assimilazione svolta dai giornali, sulla natura dell’informazione,
la professionalità del giornalismo e ciò che lo distingue dalla “propaganda sociale”.
Nel 1921 Park elabora il concetto di ecologia umana: le società moderne sarebbero costituite da un livello
“vitale” e un livello “culturale”. La comunicazione si farebbe carico del livello culturale permettendo le
appartenenze degli individui. I media fungono, cioè, da acceleratori della superficialità dei rapporti sociali ma
funzionano anche come strumento di emancipazione e democratizzazione. L’aspetto interessante è la scelta
della sociologia del quotidiano . Molte delle suggestioni lanciate da Park verranno riprese dalla corrente
dei cultural studies britannici.
Simmel fu il primo ad occuparsi dei fenomeni di moda, con un metodo che può essere definito
fenomenologia della modernità. L’importanza di Simmel sta nell’aver operato una mutazione eccezionale nel
metodo d’analisi dei fenomeni sociali: dalla “sostanza” dell’oggetto passa allo studio della sua “funzione”.
A Simmel non interessa studiare che cos’è la moda, ma a cosa serve nell’organizzazione sociale e in
rapporto ai bisogni degli individui. Simmel è innovatore: i suoi tipi sono modellati dalle reazioni e dalle
aspettative degli altri. Lo “straniero” viene definito come un elemento del gruppo che non fa parte del
gruppo, vicino e lontano al tempo stesso, “confidente” e intermediario.
Charles Sanders Pierce affaccia il pragmatismo filosofico allo studio della comunicazione; George
Herbert Mead si dedicò allo studio delle relazioni fra il ruolo dell’ altro e i processi di comunicazione;
Charles Wright Mills si lega al metodo etnografico e al pragmatismo, ed è uno dei fondatori dei cultural
studies americani, che porranno l’accento sull’analisi della cultura popolare e dei meccanismi di fruizione
mediale da parte degli individui.


4. Il problema della decodifica


La nozione di “contesto” si trascinava dietro la consapevolezza che i messaggi potessero assumere
significati diversi nelle differenti situazioni in cui essi erano veicolati. Probabilmente gli stessi messaggi
potevano subire delle “trasformazioni” a partire dalla loro formulazione.
Il tema della decodifica rappresenta uno degli elementi chiave nel superamento dell’idea del pubblico-massa
facilmente orientabile con l’adozione di apposite strategie comunicative. Un processo di decodifica presume
la possibilità che tale processo possa essere “difforme” da quanto previsto dall’emittente. La decodifica è
anche connessa alle dinamiche di produzione sociale del significato. L’assenza di processi di decodifica
rappresenta il “vulnus” della teoria matematica dell’informazione.

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5. La Scuola di Palo Alto


Ha i suoi più noti esponenti in Paul Watzlawick e Gregory Bateson. Critici nei confronti del modello di
Shannon e Weaver, non rifiutarono i contributi della cibernetica allo studio della comunicazione.
Wiener, autore di Cybernetics (1948), delinea la formulazione teorica della società dell’in formazione ,
nonché il concetto di entropia (misura del grado di disorganizzazione di un sistema).
Ciò che Bateson, Hall, Goffmann, Watzlawick rifiutano della teoria dell’informazione è il suo scarso spessore
socio-culturale. La prospettiva di Wiener era senz’altro più in linea con gli assunti della Scuola di Palo Alto.
I concetti chiave della Scuola di Palo Alto sono così riassumibili:
•la comunicazione si fonda su processi relazionali, ad avere importanza sono le interconnessioni tra singoli
elementi;
•qualunque attività umana possiede valore comunicativo, è “impossibile non comunicare”;
•i disturbi psichici e della personalità sono spiegabili in termini di difficoltà di comunicazione tra l’individuo e il
gruppo sociale.
L’opera di Watzlawick e colleghi è stata riscoperta solo alla fine degli anni ottanta, quando si è prestata una
maggiore attenzione al concetto di comunicazione come relazione e interazione. Watzlawick pone una
grande attenzione ai meccanismi di metacomunicazione, che si attiva attraverso elementi non-verbali e
impliciti (o analogici); tali meccanismi definiscono il contesto specifico dell’interazione.


6. Marshall McLuhan


Herbert Marshall McLuhan (1911-1980) è stato il più discusso e poliedrico studioso di comunicazione della
seconda metà del Novecento. Espressioni come “media caldi e freddi”, “il medium è il messaggio ”
sono opera sua.
Fu tra i primi ad usare l’espressione “villaggio globale” per indicare la realtà planetaria sempre più
interconnessa.
L’avvento dei media digitali ha riacceso l’interesse intorno alle riflessioni di McLuhan, straordinariamente
vitali: l’idea di globalizzazione, il concetto di coscienza globale condivisa, la nozione di soggetti collettivi
enuncianti.
Elaborazioni meno note, come quella sulle “tetradi”, vengono utilizzate oggi nell’analisi sociale dei fatti
letterari o nel tentativo di interpretazione di fenomeni complessi.
I media caldi sono quei mezzi di comunicazione di massa che saturano quasi completamente la capacità
visiva e costruttiva del fruitore non richiedendogli uno sforzo totale di ristrutturazione delle immagini e dei
contenuti.
I media freddi sono quelli a bassa definizione che richiedono una grande partecipazione da parte del
fruitore.
Secondo McLuhan è il grado di partecipazione del fruitore a determinare l’intrinseca peculiarità dei media,
vale a dire che la forma calda esclude e la forma fredda include.
McLuhan si concentrò anche sullo studio degli effetti dei media e delle nuove tecnologie: fu in grado di
comprendere la preminenza del software sull’hardware con largo anticipo.
Le “tetradi” sono quattro leggi generali. Col termine “leggi” McLuhan intende un insieme di osservazioni
generali sul modo di operare e sugli effetti dei media, che non sono ancora state falsificate. Si tratta di effetti
che si realizzano simultaneamente e in relazione di interdipendenza. Le quattro leggi sono:
1.l’estensione (extension);
2.la chiusura corrispondente (closure);
3.il recupero (retrieval);
4.il rovesciamento del medium surriscaldato (reversal).
Le tetradi sono state sistematizzate in un libro postumo curato dal figlio di McLuhan. Le leggi dei media
erano già presenti allo studioso canadese, la cui lungimiranza è evidente anche nella rottura del paradigma
dei limited effects.
Si tratta della conseguenza più importante del suo slogan “il medium è il messaggio”: il medium che riesce a
imporsi in un determinato contesto socio-culturale modifica il modo in cui pensiamo, la modalità
attraverso cui conosciamo la realtà sociale e le stesse forme di organizzazione sociale .


7. La comunicazione come interazione


Negli USA molti studi riprendono il concetto di interazione. A Goffman si deve il concetto di
disattenzione civile , quel fenomeno che si verifica quando incrociamo qualcuno per strada e ci
scambiamo una rapida occhiata. Ciascuno segnala all’altro di aver preso atto della sua presenza, ma evita
qualsiasi gesto che possa essere interpretato come troppo invadente. È un atteggiamento sociale
tranquillizzante. L’approccio di Goffman, non a caso, è micro-sociologico. È stato tra i prima a occuparsi
delle forme della comunicazione non-verbale e delle posizioni fisiche che adottiamo nella relazione faccia a
faccia.
Goffman sembra evidenziare anche una vera e propria sociologia del sé: dedicò una straordinaria attenzione
alle diverse variabili dell’interazione e al ruolo dei contesti comunicativi. Proprio per questa sua attenzione al
contesto lo collochiamo fra gli autori che animano la linfa dell’approccio dialogico.
Harold Garfinkel è il fondatore della etno-metodologia. Studia le pratiche di uso comune di cui ci serviamo
in determinati contesti per dare senso alla realtà circostante.
Tale comprensione condivisa si basa su vere e proprie convenzioni culturali inespresse , che rendono
possibile la comunicazione.
Dagli studi di Goffman e Garfinkel si è sviluppato un metodo noto come analisi della conversazione . I
due studiosi concentrano la loro attenzione sull’individuo e sull’attore sociale come soggetto di conoscenza.
L’individuo non è più un mero ingranaggio culturale nella struttura sociale.
Le elaborazioni di Goffman e Garfinkel sono alla base della teoria della strutturazione di Anthony Giddens
(1984).


8. La teoria della strutturazione: Anthony Giddens


Viene elaborata da Giddens nel suo famoso libro The Consitution of Society. Giddens aveva notato che lo
sviluppo delle teorie sociali era stato dominato dal funzionalismo e dallo strutturalismo da una parte e dalle
sociologie intepretative dall’altra.

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Giddens cerca di gettare un ponte tra queste due tensioni. I micro-cambiamenti come le azioni degli
individui, conversazioni, idee, articoli di riviste, programmi televisivi possono influenzare cambiamenti a
livello macro-sociale, alimentando il macro-livello delle politiche governative che poi influenzano stili di vita e
modelli famigliari.
Giddens ritiene che le azioni quotidiane hanno un grado di prevedibilità che garantisce la stabilità sociale.
Quest’aspetto si discosta dal concetto di fiducia sistemica.
Gli attori sociali si muovono secondo un modello basato su tre livelli: a) il livello dell’unconscious; b) il livello
della practical consciousness; c) il livello della discursive consciousness. In quest’ultimo livello Giddens
colloca la capacità degli individui di creare una narrativa del sé: proviene da un sistema di aspettative
incrociate in cui le responsabilità e le posizioni sociali provengono da forme di negoziazione.
Già nel 1976 Giddens aveva notato che la sociologia usa lo stesso set di strumenti che gli individui adottano
nella vita quotidiana. Gli snodi di partenza della grounded theory non sono molto dissimili. Giddens rifiuta il
meccanicismo deterministico del funzionalismo, perché le ricerche sugli “effetti” della televisione tendono a
trattare i telespettatori come un pubblico passivo e incapace di discriminazione nel reagire a ciò che vede.


9. Dall’interpretazione all’uso: la sfida della semiotica


Il punto di partenza della semiotica è che “non è possibile non comunicare”. Definita a lungo come “scienza
dei segni”, è stata più correttamente definita come la scienza che studia i segni, i meccanismi di
significazione e di costruzione del senso nonché i processi di comunicazione.
Le due diverse tradizioni partono da de Saussurre per arrivare a Barthes e da Peirce per arrivare fino a Eco.
Le differenze appaiono oggi molto più sfumate e la disciplina è ricca e poliedrica. La semiotica ha contribuito
in maniera feconda alla teorizzazione e modellizzazione della comunicazione (dimostrato dalle ricerche di
semiotica sociale importanti anche nell’analisi dell’audience).
Secondo Jensen, i discorsi dei mass media costituiscono i componenti sociali della semiotica sociale. Sono i
segni i cui interpretanti predispongono i vari pubblici ad agire all’interno del loro contesto storico e sociale.


9.1. I modelli semiotici della comunicazione Eco e Fabbri, intorno alla metà degli anni sessanta,
elaborarono un modello di impianto semiotico sulla base della teoria matematica dell’informazione. Il modello
semiotico-informazionale introduce, come innovazione, la nozione di codice e quella di decodifica .
L’informazione, per Eco e Fabbri, non rimane costante durante tutte le operazioni di codifica e decodifica, ma
l’informazione stessa si trasforma continuamente.
La comunicazione non è allora un processo di trasferimento o trasmissione, ma di trasformazione da un
sistema all’altro. Sul processo comunicativo si aggancia quindi il tema della significazione e la
comunicazione si evidenzia come processo negoziale, il che ha consentito agli studiosi di prestare maggiore
attenzione a due variabili: l’articolazione e la pluralità dei codici e il contesto comunicativo.
Un altro aspetto innovativo è che nel modello di Eco e Fabbri non è possibile sovrapporre aprioristicamente
la corretta comprensione con le intenzioni dell’emittente.
La comunicazione implica inoltre forme complesse di feedback che consente l’attivazione di una “decodifica
anticipatoria”. Questa rende inevitabili le divergenze tra intenzioni dell’emittente e comprensione del
destinatario. Vanno considerate ineliminabili e coessenziali al processo comunicativo le forme di decodifica
aberrante.
Si possono verificare quattro forme di decodifica aberrante:
1.
1.Incomprensione o rifiuto del messaggio per assenza di codice .
2.Incomprensione del messaggio per disparità dei codici .
3.Incomprensione del messaggio per interferenze circostanziali.
4.Rifiuto del messaggio per delegittimazione dell’emittente .
Intorno agli anni settanta, molti studiosi notarono l’inadeguatezza della nozione di messaggio . Grazie a
Greimas e Eco, si pose una maggiore attenzione all’analisi degli “oggetti” scambiati e trasformati durante il
processo comunicativo. Venne introdotto allora il concetto di testo.
Il testo è un meccanismo complesso centrato su diverse modalità espressive e su molteplici codici. Nel
testo, la significazione ingloba anche le presupposizioni e le argomentazioni implicite; viene, cioè, ricapitolato
tutto il processo di riproduzione e ricezione della comunicazione.
La ricerca è passata dalla concezione del testo come successione di unità linguistiche costituita
mediante concatenazione pronominale ininterrotta , a quella di testo come unità comunicativa .
Il testo non è più valutabile in termini di “formazione” bensì in termini di dimensioni comunicative possibili; si
pone al centro di una serie di relazioni significanti. La cosiddetta catena significante produce testi che si
trascinano dietro la memoria dell’intertestualità che li nutre. Il testo mette in questione i sistemi di
significazione che gli preesistono, spesso li rinnova, a volte li distrugge.
La nascita del modello semiotico -testuale ha sancito lo spostamento dell’attenzione degli studiosi dal
rapporto codifica/decodifica alle condizioni di asimmetria fra emittente e ricevente. I destinatari non si
scambiano messaggi, ma insiemi testuali : gli strumenti che guidano l’interpretazione sono insiemi di
pratiche testuali.
L’asimmetria tra emittente e ricevente si attenua e la natura testualizzata dell’universo delle
comunicazioni di massa appare ancora più evidente.
L’attenuazione dell’asimmetria è sorretta anche dalla teoria della cooperazione interpretativa: ogni testo
postula la cooperazione del lettore come propria condizione di attualizzazione. Un testo è un prodotto la cui
sorte interpretativa deve far parte del proprio meccanismo generativo.
Il testo dispone già di alcune “linee-guida”. Eco ricorre, a questo proposito, ai concetti di topic e isotopia.
Il topic riguarda il processo abduttivo, realizzato dal destinatario di un testo; l’isotopia è un fenomeno
semantico che definisce il livello di coerenza di un percorso di lettura. Il topic è la scommessa interpretativa
compiuta dal fruitore di un testo e può essere definito come una sorta di “tema”. Enunciati giustapposti senza
un topic comune, non possono essere definiti testo.
Il topic non è una dimensione oggettiva del testo ma dipende dalle scelte del fruitore.
L’isotopia non è una dimensione oggettiva del testo ma dipende dalle scelte del fruitore. L’isotopia è una
struttura semantica coessenziale al testo stesso, anzi, un insieme di categorie semantiche ridondanti.
Poiché il testo è il risultato di una strategia di un autore volta a far compiere al proprio lettore le operazione
cognitive necessarie a fargli comprendere nel modo più opportuno il testo stesso, allora una delle mosse
interpretative fondamentali consiste nella decisione circa il topic del discorso, ovvero l’argomento di cui si
parla. Un testo non ha necessariamente un solo topic, ma si possono stabilire gerarchie di topic.

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L’isotopia, invece, è l’insieme di categorie semantiche ridondanti che rendono possibile la lettura uniforme di
una storia, è una sorta di fil rouge semantico che garantisce la coesione del testo.
Il testo è un dispositivo che richiede la partecipazione del lettore/fruitore: il testo prefigura da un lato le sue
possibili interpretazioni , dall’altro gli effettivi fruitori potranno produrre un uso del testo non previsto
dall’autore.
Gli studi di narratologia sono stati molto utili nell’analisi della comunicazione di massa.
Il testo narrativo è un dispositivo complesso nel quale un autore reale si presenta simulacralmente come
autore implicito che entra in contatto con un narratario il quale, a sua volta, comunica con il lettore reale. Nel
caso della televisione però la logica del flusso pone qualche problema.
Sulla base di tali concetti era stato elaborato da Giovanni Manetti, fin dal 1980, il modello semiotico-
enunciazionale, estremamente utile nell'analisi delle comunicazioni di massa. L'emittente e ricevente
rivelano la loro presenza solo sotto forma di simulacri.
L'enunciatore empirico è situato fuori dal testo ma si configura come il produttore di immagini testuali;
l'enunciatario empirico a sua volta proietta all'interno del testo l'immagine di se stesso e quella di chi gli
indirizza la comunicazione.
Il modello presenta due conseguenze estremamente importanti: l'attivazione di effetti di realtà e la
seconda è che la comunicazione viene decisamente intesa come processo interattivo tra soggetti che si
scambiano oggetti di valore.
La presenza manifesta dell'enunciatore o il suo occultamento funzionano come meccanismi di veridizione e
provocano un "effetto di realtà".
Bettetini ha usato l'espressione conversazione testuale . Lo studioso ritiene che tutti i testi si sviluppino
intorno a un rapporto di interattività simbolica fra due soggetti. Il modello è costruito sullo schema domanda-
risposta. Il testo predisporrebbe cosi una "conversazione" tra i due soggetti alla cui forma l'enunciatario
empirico può ovviamente corrispondere con una serie di comportamenti che si collocano fra la più passiva
accettazione e il più completo rifiuto.
Bettetini aveva già elaborato un modello di impianto semiotico sulle dinamiche comunicative delle
trasmissioni televisive. Set è il soggetto empirico trasmittente, Ser è il soggetto empirico ricevente, Sem è
l'enunciatore ideale, So è l'enunciatore mediale, Seo è l'argomento di cui si parla, Sa è l'enunciatario
ideale. Lo schema si pone in rapporto diretto con il modello semiotico-enunciazionale.
Un'altra applicazione del modello semiotico-enunciazionale riguarda il marketing. Un'interessante
elaborazione è costituita dal modello realizzato da Yves Krieff. In questo modello, vi sono un enunciatore
empirico e un enunciatario empirico situati fuori dal testo.
L'impresa proietta il proprio simulacro e quella del suo interlocutore all'interno della situazione testuale; allo
stesso modo il consumatore proietta sulla superficie significante del testo il proprio simulacro e la sua
percezione dell'enunciatore. L'universo di discorso nel quale vengono scambiati valori definisce un mondo
rappresentato che è, in sostanza, il frutto delle relazioni significative fra gli enuncianti: Il modello, dunque,
risulta estremamente efficace anche nell'analisi della comunicazione pubblicitaria e di marketing.
Il modello relazionale elaborato dallo studioso cileno Valerio Fuenzalida. parte dal concetto di audiencia
activa (active audience, "audience attiva") ed è fortemente radicato sulla considerazione del particolare
carattere socio-semiotico del linguaggio televisivo.
Il modello si fonda su quattro punti principali:
a) il processo di risemantizzazione (proceso de resignificaciórì) viene attivato
dal ricevente che, quindi, si pone in posizione attiva nel processo comunicativo;
b) l'attività di risemantizzazione è il risultato dell'interazione fra il testo e la situazione socio-culturale del
ricevente;
e) l'attività di risemantizzazione operata dal ricevente produce una sorta di percezione situazionale;
d) il rapporto fra emittente (il broadcaster) e ricevente (il pubblico) è mediato anche dall'immagine corporate
dello stesso broadcaster.
Il modello di Fuenzalida si situa all'incrocio di diverse aree disciplinari: dalle teorie della percezione agli studi
sulla ricezione.
L'elaborazione teorica e le attività di ricerca di Valerio Fuenzalida sono molto importanti soprattutto per
quanto concerne l'analisi dell'audience e la centralità della fruizione domestica.
Un'efficace rielaborazione del modello enunciazionale è stata realizzata da Renato Stella. In tale modello
viene inserita la funzione delle audience empiriche. Sono frutto del lavoro di codificazione dei network, i quali
immaginano un pubblico modello a cui indirizzare i propri programmi. Lo schema semiotico enunciazionale si
appropria, extratestualmente, di tutti gli strumenti attraverso cui è possibile trasformare un Destinatario
generico, in un'Audience stratificata che ha la forma di un simulacro. Questo rimane esterno ai processi
meramente testuali, tuttavia condiziona pesantemente sia l'idea pratica che il medium si fa del proprio
pubblico, sia le competenze televisive che, di riflesso, il pubblico riesce ad accumulare e a usare
nell'interazione con il medium.
I simulacri enunciazionali derivarno dal lavoro di produzione del broadcaster che è in grado di influenzare la
capacità del pubblico di proiettarsi nella situazione testuale e di riconoscersi. «Di nuovo torniamo a una
diseguaglianza di potere che giocoforza condiziona anche il significato.
L'audience rappresenta la risultante di un rapporto tra i telespettatori e i suoi simulacri. Fra le possibili
conseguenze, la definizione di un'audience sempre meno massa e sempre più decisamente. È chiaro il
"potere" del broadcaster.
La svolta enunciazionale ha costituito un importante e decisivo passo in avanti, ha rafforzato l'importanza
delle "teorie del dialogo".
Non possiamo non citare quello che, a rigore, rappresenta un deciso superamento non solo delle teorie della
trasmissione ma anche dei modelli semiotici "tradizionali". Rappresenta uno sviluppo delle nuove tendenze
nella ricerca sociale sui media. Si tratta del modello della ricezione televisiva. Si notano alcuni clementi
estremamente interessanti. Fausto Colombo fa notare che nei processi attraverso cui si costituisce l'identità
generazionale del fruitore televisivo, i fattori più importanti sono almeno tre:
a) l'accumulo progressivo di senso a partire dalla "prima socializzazione";
b) la funzione svolta, in quella fase, dalla situazione sociale;
c) il ruolo prospettico esercitato dalla "prima socializzazione" sull'immagine
complessiva del medium.
Il lavoro svolto dal soggetto nel processo di socializzazione al mezzo, con il mezzo e attraverso di esso è di
fondamentale importanza: può essere definito "socializzazione televisiva”.
Si rileva l'importanza sia delle fasi di vita sia del contesto sociale nelle dinamiche di modellamento di tale
processo di socializzazione televisiva. Sono ormai diverse le ricerche che confermano l'intuizione originaria
del progetto generazioni.

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Colombo elabora un modello che spiega i meccanismi di negoziazione nella ricezione della programmazione
televisiva.
tre circuiti concentrici strettamente interconnessi fra di loro. La situazione relazionale è la risultante del
rapporto fra prodotto e fruizione. La situazione relazionale, a sua volta, è inscritta in un più vasto contesto
comunicativo. Il contesto comunicativo, infine, si situa all'interno di un circuito più ampio, il sostrato culturale.
Una relazione, peraltro, alimentata dall'integrazione fra circuiti locali, nazionali, globali, trans-culturali nonché
dai meccanismi pubblicitari.
Da un lato non vi è nessuna comunicazione mediatica che non avvenga in un certo sostrato culturale,
dall'altro un sostrato viene continuamente irrorato dall'offerta complessiva dell'industria
culturale.
Il modello elaborato da Colombo evidenzia la complessità del processo di fruizione televisiva e il suo
articolato ruolo nei meccanismi di costruzione dell’identità.


6. I media e la conoscenza so ciale. I cultural studies


1. I cultural studies


I media non si limitano a essere strumenti che ci portano verso il mondo ma costituiscono essi stessi il
mondo reale .
I paradigmi struttural-funzionalista e conflittuale condividevano una versione realistica: esiste un ordine
sociale che va scoperto e analizzato. Per il primo si trattava di un ordine immanente alimentato dall’adesione
degli individui ai valori centrali della società ; per il secondo era un ordine “dialettico”, non realizzato e da
realizzarsi superando l’imperfetta situazione presente.
I mass media apparivano come veicoli o ostacoli.
A partire dalla fine degli anni sessanta si sono affermati nuovi paradigmi sociologici, accomunati dall’idea
che la realtà sociale è costituita da e attraverso i processi comunicativi.
I media rappresentano le cornici entro cui si attua la conoscenza sociale o “definers of social reality”.
Nella visione idealistica , la televisione è ormai considerata come elemento che contribuisce al processo
di costruzione dei significati. I media vengono visti come forme culturali, “cornici” entro cui si attua il
processo interpretativo della realtà. All’interno di tale idea si situano gli studi sui target generazionali , la
ricerca sulla fruizione della fiction in Italia, la ricerca sui media non-mainstream.
Sempre all’interno della prospettiva idealistica possiamo collocare la teoria situazionale di Goffman, i
television studies riconducibili al concetto di funzione bardica della TV, la televisione come agente di
socializzazione. Ne discendono conseguenze importanti sul ruolo dei media come particolari agenzie di
socializzazione.
Anche i cultural studies si muovono all’interno della prospettiva idealista .
Tutto ciò presuppone una vera e propria svolta comunicativa , che si caratterizza per:
1.il cambiamento della concezione di realtà;
2.il cambiamento della concezione del senso;
3.il cambiamento della concezione della razionalità;
4.il cambiamento della concezione etica;
5.il cambiamento della concezione dell’agire.
I media, da semplici canali di trasmissione, diventano frames e forse perfino ambienti che non si limitano a
rappresentare ma addirittura organizzano la realtà.


2. I media come cornici della conoscenza sociale: il Centre for Contemporary Cultural
Studies (CCCS)


Frank Raymond Leavis, che lavorava per la rivista “Scrutiny”, nel 1930 pubblicò un saggio che si poneva a
difesa dei giovani contro la cultura commerciale. Questa posizione rivela un forte legame con la tradizione,
ma rompe anche con la tradizione di analisi letteraria dell’epoca, concentrando la sua attenzione sul testo,
sulle variabili socio-culturali soggiacenti, sullo studio dei meccanismi di produzione di senso. Si oppone
decisamente alle posizioni e ai metodi di analisi del funzionalismo inaugurando di fatto un diverso approccio
ai fenomeni culturali.
La svolta che conduce alla nascita dei cultural studies britannici avviene in due momenti: nel 1958 Williams
pubblica Culture and Society, che stigmatizza la disgiunzione tra cultura e società; nel 1964 viene fondato il
Centre for Contemporary Cultural Studies, ovvero la “Scuola di Birmingham”, un gruppo “aperto” in cui
diverse tendenze potevano trovare spazio.
La direzione di Stuart Hall del CCCS connoterà in maniera significativa la “scuola” anche a causa
dell’influenza dello strutturalismo.
Gli strutturalisti consideravano la cultura come il primo oggetto di studio affrontandolo nell’analisi di forme
testuali rappresentative. I culturalisti opponevano una forte resistenza allo strutturalismo, accusato di essere
caratterizzato da una concezione della forza dell’ideologia troppo deterministica.
Hall si distinse anche per la capacità di uscire dalla querelle strutturalisti-culturalisti.
Il CCCS ebbe una parte importante anche nella cultura americana, dove le idee guida dei cultural studies
britannici vennero assorbite in una sintesi originale. Il successo negli Stati Uniti ha determinato momenti di
crisi all’interno del movimento. La corrente americana, infatti, ebbe spesso una visione molto “ottimistica”.


3. I fondamenti teorici del CCCS


Sono molte le influenze sedimentatesi nei lavori di ricerca e nelle elaborazione degli studiosi di Birmingham:
il new criticism, la ricerca storica di impianto culturale, lo strutturalismo, la semiotica echiana e greimasiana,
Luis Althusser, Antonio Gramsci, il marxismo critico, l’antropologia culturale, la psicoanalisi di Lacan,
Goffman e Michel Foucault .
Non bisogna però pensare a una corrente di studi sincretica: la ricchezza delle influenze ha generato una
capacità di apertura metodologica notevole ma sempre coerente ed efficace.
La prima elaborazione si muove da tre concetti quadro:
1.il concetto di “soggettività”: la cultura sociale assume senso e valore in relazione alle vite dei soggetti,
cornice e contenuto della cultura stessa;
2.il concetto di “cultura” intesa come stile di vita e pratica sociale;
3.il concetto di “cornice sociale”, che soppianta l’idea di “realtà oggettiva” con quella dicostruzione
sociale .

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Il concetto di cultura rappresenta un elemento molto importante nell’impianto dei cultural studies. La cultura
popolare è quella che è gradita alla maggioranza della popolazione. I testi dei media sono sempre prodotti
dalla cultura popolare, alla stregua di un capo d’abbigliamento.
Il circuito della cultura costituisce un modello efficace per l’analisi dei “fatti culturali” come significati condivisi.
DuGay e Hall si concentrano proprio sull’idea di cultura come “significati condivisi” e sull’idea di “pratiche”
culturali. Il linguaggio è una pratica di significazione .
I significati sono prodotti in molti differenti luoghi e circolano attraverso molti diversi processi o pratiche. Il
significato ci fornisce il senso della nostra identità, è costantemente prodotto e scambiato in ogni interazione
personale e sociale cui prendiamo parte. La questione del significato si pone in relazione a tutti i differenti
momenti o pratiche del nostro “circuito culturale”. Dall’analisi della cultura si sviluppano importanti snodi
concettuali come quello di subcultura .
Oltre ai primi tre concetti quadro possiamo individuare altri cinque fondamenti teorici:
•ideologia ;
•egemonia;
•autonomia della cultura e dell’ideologia ;
•genere;
•gender.
Bisogna poi aggiungere le nozioni di “decodifica” e di “resistenza”.
Il concetto di “ideologia”, ripreso da Althusser, riguarda il rapporto vissuto dagli uomini con il loro mondo.
Gli uomini esprimono non i loro rapporti con le condizioni di esistenza, ma il modo in cui vivono i loro rapporti
con le loro condizioni di esistenza. Il concetto di ideologia si declina in modi molto diversi.
Dall’assunzione del concetto di “ideologia althusseriana” deriva che i mass media costruiscono la
conoscenza sociale e che essi riflettono la pluralità delle classificazioni sociali. Infine, i media organizzano,
dirigono e tengono assieme ciò che essi stessi hanno classificato e rappresentato. I media non solo
consentono la conoscenza della società ma legittimano e autorizzano anche l’insieme delle relazioni che
essi stessi hanno attivato.
L’ideologia è funzionale alla perpetuazione delle strutture sociali , gli individui sono “costruiti”
dall’ideologia che, a sua volta, è il senso comune. L’ideologia funziona seguendo diversi meccanismi:
legittimazione, dissimulazione, unificazione, frammentazione, reificazione.
Il concetto di egemonia è stato invece utilizzato soprattutto per le sue implicazioni sulla teorizzazione della
cultura popolare. Non è lo stato a essere responsabile dell’egemonia bensì la società civile.
Per egemonia si intende, in sostanza, un insieme di idee dominanti che permeano una società in modo tale
da far sembrare naturale l’assetto in vigore.
I blocchi egemonici sono il risultato di una serie di alleanze strategiche temporanee. Questa teorizzazione
evidenzia punti di contatto con il concetto di “gente” proposto da John Fiske sia con i meccanismi di
costruzione delle comunità interpretative .
La dimensione egemonica dei media si connota anche come funzione ideologica: i media si pongono come
definers of social reality.
Il concetto di egemonia è molto utile per l’interpretazione della “cultura popolare”. Sono state giudicate
insufficienti, grazie al pensiero di Gramsci, quelle teorie che consideravano la cultura popolare come forma
degradata determinata dal capitalismo. In realtà la cultura popolare è frutto di mediazioni, scambi
comunicativi tra fenomeni di resistenza e processi di assimilazione nella cultura dominante. I mass media
non riflettono un consenso già presente a livello sociale ma partecipano alla sua costruzione. Il ruolo dei
mass media è dirimente nella costruzione del consenso, che riesce ad articolarsi in maniera autonoma.
L’egemonia presuppone che il dominio di certe formazioni sia assicurato non da costrizioni ideologiche, ma
da una leadership culturale. Il problema della decodifica dei test mass-mediali diventa centrale, insieme
all’attenzione posta sul concetto di genere e di gender. I media possono produrre e/o proporre diverse letture
e diverse possibilità interpretative. Si sviluppa il modello encoding/decoding di Stuart Hall, che favorisce una
più caratterizzata prospettiva semiotica nei cultural studies. Il concetto di “lettura preferita” si connota come
una vera e propria funzione testuale e tiene conto della situazione socioculturale nella quale i “lettori”
attivano i propri processi di significazione.
Il concetto di “genere” ha ricevuto una grande attenzione da parte dei ricercatori del CCCS ma anche dal
filone statunitense dei cultural studies. Parliamo non del genere inteso come identità sessuale, ma del
genere come modalità organizzativa dei palinsesti, strumento di segmentazione e qualificazione
dell’audience. È, di fatto, l’identità riconosciuta dai produttori e dall’audience a determinati testi. Questa
identità deve essere:
•connessa a obiettivi chiari e definibili;
•radicata su un formato riconoscibile e determinato;
•consolidata nel tempo.
Il genere è pertanto l’insieme di regole testuali culturalmente determinate costituite da uno specifico sub-
universo semantico. I testi non producono solo le proprie possibili fruizioni ma anche i propri fruitori.
L’analisi del rapporto fra significati del testo e formazione della soggettività è alla radice anche della forte
attenzione di studiosi come David Morley sul gender come variabile centrale nelle modalità di decodifica e
fruizione dei testi televisivi. Esiste un rapporto strettissimo tra le dinamiche di fruizione e i ruoli famigliari.
Venne studiata in particolare la peculiarità del female spectator, che effettuava forme di consumo televisivo
in forme di fruizione che includevano anche la cura domestica. L’analisi del gender è di assoluta rilevanza
nella prospettiva dei cultural studies, che hanno dato vita a molti approcci, come i feminist cultural television
criticism e gli audience studies.
Il punto di partenza dei gender studies è che la costruzione sociale del “maschile” e del “femminile” sia parte
dell’ideologia dominante che prescrive i corretti e “appropriati” comportamenti per uomini e donne. Una nota
ricerca americana metteva in risalto l’associazione “donna-ruoli domestici” nella narrazione mediale. La
ricerca rilevava i meccanismi di “cancellazione” delle donne dalla rappresentazione sociale o almeno da una
sua parte importante come le attività “produttive”.
Vi è anche un legame fra gender e genre, visto che nei media esistono o vengono formulati “generi” molto
“genderizzati”.
Molte delle ricerche hanno trovato nei media caratteri di stereotipizzazione dei ruoli sessuali, forme di
anestetizzazione e/o di semplificazione moralistica, nonché la presenza di un’ideologia che si definiva anche
a partire dal linguaggio utilizzato e dalla modalità di “incornicia mento”. La questione del gender è stata
presente in gran parte della riflessione dei cultural studies.
La screen theory, pur legata ai cultural studies, è stata aspramente criticata dal CCCS per il suo forte
“determinismo testuale”. I teorici di “Screen” hanno fuso insieme approcci psicanalitici con il materialismo
storico, secondo Hall con estrema leggerezza.
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Nella concezione di “Screen” l’efficacia e la produttività del testo è definita esclusivamente nei termini della
capacità del testo di mettere il lettore “al suo posto”, vale a dire in una posizione di identificazione
aproblematica.
Morley rimprovera a “Screen” di ridurre l’attività del lettore/fruitore a una pratica di consumo/appropriazione.
All’interno dei cultural studies si situano molti studi sulla ricezione dei testi mediali e sulle dinamiche di
fruizione.
La ricerca di David Buckingham , basata sulla soap-opera EastEnders, è un esempio di commistione tra
ricerca sulla ricezione, metodi di impianto etnografico e indagini con interviste. È suddivisa in quattro parti:
1.
1.Produzione del programma un quadro generale sulle routine produttive.
2.Analisi testuale il testo mediale è aperto e capace di produrre un invito testuale.
3.Analisi della promozione e del marketing qual è il contesto di significazione nel quale i telespettatori
situavano EastEnders.
4.Studio delle dinamiche di consumo del programma Uno studio accurato sull’uso della soap
nell’esperienza quotidiana.
Sotto l’influenza di Michel de Certau si è sviluppata la ricerca sulle sottoculture, grazie alla quale si sono
sviluppate molte linee di ricerca di impianto etnografico.


4. Il modello encoding/decoding


Nel 1980 Stuart Hall pubblicò il saggio Encoding and Decoding in Television Discourse: riteneva che compito
della ricerca fosse quello di porre la massima attenzione al complesso delle relazioni che interconnettono
produzione e ricezione generando senso. Hall pervenne a definire l’attività di codifica come un processo
attraverso il quale vengono posti limiti e meccanismi di standardizzazione al testo stesso. L’attività di
decodifica, allora, è funzione di una molteplicità di variabili che limitano la teorica illimitatezza delle possibilità
di interpretazione. Il contesto è estremamente importante nell’attività di decodifica. La comunicazione si
costituisce come una relazione fra i due momenti del processo comunicativo stesso. In tale accezione il
pubblico percepisce i messaggi come discorsi dotati di significato .
Encoding e decoding possono tuttavia non essere simmetriche: dipende dalle relazioni che si stabiliscono
fra il codificatore-produttore e il decodificatore-ricevente. Le diverse strutture di significato implicano appunto
la possibilità di una "disparità di codici" fra emittenti e destinatari.
Hall individua tre diverse modalità di decodifica:
1. La lettura preferita Quando il destinatario decodifica il messaggio nei termini esatti in cui è stato
codificato. In questo caso il processo di codifica avviene attraverso un codice egemonico che, essendo
percepito come "naturale", non ha bisogno di alcuna legittimazione sociale. L'audience, in questo caso,
tende ad accettare le dinamiche di incorporazione.
2. La lettura negoziata Quando il destinatario accetta il codice dominante ma elabora proprie definizioni
e/o tenta di fornire interpretazioni parzialmente autonome.
3. La lettura oppositiva Quando il destinatario comprende la lettura preferita elaborata e attivata
dall'emittente ma ridefinisce il messaggio in un contesto alternativo. In questo caso, a differenza della lettura
negoziata, i fenomeni di distorsione incidono in maniera significativa fra attività di codifica e processi di
decodifica. Si ha un'audience attiva, addirittura capace di scardinare le contraddizioni e l'ideologia imposte
dal codice egemonico, come nel caso della guerriglia semiologica .
Le tre letture considerano in maniera corretta le possibilità e le capacità interpretative dell'audience e
contribuiscono a ripensare in maniera analitica e complessiva il rapporto fra testi mass-mediatici e
meccanismi sociali e individuali di costruzione dei significati e generazione del senso.
Hall ritiene che il processo di codifica televisiva sia un'articolazione dei momenti della produzione,
circolazione, distribuzione e riproduzione. Questo significa che i testi televisivi producono significati multipli
che possono essere interpretati in modi diversi.
Lo studio compiuto in due ricerche (Nationwide e Crossroads) sulle diverse letture realizzate da individui
appartenenti a gruppi sociali differenti rappresenta una tappa importante nella definizione del concetto di
"active audience”. Il processo di decoding avviene in maniera differenziata. Lo scontro fra i media e i
soggetti non riguarda solo il conflitto fra gruppi sociali "egemoni" e non egemoni. Il "conflitto", in realtà,
dipende anche da variabili come il gender, l'etnia, l'età ecc.
L’applicazione di Morley colloca la sua ricerca all’interno dell’area dell’”incorporation/resistance”, in cui la
fruizione mediale è vista come uno scontro fra, appunto, il tentativo di incorporazione ideologica operato dai
media e le pratiche di resistenza adottate dai pubblici in determinati contesti socio-culturali.
Importante è il concetto di reactive pleasure, in sostanza una forma di lettura oppositiva che si realizza
all'interno delle forme "tradizionali" di fruizione estetica anche di tipo emozionale.
Con il modello encoding/decoding i cultural studies britannici raggiungono quella che è stata definita la
"svolta linguistica".


5. Cultural studies e ricerca sui media in Italia


L'espressione cultural studies provocava nel mondo accademico di lingua italiana due tipi dì reazione: la
prima era costituita da un'evidente mancanza di fiducia verso un'area di ricerca non molto conosciuta; la
seconda era rappresentata da quegli studiosi che guardavano dall'alto in basso un approccio che ritenevano
asistematico e privo di dignità metodologica.
La sociologia aveva difficoltà a decollare in Italia, almeno in ambito accademico. Le scienze antropologiche,
in particolare, rappresentarono uno dei territori privilegiati nello sviluppo di quegli approcci di ricerca che oggi
potremmo definire "culturalisti". La sociologia dei mass media, si collocava inizialmente all'interno delle
tendenze della tradizione americana della communication research.
La cultura accademica italiana era ancora generalmente sotto l'influenza dell'idealismo crociano. Le scienze
sociali "moderne"mossero i loro primi passi nel tentativo di legittimare se stesse attraverso l'adozione di
metodi e approcci disciplinari provenienti dagli USA. Molti studiosi di formazione marxista adottavano
approcci sistematici provenienti dal funzionalismo e, su tutti, dall'opera di Talcott Parsons. Non può stupire
l'enfasi posta sul problema degli effetti.
Un caso particolare è rappresentato dagli audience studies del periodo, dove una curiosa convergenza si era
prodotta: da una parte l'influenza della Scuola di Francoforte sugli studiosi marxisti aveva generato un
concetto di audience come massa mono-dimensionale e manipolata; dall'altra parte la tradizione proveniente
dal funzionalismo aveva fornito la legittimazione metodologica all'idea che i media non fossero altro che
strumenti di manipolazione su un pubblico sostanzialmente passivo. L'idea del "pubblico-massa"

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rappresentava uno strumento utile ai teorici marxisti per attaccare il potere e le strutture ideologiche delle
istituzioni mediali.
Una delle conseguenze di questa connessione fu l'adozione di un approccio deterministico alla ricerca
sull'audience, che si fondò fortemente su metodi ultra-quantitativi. Potremmo dire che la ricerca italiana per
una lunga parte della sua storia si sia concentrata essenzialmente sulle dimensioni quantitativa e
sperimentale.
C’erano alcune eccezioni: un’attenzione alle teorie della ricezione e agli approcci text-basedi stava
sviluppando in altri ambiti della ricerca e segnatamente nella semiotica, nell'estetica della ricezione, nella
filosofia del linguaggio e nella critica letteraria.
In campo politico si sviluppava l'idea della "via italiana al socialismo".
Il pensiero di Gramsci, a ogni modo, apriva una serie di prospettive, marginalmente anche aspetti come
quello dell'incontro fra cultura cattolica e cultura marxista. Un primo banco di prova di tale "incontro" si ebbe
in Italia nelle vicende relative alla nascita della televisione (1954).
Le due subculture politiche nazionali condividevano la dimensione educativa della cultura. Non è un caso
che proprio all'interno della RAI (grazie al suo Servizio opinioni) si siano sviluppate le prime ricerche
sull'audience.
Si stava aprendo la strada a studi centrati sull'analisi di cosa la gente faceva con i media: gli studiosi di
provenienza cattolica furono quelli più reattivi.
Si svilupparono cosi, fra la fine degli anni settanta e l'inizio degli anni ottanta, nuove tendenze nella
sociologia e sorsero molti studi sul testo audiovisivo e il suo uso da parte del pubblico.
I cultural studies arrivarono in Italia grazie agli studi letterari da una parte e — per quello che qui ci
interessa — all'interno degli studi sulla televisione : quell'area di studi si collegò alla tradizione
statunitense.
L'adozione della prospettiva proveniente dai cultural studies britannici fu più tarda e realizzata a opera di una
nuova generazione di studiosi e ricercatori: provenivano da esperienze di studio anche nel campo della
semiotica, della letteratura, dei film studies o avevano rifiutato le descrizioni sociali del funzionalismo a
favore della teoria della strutturazione di Giddens.
Il caso, comunque, più significativo di adozione dei cultural studies britannici (e poi global cultural studies)
nella sociologia dei mass media riguarda il settore degli audience studies.
Le prospettive nomotetiche sono state spesso sostituite e/o integrate da approcci idiografici.
Un caso importante tutto italiano è rappresentato dall'elaborazione del modello della conversazione
audiovisiva elaborato da Gianfranco Bettetini. Il modello di Bettetini è costruito sulla dinamica domanda-
risposta fra testo e pubblico. Il testo predispone una vera e propria conversazione. Il modello presenta un
evidente rifiuto del determinismo e adotta la prospettiva dell'audience "attiva" anche se non nella recente
vulgata iperottimistica e un po' banalizzata.
Molti studiosi hanno ibridato le posizioni teoretiche di Gramsci con l’approccio filosofico di Ricoeur e le
prospettive di Hall sull’identità e sui meccanismi della rappresentazione . L’aspetto forse più interessante
risiede nell’adozione dei cultural studies non come approccio sistematico ma come prospettiva.


Appendice.
Identità e diaspora. Note su Stuart Hall
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  • 1. 1. Concetti preliminari 1. Che cos’è la comunicazione La comunicazione può essere interpretata come un atto semplice e autoconclusivo o come un processo dinamico. Nel primo caso è più corretto parlare di informazione (intesa come attività performativa e manipolatoria), si ravvisa cioè un’intenzionalità comunicativa (la semplice trasmissione di un messaggio da un emittente a un destinatario). Il rapporto comunicativo si realizza dunque a partire da un disallineamento tra la fonte e il ricevente. Un secondo caso è rappresentato dal processo attivato dai membri di una società nei confronti di eventi naturali o sociali ai quali vengono attribuiti significati a prescindere da qualsiasi intenzionalità comunicativa. Anche in caso di una relazione condizionata, se, cioè alla modificazione di A corrisponde una modificazione di B, si può parlare di comunicazione (in particolare, di dinamica stimolo-risposta ). Bisogna però tenere presente che la comunicazione non appare per nulla come un atto definito, bensì come un processo continuo. La comunicazione può essere classificata secondo otto concetti di base: 1.Comunicazione come contatto. 2.Comunicazione come trasferimento di risorse e influenza. 3.Comunicazione come passaggio di informazione. 4.Comunicazione come condivisione. 5.Comunicazione come inferenza. 6.Comunicazione come scambio. 7.Comunicazione come relazione sociale. 8.Comunicazione come interpretazione. Gli elementi costitutivi della comunicazione sono: La fonte, per la quale bisogna considerare intenzionalità comunicativa, competenza e abilità, credibilità della fonte, rapporto con il canale, livelli di efficacia. Il messaggio , per il quale vanno considerati la strutturazione/codificazione del messaggio, la distinzione tra simbolo, segno, segnale e messaggio, la distinzione significante/significato, i livelli di efficacia. Il canale, per il quale vanno considerati l’immediatezza e la capacità. 1
  • 2. Il codice, per il quale vanno considerati il livello di arbitrarietà/controllabilità e il trasferimento/trasformazione. 2. La comunicazione di massa È importante distinguere tra comunicazione interpersonale e comunicazione di massa. Una prima differenza è rappresentata dal feedback (retroazione), attività del ricevente determinata dall’emittente. All’interno di uno scambio comunicativo interpersonale, l’emittente può adattare i propri messaggi in rapporto alle reazioni degli ascoltatori (feedback improprio ). Nelle comunicazione di massa il feedback può essere per forza di cose solo deduttivo. La definizione della locuzione comunicazioni di massa è problematica, a partire dal concetto stesso di massa. La variabile “quantità del pubblico” è importante ma non dirimente. I mezzi di massa non consentono una comunicazione paritaria, in quanto non è possibile formulare risposte differenziate ai messaggi. Altrettanto importante non è la massa in sé, quanto la pluralità dei destinatari. Ugo Volli indica con comunicazione di massa le tecnologie di comunicazione a larga banda organizzate in broadcasting, dove l’emittente è una e i destinatari molti, raggiungibili in virtù di due variabili: il possesso e uso di un apparecchio ricevente e una localizzazione entro il raggio di copertura del segnale della fonte emittente. In realtà, seppur con forti limitazioni, i destinatari conservano una capacità di intervenire nel processo di diffusione dei messaggi. Thompson ritiene che il termine massa sia esso stesso fuorviante, in quanto lascia pensare a un pubblico vasto e indifferenziato, sebbene sia ormai appurato che il pubblico possa essere segmentato e analiticamente contestualizzato. Internet e il web 2.0 ci obbligano a riconsiderare i vecchi legami comunicativi. La definizione di Thompson diventa estremamente utile. La comunicazione di massa è: la produzione istituzionalizzata e la diffusione generalizzata di merci simboliche attraverso la fissazione e la trasmissione di informazioni e contenuti simbolici . 2.1 Le caratteristiche della comunicazione di massa Innanzitutto, il grande tema delle tecniche e delle tecnologie impiegate per la riproduzione e la diffusione dei prodotti mediali. Le tecnologie di trasmissione sono quelle che annulla o riducono la distanza spaziale. Le tecnologie di rappresentazione sono quelle che forniscono rappresentazioni parziali del reale Le tecnologie di riproduzione permettono la riproduzione in serie infinite di prodotti culturali. Altre importanti caratteristiche della comunicazione di massa: mercificazione delle forme simboliche . I meccanismi di valorizzazione sono molteplici. Un terzo elemento da prendere in considerazione è individuato da Thompson nella separazione strutturale fra la produzione delle forme simboliche e la loro ricezione ., il rapporto fra emittenti e riceventi è fortemente strutturato e le dinamiche di controllo avvengono mediante forme di feedback mediato oppure attraverso forme di decodifica anticipatoria . La fase di produzione, di per sé, non è il primo stadio della costruzione di un prodotto comunicativo: prima vengono la creazione del prodotto e la pianificazione del suo impatto sul mercato, dei suoi effetti.
  • 3. Più che di diffusione sarebbe poi meglio parlare di trasmissione, che include concetti di tipo broad e narrow (lo sviluppo non procede verso un’estensione, quanto verso una specializzazione dell’offerta) La fase di consumo riguarda l’interazione tra tutta l’attività produttiva-trasmissiva e il mercato. Thompson individua altre due caratteristiche della comunicazione di massa: l’estesa accessibilità delle forme simboliche nello spazio e nel tempo e la circolazione pubblica delle forme simboliche . La separazione fra i contesti di produzione e ricezione favorisce infatti l’accesso alle forme simboliche a diversi anni e chilometri di distanza, oltre a contribuire a determinare nuove forme di vicinanza e intimità. Questo concetto proviene da Anthony Giddens (1984), secondo il quale, nella high modernity, si sono verificati il distacco di tempo e spazio e la despazializzazione della simultaneità. Tempo e spazio diventano due variabili assolutamente disgiunte. La circolazione pubblica delle forme simboliche è connessa all’ampliamento dell’accessibilità, una caratteristica sempre meno portante a causa delle tecnologie che permettono la personalizzazione dei processi comunicativi. Secondo Thompson esisterebbero tre tipi di interazione comunicativa: l’interazione faccia a faccia, l’interazione mediata e l’interazione quasi mediata. Quest’ultima, tipica dei media, consente di sfuggire ai vincoli spazio-temporali e, a differenza delle altre due, non è dialogica ma si fonda su meccanismi di flusso. Questa definizione tuttavia non si attaglia alle ultime tecnologie, come la TV on demand, e tantomeno alle logiche del web 2.0, all’interno del quale (vedi Youtube) convivono forme broadcast, narrowcast, meccanismi di auto-produzione e di partecipazione. Che cosa sono allora i media? 3. Cosa sono i media? Marshall McLuhan intendeva come media tutti gli artefatti e le tecnologie umane, intesi in senso materiale e in senso spirituale e culturale. Questa definizione ci ha permesso di intendere i media anche come forme culturali. Fausto Colombo cataloga i media in base alle loro caratteristiche linguistiche e tecnologiche, proponendo così questa definizione: i media sono apparati socio-tecnici che svolgono una funzione di mediazione nella comunicazione fra soggetti . Questo ci consente di studiare i media sotto diverse prospettive. 1.Come apparati socio-tecnici. 2.Nel loro rapporto con i soggetti sociali. 3.All’interno dello sviluppo delle reti. 4.Nel rapporto fra attore sociale e società 5.Come tecnologie e circuiti culturali al tempo stesso. La televisione è un medium non solo in quanto apparecchio televisivo, ma in quanto “simbolo” dell’intero processo di broadcasting. L’altro concetto che spicca è quello di mediazione, un processo instabile che riguarda non solo la traduzione intesa come dinamica diadica ma che ha a che fare con i meccanismi di rappresentazione e con le forme dell’esperienza. I media possono così essere studiati come soggetti e veicoli di cultura. 3
  • 4. 4. Media e società I media intrattengono un rapporto molto forte con la società, di cui comunque fanno parte. Gli operatori dei media e i membri della società condividono, ad esempio, ideologie. Poiché gli operatori dei media hanno il controllo delle tecnologie, sono loro a promuovere miti e ideologie. Le istituzioni mediali si collocano al’interno di una rete di relazioni molto fitta. A questo punto è necessario introdurre la questione del potere. Il potere è un processo in cui una fonte può esercitare una forza o un’influenza su altre istituzioni o sull’oggetto raggiunto dall’istituzione mediale. È la capacità di intervento sugli eventi nonché di influenza sulle azioni di altri soggetti attraverso forme simboliche. Il potere simbolico dei media è andato accreditandosi grazie alla sua sovrapposizione con altre forme di potere. Garnham (2000) distingue due tipi di potere. 1.Potere strutturale 2.Potere economico Queste due forme di potere possono essere potenziali o già presenti nella situazione sociale in cui i media operano. Il processo di distanziazione spazio-temporal e è uno dei meccanismi attraverso cui i media esercitano, appoggiano, legittimano il potere. Uno dei meccanismi più studiati riguarda proprio il rapporto fra istituzioni mediali e audience, concernente il potere di costruzione del significato. In proposito è bene ricordare l’elaborazione di Denis McQuail (1994), che individua due tipologie di potere attribuendo a esso sei caratteristiche. Nel modello dell’egemonia la fonte sociale è costituita dall’élite dominante, i media sono controllati da forme di concentrazione, la produzione è standardizzata, la visione del mondo è selettiva e decisa dai gatekeeper, il pubblico è passivo. Nel modello del pluralismo la fonte è costituita dai diversi gruppi sociali e politici, i media sono molti e indipendenti, la produzione è libera e creativa, la visione del mondo è aperta al pluralismo, il pubblico è frammentato, selettivo e attivo, gli effetti sono imprevedibili. Le sei caratteristiche principali del potere dei media sono dunque 1.capacità di attrazione e direzione dell’attenzione del pubblico; 2.capacità di persuasione in questioni riguardanti opinioni e credenze; 3.capacità di influenzare comportamenti; 4.capacità di strutturare i meccanismi di definizione della realtà; 5.capacità di conferire status e legittimazione sociale; 6.capacità di fornire informazione rapidamente e in modo estensivo. Queste caratteristiche possono rientrare anche nell’alveo della teoria dell’”imperialismo culturale”, secondo cui la cultura statunitense eserciterebbe un peso immenso sull’intero pianeta (Schiller, 1969). Secondo Schiller il potere mediatico discendeva direttamente dalla forza economica delle imprese transnazionali. Questa teoria si è poi evoluta nel tempo, in quanto sempre più le aziende transnazionali
  • 5. travalicano quello derivante dalla localizzazione statunitense di alcune di esse. Inoltre sono emerse dinamiche glocal, dove i significati derivanti da media globali sono acquisiti e rielaborati da forme locali. Hesmondhalgh critica Schiller in quanto sovrappone i concetti di dominazione culturale e imperialismo culturale/mediale. Hesmondhalgh ribadisce dunque la necessità di studiare le complesse relazioni fra il sistema del mercato contemporaneo e la cultura intesa come produzione e consumo di simboli. In questa prospettiva appaiono più interessanti le prospettive delle più recenti tendenze dell’economia politica dei media. 5. Media e modelli sociali I vari modelli che cercano di interpretare le relazioni fra media è società possono essere così tripartiti: 1.modelli macro-sociali; 2.modelli micro-sociali; 3.modelli dinamici. I modelli macro-sociali considerano i media capaci di imporsi sulla società, influenzandola o determinando effetti specifici. Rimandano all’idea di comunicazione come trasmissione e possiamo farvi rientrare gli approcci deterministici, marxisti e funzionalistici. I modelli micro-sociali sostengono che la società usi i media. Questi ultimi sono strumenti di connessione e auto rappresentazione che la società utilizza più o meno consapevolmente. In tale ambito possiamo collocare gli studi sulla ricezione e i cultural studies, le tendenze del post-modernismo e gli audience studies. I modelli dinamici sono quegli approcci secondo cui i media e la società risultano connessi secondo un rapporto interattivo, in una dinamica di influenza reciproca. Si rifiuta così la logica degli effetti, ma si accetta la dinamica dell’influenza sociale, si rifiuta il determinismo a favore di uno sguardo olistico. Abbiamo dunque a che fare con gli approcci interazionisti, gli audience studies più recenti e l’area del “realismo discorsivo”. 3. Il problema degli effetti 1. Le teorie degli effetti Nel corso della storia dei media studies possiamo individuare quattro fasi: quella dei media onnipotenti va dall’inizio del Novecento agli anni trenta e si regge su un concetto di comunicazione univoco e trasmissivo. La seconda fase coincide con lo sviluppo delle ricerche empiriche e determina la verifica della teoria dei media onnipotenti. La terza fase corrisponde alla riscoperta del potere dei media . L’attenzione viene spostata sul cambiamento a lungo termine, sulle cognizioni, sulle variabili intervenienti di contesto, disposizione e motivazione, sui fenomeni collettivi come l’opinione pubblica, le credenze, le ideologie, gli schemi culturali e le forme istituzionali di offerta dei media. 5
  • 6. La quarta fase viene definita influenza negoziata dei media e sostiene che la comunicazione di massa fornisca significati socio-culturali che comunque vanno reinterpretati e ristrutturati dal pubblico, capace talvolta di offrire forme di resistenza. Quest’ultima fase adotta una prospettiva metodologica non quantitativa. Mauro Wolf non estrapola dai periodi storici i paradigmi percepiti come dominanti ma cerca di individuare le linee di sviluppo costanti. Le teorie degli effetti rappresentano uno dei modi di interpretare la comunicazione. Possiamo provare a raggrupparle per aree teoriche omogenee. •Hypodermic effects Considerano i media come produttori di effetti diretti sugli individui. •Copycat effects Ritengono che i media siano capaci di attivare dinamiche di imitazione. •Innoculation theory Le audience mediali si desensibilizzano ai contenuti mediali a causa dell’esposizione ripetuta agli stessi contenuti. •Two-step flow theory L’influenza dei media è considerata indiretta: mediazione effettuata da opinion makers nelle istituzioni mediali e da opinion leaders nei gruppi sociali. •Uses and gratification theory Le audience scelgono da cosa farsi influenzare. •Cultivation theory Proviene dall’ipotesi delle coltivazione: il consumo ripetuto di alcuni contenuti mediali determina la “coltivazione” di attitudini e valori. 1.1. Diffusione dell’informazione Produce solitamente effetti a breve e medio termine ma con conseguenze sul lungo periodo. Per questa ragione i modelli di diffusione dell’informazione vengono classificati come effetti intenzionali a lungo termine. In pratica, ogni notizia non si limita a fornire informazione ma produce una comprensione da parte delle persone. La diffusione dell’informazione è misurabile attraverso lo studio del ricordo degli eventi. Alcuni eventi possono subire un’operazione di “remind”. Le variabili usate in queste ricerche sono quattro: 1. il grado di conoscenza di un dato evento; 2. l’importanza relativa dell’evento in questione; 3. il volume di informazione trasmessa in merito; 4. in che misura la conoscenza di un evento proviene dai mezzi di informazione. Uno dei modelli più utilizzati è la curva a J di Greenberg: •per gli avvenimenti noti a tutti, una quota elevata è stata informata tramite contatto personale: •per gli avvenimenti noti a quote decrescenti, scende la percentuale di quelli raggiunti da contatto personale e sale quella da fonte mediale; •per gli avvenimenti noti a settori ridotti sale la quota raggiunta da contatti personali. La misurazione della diffusione è resa complicata dalla forte presenza di hard news e dall’esistenza di variabili storico-ambientali non facilmente inquadrabili. 1.2. Agenda setting Elaborata da McCombs e Shaw negli anni settanta, secondo questa teoria gli individui tenderebbero a includere o escludere dalle proprie conoscenze ciò che i media includono o escludono dal loro contenuto. Il pubblico assegna importanza a ciò che viene enfatizzato dai media. Anche questa teoria rientra nell’area degli effetti intenzionali a lungo termine. Secondo questa teoria, i media non sarebbero i responsabili dei contenuti sui quali pensiamo bensì della scelta di tali contenuti. Vengono ridimensionati gli effetti che sono mediati dalle predisposizioni del ricevente; il potere di agenda varia in rapporto alle diverse aree tematiche ed è maggiore quanto più i temi sono distanti
  • 7. dalle esperienze dei destinatari della comunicazione. Tra gli interesse prevalenti della teoria vi sono la tipizzazione e la gerarchizzazione degli “oggetti cognitivi”. La teoria, cioè, esclude gli aspetti valutativi . Molti critici la ritengono ancorata al modello “stimolo-risposta”, anche se gli stessi McCombs e Shaw evidenziano che non esiste una sola agenda, ma anche quella dell’audience e della stessa politica. Le tre agende sarebbero interconnesse, e grazie a questo rapporto le audience avrebbero una maggiore autonomia di analisi e giudizio. La teoria è facilmente applicabile negli studi sul newsmaking e rappresenta una parte importante nella strutturazione delle campagne elettorali. 1.3. Effetti di framing Il modo in cui le notizie sono incorniciate dai giornalisti e il modo in cui le incornicia il pubblico possono essere simili o differenti . Le notizie risulterebbero di più agevole comprensione se incorniciate all’interno di convinzioni pregresse del pubblico. La costruzione di un frame si muoverebbe come una decodifica anticipatoria . Esistono due tipi di frames: i media frames e gli individual/audience frames, correlati e dipendenti tra loro. Possiamo individuare quattro tipi di framing: 1.media frames elaborati dai giornalisti 2.trasmissione pubblica delle notizie 3.accettazione dei frames da parte del pubblico 4.feedback del pubblico che tende a rafforzare le dinamiche di framing. Le due cornici non sono sempre corrispondenti: entrano in gioco le strutture cognitive dei soggetti, fondate su esperienze pregresse non generalizzabili. Vengono individuati diversi tipi di framing nella narrazione giornalistica: 1.conflitto; 2.interesse umano/personalizzazione; 3.conseguenze previste e/o ipotizzabili; 4.incornicia mento morale/moralistico 5.responsabilità. Un esempio di framing si ha quando gli spin doctors costruiscono notizie sui propri candidati incorniciandole entro un quadro logico e di facile accesso all’opinione pubblica. Dalla teoria del framing si sono sviluppati anche metodi di immagine, come la frame analysis, o il priming, traducibile come “innesco”, “facilitazione”, “attivazione”. È un fenomeno che deriva dalle scelte giornalistiche di privilegiare o marginalizzare determinati argomenti, riguarda il peso della copertura informativa sulle varie issues e non il peso della gerarchia delle stesse issues. Si tende oggi a parlare di agenda building, attraverso il quale la società seleziona alcuni temi e li consegna alle istituzioni. Questa prospettiva assegna un ruolo determinante alla sfera pubblica (in particolare negli Stati Uniti, dove la presenza e la funzione dei gruppi di interesse è stata più decisiva dei partiti). 1.4 Teoria dei knowledge gaps I media svolgono una doppia funzione : da un lato modificano le differenze di conoscenza derivanti dalla forbice sociale, dall’altro la forbice tra i diversi settori del pubblico tende ad allargarsi a causa della maggiore richiesta di qualificazione e competenza. Lo scarto si amplia per la crescita esponenziale delle competenze negli strati superiori della società. Le nuove tecnologie 7
  • 8. accentuano le differenze tra i gruppi sociali che possiedono e possono accedere all’informazione e quelli che invece non possono. La crescita dei canali specializzati favorisce un uso più consapevole e libero dei media, ma una fetta di individui continua a non accedere ai nuovi servizi accentuando il distacco dalle élite. La teoria dei knowledge gaps è una teoria sulla distribuzione della conoscenza. Baldin, McVoy e Steinfield individuano otto diversi tipi di gap: •gap informativo; •gap nella fruizione dell’intrattenimento ; •gap sociale; •gap nella capacità di discriminazione dei messaggi televisivi ; •gap nell’abilità di evitare gli spot commerciali ; •gap nell’informazione legata al consumo ; •gap fra minori; •gap centro/periferia. 1.5. Spirale del silenzio Si inserisce nell’alveo degli effetti non intenzionali a lungo termine : la società minaccia di isolare gli individui devianti, gli individui temono l’isolamento e quindi si rapportano costantemente con quello che viene percepito come clima di opinione dominante. Due tipi di conseguenze: individuali e collettive. Tra le prime, vanno segnalate la dissimulazione delle proprie opinioni in minoranza e la loro manifestazione in maggioranza. Le idee percepite come dominanti quindi si diffondono con un effetto “a spirale”, mentre le opinioni minoritarie sono destinate all’oblio. I media possono proporre come maggioritaria un’opinione, influenzando le opinioni effettive dell’audience. 1.6. Teoria della coltivazione È una teoria sugli effetti a lungo termine prodotti dalla televisione. Ritiene che tra la realtà e l’immagine che ne dà la TV esista una discrasia . I media quindi possono influenzare le persone circa la realtà fenomenica e la televisione può diventare un vero e proprio agente di omogeneizzazione culturale. L’esposizione alla TV induce un meccanismo di mainstreaming. Nel caso della violenza fruita si verifica un differenziale di coltivazione . Questo meccanismo determina un differenziale tra television answer e reality choice: è possibile quantificare gli effetti di coltivazione. La teoria di Gerbner non va confusa con il meccanicismo dei modelli “stimolo-risposta”. La cultivation theory si basa sull’idea che la televisione produca l’adozione sociale di modelli stereotipati. La TV costituisce una specie di ambiente simbolico, coerente al suo interno, che definisce i meccanismi di costruzione della percezione della realtà sociale. All’interno della teoria si situa il paradigma cultural indicators project, che intende studiare i meccanismi di produzione mediale e la relazione fra esposizione dell’audience ai messaggi televisivi e i comportamenti sociali. 1.7. Teoria della dipendenza Parte dall’assunto che la porzione di realtà che gli individui possono conoscere direttamente è assai meno vasta e significativa di quella a cui possono accedere attraverso i
  • 9. media. Gli individui tendono quindi a dipendere dai medi per la conoscenza di informazioni e nozioni funzionali ai propri scopi. Il sistema dei media costituisce una risorsa fondamentale della società e instaura relazioni molto articolate fra tale sistema e il sistema politico: i due sistemi dipendo l’uno dall’altro. Gli individui dipendono dai media per il raggiungimento di tre scopi principali: 1.la comprensione; 2.l’orientamento; 3.lo svago. Al centro della riflessione della teoria è posta l’esistenza di “reti” dipendenti tutte dai media per l’interpretazione della realtà sociale. Vi sono molti contatti con l’approccio uses and gratification. De Fleur e Ball-Rokeach usano un paradigma di tipo cognitivo per spiegare il processo psicologico che determina il rafforzamento della dipendenza dai media. Si articola in quattro fasi: 1.gli individui si espongono ai media attraverso una scelta (selezionatori attivi ) o casualmente (osservatori casuali); 2.si determinano forme di dipendenza, attivate da vere e proprie stimolazioni cognitive ; 3.si ha il coinvolgimento; 4.si producono effetti cognitivi , affettivi e comportamentali . La teoria ipotizza l’esistenza di effetti “forti” sebbene in presenza di un’audience non necessariamente passiva. 1.8. Le distorsioni informative della stampa Gli individui, secondo Lippmann (1922), agiscono in conseguenza di ciò che ritengono reale a partire dalle descrizioni provenienti dalla stampa. Le forme di distorsione dipendono da fattori interni al lavoro giornalistico peraltro difficilmente controllabili. Le dinamiche di newsmaking determinano forme di distorsione involontaria . Bisogna porre in evidenza che la stessa modalità di produzione delle informazioni determina la decontestualizzazione dei fatti , lo sviluppo di fattoidi, la mutazione genetica degli eventi. Le esigenze del trattamento delle notizie sono la causa di routine produttive. L’immagine che la gente ha della realtà si configura come una conseguenza del modo in cui i media vengono usati per dare le informazioni. 1.9. Teoria situazionale I media contribuiscono alla sedimentazione e alla ristrutturazione dei sistemi di senso, costruiscono ambienti sociali ed è il loro “codice di accesso” che determina le capacità di decodifica e interpretazione da parte dei destinatari. Pensiamo al successo della TV: nessuno ha bisogno di istruzione per poterla guardare. L’ambiente informativo comune non produce necessariamente comportamenti uniformi ma può favorire lo sviluppo di gruppi superficiali e talvolta effimeri. L’elaborazione di Meyrowitz può essere così riassunta. •I media costruiscono ambienti sociali che includono o escludono, uniscono o dividono le persone in modi specifici. •È il codice di accesso al medium che determina chi dispone del potenziale di codifica e decodifica necessario per inviare messaggi e accedere al patrimonio di informazioni disponibili. 9
  • 10. •Il successo della televisione è dovuto anche al superamento dei condizionamenti impliciti nel codice della scrittura. •I media elettronici hanno portato alla rottura dei sistemi informativi specialistici e segmentati creati e mantenuti dall’alfabetizzazione e dalla stampa. •L’ambiente informativo quotidiano non produce necessariamente comportamenti uniformi ma favorisce la formazione di gruppi più superficiali ed effimeri. •L’indebolimento dei luoghi di socializzazione favorisce l’adozione di comportamenti e pratiche da retroscena. La TV abbatte le barriere percettive che delimitavano nel passato i diversi territori sociali, la TV ridisegna la nostra conoscenza sociale. 1.10. Il controllo sociale Herman e Chomsky affermano che i media difendono implicitamente l’ordine sociale esistente. Il contenuto dei messaggi: a) difende norme e convinzioni sociali; b) dà voce alle élite dominanti; c) oscura e condanna i comportamenti “non conformistici”; d) propone soluzioni ai problemi nell’ambito delle regole date; e) tende a determinare “panico moralistico” e a creare “capri espiatori”. Secondo la teoria, i media omettono volontariamente alcune informazioni e producono un controllo sociale omologativo e/o “tranquillizzante”. La questione riguarda il più generale tema dei rapporti fra la società e i media nonché le problematiche riguardanti il potere e il controllo. 1.11. Gaze theory Sono le cosiddette teorie dello “sguardo”. Nei media studies si fa riferimento all’approccio femminista allo sguardo cinematografico. Laura Mulvey, nel suo Visual Pleasure and Narrative Cinema (1973), teorizza che il cinema riproponga modelli patriarcali. Esprime l’idea che la macchina da presa assuma sempre il POV maschile. Il processo di oggettificazione viene enfatizzato dai movimenti della macchina da presa che esplorerebbe il corpo femminile come oggetto di piacere in una prospettiva maschile. Lo sguardo maschile viene così adottato anche dalle donne, che hanno appreso che la loro “natura” è quella di essere guardate. Simili approcci sono stati applicati anche alla fotografia e alcuni ricercatori hanno usato tecniche della frame analysis per individuare le forme dello sguardo maschile o, comunque, erotizzante. John Ellis (1992) ha applicato il concetto di gaze alla TV: il grado di disattenzione dei telespettatori è responsabile di un’attenuazione dell’effetto di oggettificazione. Ellis adopera il concetto di glance, che riconduce alla nozione di intenzionalità. Diventa a questo punto difficile parlare di “effetto”, al massimo si può fare riferimento all’influenza. L’elaborazione della Mulvey è importante nella costruzione del pensiero della differenza. La versione originaria della gaze theory adottava una posizione meccanicistica, poi rivista, e la Mulvey proponeva un’analisi teorica elegante ma senza riscontri empirici. 1.12. Per concludere Molte teorie sugli effetti si concentrano sulla dimensione diacronica, indicando come più rilevanti gli effetti a livello cognitivo (rappresentazione della realtà ). Tali effetti deriverebbero dall’immersione del soggetto nel flusso comunicativo. Molte delle teorie più pessimistiche appaiono di fatto fondate sull’assunto della dipendenza .
  • 11. 2. Effetti: un modello che non funziona Il macro-modello degli effetti è alimentato dall’idea di fondo che i contenuti mediali producano sempre esiti, per lo più pericolosi. Il modello degli effetti ha successo perché semplice, deterministico e tranquillizzante. Non richiede alcuna difficoltà concettuale. Lo stesso sistema dell’informazione trova maggiore facilità a spiegare fenomeni sociali ricorrendo a uno schema “causa-effetto”. La responsabilità è anche del mondo accademico e della ricerca, che ottiene più facilmente finanziamenti pubblici con gli studi sugli effetti dei media, specialmente sui bambini. Inoltre i risultati si prestano alla narrazione sociale. Lavorare sugli effetti è facile e conveniente, ma spesso la ricerca scientifica è in balia di un uso ideologico/strumentale. Sul tema degli studi sugli effetti, David Gauntlett ha realizzato Moving Experiences. Media Effects and Beyond (1995). Gauntlett prende in considerazione decine di ricerche allo scopo di verificarne la fondatezza metodologica e segue con attenzione il dibattito sugli effetti. Le obiezioni di Gauntlett sono riassumibili in dieci punti. 2.1 Dieci motivi per ripensare la questione degli effetti Il modello degli effetti non considera i problemi sociali Ha come punto di partenza i media e solo successivamente stabilisce connessioni fra questi e la società. Molte delle ricerche che si collocano in quest’area non considerano variabili importanti come il contesto sociale. A proposito, Gauntlett cita una ricerca del 1994 che studiava le relazioni tra adolescenti e media. Dalla ricerca emerse che gli studenti sanzionati per atti di violenza guardavano la televisione per un tempo medio di gran lunga inferiore rispetto al gruppo dei “bravi ragazzi”. Le cause dei comportamenti violenti erano da ricercare altrove. Il modello degli effetti considera i minori inadeguati Le ricerche studiano i minori solo come potenziali “vittime” dei media. Molte ricerche di ambito psicologico si risolvono spesso in vere e proprie “trappole” per i soggetti. Molte di queste ricerche utilizzano metodi e strumenti provenienti dalla cosiddetta “ricerca clinica”. Anche la ricerca italiana oscilla tra i due poli dei minori come soggetti “adulti” che usano i media per processi di “auto-socializzazione” o, dall’altra parte, del minore come “minus habens”. Entrambi gli approcci sono venati di un eccessivo semplificazionismo. Tuttavia esistono diverse ricerche che “ascoltano” i minori e ne considerano le capacità, adottando approcci “grounded-theory”. Il modello degli effetti si fonda su un’ideologia superficiale Gli studi sugli effetti infatti assumono che: a) i problemi non sono presenti nell’organizzazione sociale e nelle disuguaglianze sociali ma b) in una specie di “spirito magico” prodotto dalla cultura popolare. La violenza presente negli audiovisivi viene spesso tematizzata come gratuita, ma, al tempo stesso, è considerata “misurabile”. Questa logica conforta chi ritiene che le cause della violenza vadano cercate nei media, che rappresentano un ottimo bersaglio su cui scaricare i problemi sociali. Anche quando si parla dei bambini “lasciati da soli” 11
  • 12. davanti al televisore, spesso non si coglie l’espressione “lasciati da soli” implica una responsabilità genitoriale. Il modello degli eff etti non definisce l’oggetto di studio Le teorie degli effetti non discriminano tra i contenuti mediali e le loro conseguenze. Gli stessi “atti di violenza” sono genericamente definiti in maniera non discriminante. Molti studi classificano tutti questi atti in base al “livello di aggressività”. Ne derivano curiose tassonomie (vedere una sparatoria in un film western equivale a vedere un uomo morire sulla sedia elettrica). Il modello degli effetti si fonda spesso su studi artificiali Molte ricerche sono state realizzate in setting laboratori ali, decontestualizzati dalla fruizione “naturale”. I bambini, è stato notato, spesso cambiano atteggiamento in funzione di ciò che ritengono gradito agli adulti. Il modello degli effetti presen ta una metodologia problematica Si tende ad accettare errori grossolani solitamente del tutto stigmatizzati negli altri campi delle scienze sociali. Un errore molto frequente è quello di costruire set di “conseguenze” non dimostrabili, stabilendo correlazioni scorrette. Ad esempio: un comportamento antisociale è causato dalla fruizione di programmi TV violenti oppure chi ha comportamenti antisociali preferisce vedere programmi violenti? Accettare tali errori legittima chi accusa le scienze della comunicazione di scarso rigore metodologico e di semplicismo impressionistico. Peraltro, le ricerche “impressionistiche” si radicano su visioni di tipo positivistico. Il modello degli effetti analizza la violenza in maniera selettiva Si concentra sull’analisi delle immagini e della rappresentazione di comportamenti violenti in film e fiction. Dà poca importanza alla violenza decontestualizzata dell’informazione e dei factual programs. Molti studioso hanno evidenziato una “violenza del discorso” come forma di discomunicazione . Guido Gili (2006) ha introdotto il concetto di “violenza tiepida ”, che solitamente la ricerca sugli effetti non prende in considerazione (talk show, reality, dibattiti politici). Il modello degli effetti evidenzia un complesso di superiorità Da parte dei ricercatori. Le teorie ritengono che i media abbiano la capacità di determinare effetti su tutti i soggetti raggiunti dai loro contenuti, meno che sugli stessi ricercatori. Questo esito è reso possibile da una scarsa analisi del reticolo di relazioni sociali che, unite alle dinamiche di uso dei media, contribuiscono a formare meccanismi di influenza. Il modello degli effetti non considera il significato dei media In molte ricerche non si trova alcuna analisi delle modalità di costruzione del significato. In realtà i significati mediali e lo stesso processo di costruzione dei significati derivano da un’attività cooperativa. L’ encoding-decoding model elaborato da Stuart Hall ha messo in luce la dinamica di “incorporazione” e di “resistenza ”. Il modello degli effetti non ha radicamento teorico Non esiste un modello teorico che spiega perché la gente dovrebbe copiare i media. Si tratta di un assunto discutibile. Non esiste alcuna teoria sistematica e fondata sugli “effetti” (ne esistono sull’influenza). I diversi approcci trovano conferme limitate a un territorio.
  • 13. Le condizioni strutturali e sociali risultano co-agenti sui processi operati dai contenuti mediali. Questo fa crollare l’orientamento nomo tetico del modello degli effetti. 3. Effetti e influenza Possiamo affermare che: 1.i media non producono effetti de terministicamente intesi; 2.essi però possono contribuire a sviluppare forme di “influenza”. Il concetto di influenza è molto importante e dipende da molte variabili: 1. •dipende da fattori personali e sociali; •dipende dal contesto di ricezione ; •è più o meno forte a seconda dei valori già diffusi nell’audience; •può tradursi in forme di brevi “effetti comportamentali”. L’effetto comportamentale (si pensi alle campagne di solidarietà) non implica una trasformazione attitudinale . La pluralità dei fattori in gioco in una rete rende superate e inadatte espressioni che si rifanno al processo unilineare e monodirezionale del modello “stimolo-risposta”. Il termine influenza non riduce l’importanza sociale dei media e la loro responsabilità politica. Da una parte si abbandona l’idea che un messaggio possa indirizzare pedissequamente tutti i soggetti raggiunti; dall’altra si considera il peso che i media hanno nei processi di costruzione del consenso. La nozione di “microeffetti” è estremamente efficace poiché fa riferimento ad aspetti che possono attivare elementi influenzanti ma che non sono in grado di generare un significativo mutamento d’opinione. Gli esperimenti di Kepplinger e Dombach (1987) hanno evidenziato l’importanza delle inquadrature televisive nell’attivazione di percezioni diverse dei candidati politici. I telespettatori studiati da Keeter (1987) mostravano una maggiore disposizione a essere “influenzati” dall’immagine televisiva dei candidati. Tale risultato dimostra l’incremento dei fattori che generano consenso intorno a un candidato, e non un effetto “diretto” della televisione. Si riscontrano micro-effetti anche nelle esperienze di partecipazione politica e sociale rintracciabili nei processi di social-networking. 4. Misurare e/o descrivere? Dalla misurazione degli effetti alla misurazione del pubblico Le teorie degli effetti hanno fatto riferimento soprattutto a metodi quantitativi. Gli studi nati all’interno dei cultural studies hanno invece utilizzato approcci qualitativi. Gli studiosi si sono spesso divisi sui metodi di ricerca, e la polemica è stata superata in favore di approcci ibridi. I fattori che hanno favorito gli approcci quantitativi sono diversi: il valore generalizzante del “numero”, un diffuso pregiudizio positivista, la più agevole “vendibilità” e “notiziabilità”. In realtà già molte delle ricerche quantitative nate nell’alveo della “ricerca amministrativa” possedevano un impianto metodologico articolato e adottavano diversi metodi. 13
  • 14. Le ricerche qualitative hanno dovuto affrontare il pregiudizio positivista circa il loro apparente impressionismo. Anche nel loro caso, però, un pregiudizio “in positivo” riguarda la possibilità di generalizzare i risultati ottenuti, consegnandoci tendenze che potrebbero permettere forme di generalizzazione dei risultati. Si va sempre più verso un superamento dello scontro quantitativo vs qualitativo, anche se esistono differenti tradizioni di ricerca e metodologie ormai sedimentate. D’accordo con Kim Christian Schrøder possiamo riassumere gli approcci di ricerca in quattro grandi aree; 1.la ricerca quantitativa sull’audience; 2.la ricerca sperimentale; 3.la ricerca sulla ricezione; 4.la ricerca etnografica. Le ricerche fondate sulle teorie degli effetti hanno fatto uso prioritariamente delle prime due. Ma già all’interno della ricerca amministrativa vi furono molti autori che criticarono l’uso troppo disinvolto del dato numerico. Fu proprio l’uso quasi “ideologico” dei metodi quantitativi a costituire uno dei più significativi motivi della frattura tra Adorno e Lazarsfeld. La Scuola di Francoforte usò tre argomenti contro i metodi quantitativi: 1.l’inevitabile sovrapposizione tra audience studies e studi quantitativi sulla persuasione; 2.il carattere ideologico di tali approcci: i “francofortesi” avevano intuito che la misurazione del pubblico portava verso una sua oggettificazione; 3.il riduzionismo comportamentista . Gli approcci quantitativi negli anni si sono molto modificati, abbandonando alcune rigidità di derivazione positivista a favore di metodi al contempo induttivi e deduttivi. Gli approcci quantitativi hanno abbandonato forme di analisi troppo ancorate all’evidenza del numero a favore di percorsi di studio più flessibili. Una spinta in tal senso è venuta dall’evoluzione delle ricerche classiche in forma di survey, il cui concetto implica un’indagine critica. Le forme più comuni di survey sono quelle riguardanti la misurazione dell’audience ma tale approccio è stato impiegato anche in altri ambiti di ricerca sui media. Gli studi sulla ricezione di Dallas portarono allo studio della “lettura negoziata ”, cioè di come il serial venisse recepito in maniera differente dai diversi pubblici. Le forme di monitoraggio sui media tradizionali sia le svariate modalità di new media monitoring adoperano diversi tipi di survey. 4.1 Misurare il pubblico dei media Lo studio del pubblico non può prescindere dalla sua misurazione. Le società contemporanee hanno la necessità strutturale di conoscere la configurazione dell’audience. Il concetto di misurazione si è evoluto: considera anche le modalità di fruizione e i suoi significati sociali. Possiamo individuare quattro modalità di misurazione: •quantitativa; •motivazionale; •stile di fruizione; •usi sociali. La più comune è quella quantitativa, effettuata attraverso strumenti audiometrici.
  • 15. Le rilevazioni possono essere di due tipi: ricerche per campione e rilevazioni d’ascolto . Le due variabili sono spesse fuse insieme nel people meter, dove uno strumento di rilevazione è collegato al televisore principale della famiglia membro del campione. L’introduzione di una rilevazione sistematica e automatica degli ascolti cambia in maniera radicale l’uso e la stessa funzione sociale della televisione. I vantaggi prevalenti sono il campione statisticamente stratificato e la facile ed efficace generalizzabilità dell’audience. Gli svantaggi sono l’errore statistico, la possibilità di manipolazione e la scarsità di informazione sulle modalità di fruizione. Un altro caso interessante è il BARB del sistema britannico, che studia 1500 famiglie corrispondenti a oltre 11.500 soggetti. La misurazione delle motivazioni si colloca in un’area intermedia. Si analizzano le idee, i giudizi, le valutazione del telespettatore, cioè il modo di dispors i. Gli strumenti più frequentemente utilizzati sono quelli psicometrici classici, dal questionario alle scale di valutazione. In una zona ibrida si situa la misura del gradimento , cioè la misurazione del grado di soddisfazione che il pubblico ricava dalla visione di un programma; costituisce uno strumento di inferenza per la definizione di “qualità” di un programma. Vengono utilizzate due grandi famiglie di scale: a) la progressione lineare; b) la progressione non lineare. Le forme di sovrapposizione fra il modello degli effetti e le idee più tradizionali di “misurazione” dell’audience sono molto evidenti: si fondano sull’idea della comunicazione come processo trasmissivo. 5. Da Simmel alla svolta semiotica 1. Il dialogo Dialogo come dia-logos, la “parola che sta in mezzo”, disponibile a tutti ma che non appartiene a nessuno, nessuno può ritenersene depositario unico. Il significato non può che derivare da un processo cooperativo e lo stesso senso sociale non può che darsi in una dimensione razionale. Emmanuel Lévinas afferma che l’umanità non solo ha origine nell’altro, ma non può che misurarsi con lui (parzialità del soggetto). L’idea di dialogo implica la centralità della persona rispetto ai sistemi, l’attenzione al contesto, un’ampia considerazione dei meccanismi che consentono la messa in comune di esperienze e linguaggi. 2. Il problema del contesto La sociologia funzionalista dei media mostra una notevole attenzione al ruolo sociale della comunicazione e alle problematiche connesse alle possibili forme di influenza dei media sugli individui. Molte delle ricerche commissionate si muovevano proprio dalla concettualizzazione di un “pubblico-massa” facilmente orientabile e senza differenziazioni interne. 15
  • 16. Gli studiosi funzionalisti andavano man mano semplificando l’oggetto di studio, prima di tutto espellendo il contesto dall’ambito della ricerca. Il ricorso alla nozione di contesto implicava infatti la necessità di uscire dalla logica “stimolo-risposta” e di considerare il pubblico come un aggregato instabile e segmentato al suo interno. Il problema del contesto segnò una sorta di discrimine tra le ricerche sorte nell’alveo delle teorie della trasmissione e quelle afferenti alle teorie del dialogo. Lo sviluppo di questa nuova modellizzazione avviene a partire dalla metà degli anni cinquanta, in relazione all’avvento della two-step flow of communication theory , che destruttura i capisaldi della sociologia funzionalista dei media. Esistono molte definizioni e classificazioni in merito al contesto. Levinson (1983) ipotizza l’esistenza di: a) un contesto sociale connesso con le identità dei soggetti partecipanti al processo comunicativo; b) un contesto epistemico, riguardante le forme di conoscenza dei soggetti; c) un co-testo, ovvero la posizione specifica dell’enunciato nelle dinamiche comunicative. Parret (1983) individua cinque tipi di contesto: 1.dimensione co-testuale; 2.contesto esistenziale; 3.contesto situazionale; 4.contesto dell’azione; 5.contesto psicologico. Casetti (1994) individua quattro idee di contesto, cui faremo riferimento. Contesto come: 1.orizzonte di riferimento di un testo ; 2.ambiente culturale in cui si colloca un testo ; 3.circuito della comunicazione ; 4.insieme di enunciati . L’analisi del contesto non può ridursi alla considerazione delle variabili sociali, ma deve comprendere lo studio delle identità sociali. 3. Da Simmel alla Scuola di Chicago Il concetto di “organismo-rete”, che conduce a quello di “rete”, può risalire a un sistema reticolare per lo scambio di merci e informazioni ideato da Vauban. La società industriale viene considerata organica e i mezzi di comunicazione ricevono una sorta di consacrazione funzionale. L’altro caposaldo della nuova società è la divisione del lavoro , sistematizzato da Adam Smith (1723- 1790). Nella sua elaborazione, è la comunicazione che determina i meccanismi organizzativi del lavoro in fabbrica e struttura le dinamiche degli spazi economici. Babbage (1792-1871) progettò macchine che erano l’applicazione tecnica dell’idea di “divisione del lavoro mentale” (la macchina a differenza e la macchina analitica ). Comte, tra il 1830 e il 1942, elabora i concetti di base di una scienza positiva e, negli stessi anni Quételet elabora il concetto di uomo medio. Nasce la psicologia delle folle. La folla viene vista come un’entità pericolosa e potenzialmente destabilizzante. Secondo Le Bon, l’anima della folla è strettamente connessa all’anima della razza .
  • 17. Gabriel Tarde preferisce parlare di pubblici, aprendo così la porta alle analisi sui gruppi sociali formali e informali. Durkheim offre invece una sociologia organicista: il suo insegnamento avrà un peso notevole anche sull’analisi della comunicazione, favorendo approcci “quantitativi” che arriveranno fino alla ricerca amministrativa. All’opposto, invece, Georg Simmel afferma che le interazioni sociali si fondano su una ragione di tipo soggettivo e tutti gli aggregati sociali si organizzano su scambi dinamici intersoggettivi. I rapporti sociali sono interazioni comunicative. Con Simmel nasce una vera e propria “sociologia della vita quotidiana”. Un altro importante contributo ci è fornito dalla Scuola di Chicago, che ebbe in Robert Ezra Park il suo più illustre esponente. La Scuola di Chicago pose sotto osservazione la città, interpretata come un laboratorio e luogo della mobilità sociale . Le prime ricerche si concentrarono sui processi di integrazione di “poveri” e “immigrati”. Park si interroga sulla funzione di assimilazione svolta dai giornali, sulla natura dell’informazione, la professionalità del giornalismo e ciò che lo distingue dalla “propaganda sociale”. Nel 1921 Park elabora il concetto di ecologia umana: le società moderne sarebbero costituite da un livello “vitale” e un livello “culturale”. La comunicazione si farebbe carico del livello culturale permettendo le appartenenze degli individui. I media fungono, cioè, da acceleratori della superficialità dei rapporti sociali ma funzionano anche come strumento di emancipazione e democratizzazione. L’aspetto interessante è la scelta della sociologia del quotidiano . Molte delle suggestioni lanciate da Park verranno riprese dalla corrente dei cultural studies britannici. Simmel fu il primo ad occuparsi dei fenomeni di moda, con un metodo che può essere definito fenomenologia della modernità. L’importanza di Simmel sta nell’aver operato una mutazione eccezionale nel metodo d’analisi dei fenomeni sociali: dalla “sostanza” dell’oggetto passa allo studio della sua “funzione”. A Simmel non interessa studiare che cos’è la moda, ma a cosa serve nell’organizzazione sociale e in rapporto ai bisogni degli individui. Simmel è innovatore: i suoi tipi sono modellati dalle reazioni e dalle aspettative degli altri. Lo “straniero” viene definito come un elemento del gruppo che non fa parte del gruppo, vicino e lontano al tempo stesso, “confidente” e intermediario. Charles Sanders Pierce affaccia il pragmatismo filosofico allo studio della comunicazione; George Herbert Mead si dedicò allo studio delle relazioni fra il ruolo dell’ altro e i processi di comunicazione; Charles Wright Mills si lega al metodo etnografico e al pragmatismo, ed è uno dei fondatori dei cultural studies americani, che porranno l’accento sull’analisi della cultura popolare e dei meccanismi di fruizione mediale da parte degli individui. 4. Il problema della decodifica La nozione di “contesto” si trascinava dietro la consapevolezza che i messaggi potessero assumere significati diversi nelle differenti situazioni in cui essi erano veicolati. Probabilmente gli stessi messaggi potevano subire delle “trasformazioni” a partire dalla loro formulazione. Il tema della decodifica rappresenta uno degli elementi chiave nel superamento dell’idea del pubblico-massa facilmente orientabile con l’adozione di apposite strategie comunicative. Un processo di decodifica presume la possibilità che tale processo possa essere “difforme” da quanto previsto dall’emittente. La decodifica è anche connessa alle dinamiche di produzione sociale del significato. L’assenza di processi di decodifica rappresenta il “vulnus” della teoria matematica dell’informazione. 17
  • 18. 5. La Scuola di Palo Alto Ha i suoi più noti esponenti in Paul Watzlawick e Gregory Bateson. Critici nei confronti del modello di Shannon e Weaver, non rifiutarono i contributi della cibernetica allo studio della comunicazione. Wiener, autore di Cybernetics (1948), delinea la formulazione teorica della società dell’in formazione , nonché il concetto di entropia (misura del grado di disorganizzazione di un sistema). Ciò che Bateson, Hall, Goffmann, Watzlawick rifiutano della teoria dell’informazione è il suo scarso spessore socio-culturale. La prospettiva di Wiener era senz’altro più in linea con gli assunti della Scuola di Palo Alto. I concetti chiave della Scuola di Palo Alto sono così riassumibili: •la comunicazione si fonda su processi relazionali, ad avere importanza sono le interconnessioni tra singoli elementi; •qualunque attività umana possiede valore comunicativo, è “impossibile non comunicare”; •i disturbi psichici e della personalità sono spiegabili in termini di difficoltà di comunicazione tra l’individuo e il gruppo sociale. L’opera di Watzlawick e colleghi è stata riscoperta solo alla fine degli anni ottanta, quando si è prestata una maggiore attenzione al concetto di comunicazione come relazione e interazione. Watzlawick pone una grande attenzione ai meccanismi di metacomunicazione, che si attiva attraverso elementi non-verbali e impliciti (o analogici); tali meccanismi definiscono il contesto specifico dell’interazione. 6. Marshall McLuhan Herbert Marshall McLuhan (1911-1980) è stato il più discusso e poliedrico studioso di comunicazione della seconda metà del Novecento. Espressioni come “media caldi e freddi”, “il medium è il messaggio ” sono opera sua. Fu tra i primi ad usare l’espressione “villaggio globale” per indicare la realtà planetaria sempre più interconnessa. L’avvento dei media digitali ha riacceso l’interesse intorno alle riflessioni di McLuhan, straordinariamente vitali: l’idea di globalizzazione, il concetto di coscienza globale condivisa, la nozione di soggetti collettivi enuncianti. Elaborazioni meno note, come quella sulle “tetradi”, vengono utilizzate oggi nell’analisi sociale dei fatti letterari o nel tentativo di interpretazione di fenomeni complessi. I media caldi sono quei mezzi di comunicazione di massa che saturano quasi completamente la capacità visiva e costruttiva del fruitore non richiedendogli uno sforzo totale di ristrutturazione delle immagini e dei contenuti. I media freddi sono quelli a bassa definizione che richiedono una grande partecipazione da parte del fruitore. Secondo McLuhan è il grado di partecipazione del fruitore a determinare l’intrinseca peculiarità dei media, vale a dire che la forma calda esclude e la forma fredda include. McLuhan si concentrò anche sullo studio degli effetti dei media e delle nuove tecnologie: fu in grado di comprendere la preminenza del software sull’hardware con largo anticipo.
  • 19. Le “tetradi” sono quattro leggi generali. Col termine “leggi” McLuhan intende un insieme di osservazioni generali sul modo di operare e sugli effetti dei media, che non sono ancora state falsificate. Si tratta di effetti che si realizzano simultaneamente e in relazione di interdipendenza. Le quattro leggi sono: 1.l’estensione (extension); 2.la chiusura corrispondente (closure); 3.il recupero (retrieval); 4.il rovesciamento del medium surriscaldato (reversal). Le tetradi sono state sistematizzate in un libro postumo curato dal figlio di McLuhan. Le leggi dei media erano già presenti allo studioso canadese, la cui lungimiranza è evidente anche nella rottura del paradigma dei limited effects. Si tratta della conseguenza più importante del suo slogan “il medium è il messaggio”: il medium che riesce a imporsi in un determinato contesto socio-culturale modifica il modo in cui pensiamo, la modalità attraverso cui conosciamo la realtà sociale e le stesse forme di organizzazione sociale . 7. La comunicazione come interazione Negli USA molti studi riprendono il concetto di interazione. A Goffman si deve il concetto di disattenzione civile , quel fenomeno che si verifica quando incrociamo qualcuno per strada e ci scambiamo una rapida occhiata. Ciascuno segnala all’altro di aver preso atto della sua presenza, ma evita qualsiasi gesto che possa essere interpretato come troppo invadente. È un atteggiamento sociale tranquillizzante. L’approccio di Goffman, non a caso, è micro-sociologico. È stato tra i prima a occuparsi delle forme della comunicazione non-verbale e delle posizioni fisiche che adottiamo nella relazione faccia a faccia. Goffman sembra evidenziare anche una vera e propria sociologia del sé: dedicò una straordinaria attenzione alle diverse variabili dell’interazione e al ruolo dei contesti comunicativi. Proprio per questa sua attenzione al contesto lo collochiamo fra gli autori che animano la linfa dell’approccio dialogico. Harold Garfinkel è il fondatore della etno-metodologia. Studia le pratiche di uso comune di cui ci serviamo in determinati contesti per dare senso alla realtà circostante. Tale comprensione condivisa si basa su vere e proprie convenzioni culturali inespresse , che rendono possibile la comunicazione. Dagli studi di Goffman e Garfinkel si è sviluppato un metodo noto come analisi della conversazione . I due studiosi concentrano la loro attenzione sull’individuo e sull’attore sociale come soggetto di conoscenza. L’individuo non è più un mero ingranaggio culturale nella struttura sociale. Le elaborazioni di Goffman e Garfinkel sono alla base della teoria della strutturazione di Anthony Giddens (1984). 8. La teoria della strutturazione: Anthony Giddens Viene elaborata da Giddens nel suo famoso libro The Consitution of Society. Giddens aveva notato che lo sviluppo delle teorie sociali era stato dominato dal funzionalismo e dallo strutturalismo da una parte e dalle sociologie intepretative dall’altra. 19
  • 20. Giddens cerca di gettare un ponte tra queste due tensioni. I micro-cambiamenti come le azioni degli individui, conversazioni, idee, articoli di riviste, programmi televisivi possono influenzare cambiamenti a livello macro-sociale, alimentando il macro-livello delle politiche governative che poi influenzano stili di vita e modelli famigliari. Giddens ritiene che le azioni quotidiane hanno un grado di prevedibilità che garantisce la stabilità sociale. Quest’aspetto si discosta dal concetto di fiducia sistemica. Gli attori sociali si muovono secondo un modello basato su tre livelli: a) il livello dell’unconscious; b) il livello della practical consciousness; c) il livello della discursive consciousness. In quest’ultimo livello Giddens colloca la capacità degli individui di creare una narrativa del sé: proviene da un sistema di aspettative incrociate in cui le responsabilità e le posizioni sociali provengono da forme di negoziazione. Già nel 1976 Giddens aveva notato che la sociologia usa lo stesso set di strumenti che gli individui adottano nella vita quotidiana. Gli snodi di partenza della grounded theory non sono molto dissimili. Giddens rifiuta il meccanicismo deterministico del funzionalismo, perché le ricerche sugli “effetti” della televisione tendono a trattare i telespettatori come un pubblico passivo e incapace di discriminazione nel reagire a ciò che vede. 9. Dall’interpretazione all’uso: la sfida della semiotica Il punto di partenza della semiotica è che “non è possibile non comunicare”. Definita a lungo come “scienza dei segni”, è stata più correttamente definita come la scienza che studia i segni, i meccanismi di significazione e di costruzione del senso nonché i processi di comunicazione. Le due diverse tradizioni partono da de Saussurre per arrivare a Barthes e da Peirce per arrivare fino a Eco. Le differenze appaiono oggi molto più sfumate e la disciplina è ricca e poliedrica. La semiotica ha contribuito in maniera feconda alla teorizzazione e modellizzazione della comunicazione (dimostrato dalle ricerche di semiotica sociale importanti anche nell’analisi dell’audience). Secondo Jensen, i discorsi dei mass media costituiscono i componenti sociali della semiotica sociale. Sono i segni i cui interpretanti predispongono i vari pubblici ad agire all’interno del loro contesto storico e sociale. 9.1. I modelli semiotici della comunicazione Eco e Fabbri, intorno alla metà degli anni sessanta, elaborarono un modello di impianto semiotico sulla base della teoria matematica dell’informazione. Il modello semiotico-informazionale introduce, come innovazione, la nozione di codice e quella di decodifica . L’informazione, per Eco e Fabbri, non rimane costante durante tutte le operazioni di codifica e decodifica, ma l’informazione stessa si trasforma continuamente. La comunicazione non è allora un processo di trasferimento o trasmissione, ma di trasformazione da un sistema all’altro. Sul processo comunicativo si aggancia quindi il tema della significazione e la comunicazione si evidenzia come processo negoziale, il che ha consentito agli studiosi di prestare maggiore attenzione a due variabili: l’articolazione e la pluralità dei codici e il contesto comunicativo. Un altro aspetto innovativo è che nel modello di Eco e Fabbri non è possibile sovrapporre aprioristicamente la corretta comprensione con le intenzioni dell’emittente. La comunicazione implica inoltre forme complesse di feedback che consente l’attivazione di una “decodifica anticipatoria”. Questa rende inevitabili le divergenze tra intenzioni dell’emittente e comprensione del
  • 21. destinatario. Vanno considerate ineliminabili e coessenziali al processo comunicativo le forme di decodifica aberrante. Si possono verificare quattro forme di decodifica aberrante: 1. 1.Incomprensione o rifiuto del messaggio per assenza di codice . 2.Incomprensione del messaggio per disparità dei codici . 3.Incomprensione del messaggio per interferenze circostanziali. 4.Rifiuto del messaggio per delegittimazione dell’emittente . Intorno agli anni settanta, molti studiosi notarono l’inadeguatezza della nozione di messaggio . Grazie a Greimas e Eco, si pose una maggiore attenzione all’analisi degli “oggetti” scambiati e trasformati durante il processo comunicativo. Venne introdotto allora il concetto di testo. Il testo è un meccanismo complesso centrato su diverse modalità espressive e su molteplici codici. Nel testo, la significazione ingloba anche le presupposizioni e le argomentazioni implicite; viene, cioè, ricapitolato tutto il processo di riproduzione e ricezione della comunicazione. La ricerca è passata dalla concezione del testo come successione di unità linguistiche costituita mediante concatenazione pronominale ininterrotta , a quella di testo come unità comunicativa . Il testo non è più valutabile in termini di “formazione” bensì in termini di dimensioni comunicative possibili; si pone al centro di una serie di relazioni significanti. La cosiddetta catena significante produce testi che si trascinano dietro la memoria dell’intertestualità che li nutre. Il testo mette in questione i sistemi di significazione che gli preesistono, spesso li rinnova, a volte li distrugge. La nascita del modello semiotico -testuale ha sancito lo spostamento dell’attenzione degli studiosi dal rapporto codifica/decodifica alle condizioni di asimmetria fra emittente e ricevente. I destinatari non si scambiano messaggi, ma insiemi testuali : gli strumenti che guidano l’interpretazione sono insiemi di pratiche testuali. L’asimmetria tra emittente e ricevente si attenua e la natura testualizzata dell’universo delle comunicazioni di massa appare ancora più evidente. L’attenuazione dell’asimmetria è sorretta anche dalla teoria della cooperazione interpretativa: ogni testo postula la cooperazione del lettore come propria condizione di attualizzazione. Un testo è un prodotto la cui sorte interpretativa deve far parte del proprio meccanismo generativo. Il testo dispone già di alcune “linee-guida”. Eco ricorre, a questo proposito, ai concetti di topic e isotopia. Il topic riguarda il processo abduttivo, realizzato dal destinatario di un testo; l’isotopia è un fenomeno semantico che definisce il livello di coerenza di un percorso di lettura. Il topic è la scommessa interpretativa compiuta dal fruitore di un testo e può essere definito come una sorta di “tema”. Enunciati giustapposti senza un topic comune, non possono essere definiti testo. Il topic non è una dimensione oggettiva del testo ma dipende dalle scelte del fruitore. L’isotopia non è una dimensione oggettiva del testo ma dipende dalle scelte del fruitore. L’isotopia è una struttura semantica coessenziale al testo stesso, anzi, un insieme di categorie semantiche ridondanti. Poiché il testo è il risultato di una strategia di un autore volta a far compiere al proprio lettore le operazione cognitive necessarie a fargli comprendere nel modo più opportuno il testo stesso, allora una delle mosse interpretative fondamentali consiste nella decisione circa il topic del discorso, ovvero l’argomento di cui si parla. Un testo non ha necessariamente un solo topic, ma si possono stabilire gerarchie di topic. 21
  • 22. L’isotopia, invece, è l’insieme di categorie semantiche ridondanti che rendono possibile la lettura uniforme di una storia, è una sorta di fil rouge semantico che garantisce la coesione del testo. Il testo è un dispositivo che richiede la partecipazione del lettore/fruitore: il testo prefigura da un lato le sue possibili interpretazioni , dall’altro gli effettivi fruitori potranno produrre un uso del testo non previsto dall’autore. Gli studi di narratologia sono stati molto utili nell’analisi della comunicazione di massa. Il testo narrativo è un dispositivo complesso nel quale un autore reale si presenta simulacralmente come autore implicito che entra in contatto con un narratario il quale, a sua volta, comunica con il lettore reale. Nel caso della televisione però la logica del flusso pone qualche problema. Sulla base di tali concetti era stato elaborato da Giovanni Manetti, fin dal 1980, il modello semiotico- enunciazionale, estremamente utile nell'analisi delle comunicazioni di massa. L'emittente e ricevente rivelano la loro presenza solo sotto forma di simulacri. L'enunciatore empirico è situato fuori dal testo ma si configura come il produttore di immagini testuali; l'enunciatario empirico a sua volta proietta all'interno del testo l'immagine di se stesso e quella di chi gli indirizza la comunicazione. Il modello presenta due conseguenze estremamente importanti: l'attivazione di effetti di realtà e la seconda è che la comunicazione viene decisamente intesa come processo interattivo tra soggetti che si scambiano oggetti di valore. La presenza manifesta dell'enunciatore o il suo occultamento funzionano come meccanismi di veridizione e provocano un "effetto di realtà". Bettetini ha usato l'espressione conversazione testuale . Lo studioso ritiene che tutti i testi si sviluppino intorno a un rapporto di interattività simbolica fra due soggetti. Il modello è costruito sullo schema domanda- risposta. Il testo predisporrebbe cosi una "conversazione" tra i due soggetti alla cui forma l'enunciatario empirico può ovviamente corrispondere con una serie di comportamenti che si collocano fra la più passiva accettazione e il più completo rifiuto. Bettetini aveva già elaborato un modello di impianto semiotico sulle dinamiche comunicative delle trasmissioni televisive. Set è il soggetto empirico trasmittente, Ser è il soggetto empirico ricevente, Sem è l'enunciatore ideale, So è l'enunciatore mediale, Seo è l'argomento di cui si parla, Sa è l'enunciatario ideale. Lo schema si pone in rapporto diretto con il modello semiotico-enunciazionale. Un'altra applicazione del modello semiotico-enunciazionale riguarda il marketing. Un'interessante elaborazione è costituita dal modello realizzato da Yves Krieff. In questo modello, vi sono un enunciatore empirico e un enunciatario empirico situati fuori dal testo. L'impresa proietta il proprio simulacro e quella del suo interlocutore all'interno della situazione testuale; allo stesso modo il consumatore proietta sulla superficie significante del testo il proprio simulacro e la sua percezione dell'enunciatore. L'universo di discorso nel quale vengono scambiati valori definisce un mondo rappresentato che è, in sostanza, il frutto delle relazioni significative fra gli enuncianti: Il modello, dunque, risulta estremamente efficace anche nell'analisi della comunicazione pubblicitaria e di marketing. Il modello relazionale elaborato dallo studioso cileno Valerio Fuenzalida. parte dal concetto di audiencia activa (active audience, "audience attiva") ed è fortemente radicato sulla considerazione del particolare carattere socio-semiotico del linguaggio televisivo. Il modello si fonda su quattro punti principali:
  • 23. a) il processo di risemantizzazione (proceso de resignificaciórì) viene attivato dal ricevente che, quindi, si pone in posizione attiva nel processo comunicativo; b) l'attività di risemantizzazione è il risultato dell'interazione fra il testo e la situazione socio-culturale del ricevente; e) l'attività di risemantizzazione operata dal ricevente produce una sorta di percezione situazionale; d) il rapporto fra emittente (il broadcaster) e ricevente (il pubblico) è mediato anche dall'immagine corporate dello stesso broadcaster. Il modello di Fuenzalida si situa all'incrocio di diverse aree disciplinari: dalle teorie della percezione agli studi sulla ricezione. L'elaborazione teorica e le attività di ricerca di Valerio Fuenzalida sono molto importanti soprattutto per quanto concerne l'analisi dell'audience e la centralità della fruizione domestica. Un'efficace rielaborazione del modello enunciazionale è stata realizzata da Renato Stella. In tale modello viene inserita la funzione delle audience empiriche. Sono frutto del lavoro di codificazione dei network, i quali immaginano un pubblico modello a cui indirizzare i propri programmi. Lo schema semiotico enunciazionale si appropria, extratestualmente, di tutti gli strumenti attraverso cui è possibile trasformare un Destinatario generico, in un'Audience stratificata che ha la forma di un simulacro. Questo rimane esterno ai processi meramente testuali, tuttavia condiziona pesantemente sia l'idea pratica che il medium si fa del proprio pubblico, sia le competenze televisive che, di riflesso, il pubblico riesce ad accumulare e a usare nell'interazione con il medium. I simulacri enunciazionali derivarno dal lavoro di produzione del broadcaster che è in grado di influenzare la capacità del pubblico di proiettarsi nella situazione testuale e di riconoscersi. «Di nuovo torniamo a una diseguaglianza di potere che giocoforza condiziona anche il significato. L'audience rappresenta la risultante di un rapporto tra i telespettatori e i suoi simulacri. Fra le possibili conseguenze, la definizione di un'audience sempre meno massa e sempre più decisamente. È chiaro il "potere" del broadcaster. La svolta enunciazionale ha costituito un importante e decisivo passo in avanti, ha rafforzato l'importanza delle "teorie del dialogo". Non possiamo non citare quello che, a rigore, rappresenta un deciso superamento non solo delle teorie della trasmissione ma anche dei modelli semiotici "tradizionali". Rappresenta uno sviluppo delle nuove tendenze nella ricerca sociale sui media. Si tratta del modello della ricezione televisiva. Si notano alcuni clementi estremamente interessanti. Fausto Colombo fa notare che nei processi attraverso cui si costituisce l'identità generazionale del fruitore televisivo, i fattori più importanti sono almeno tre: a) l'accumulo progressivo di senso a partire dalla "prima socializzazione"; b) la funzione svolta, in quella fase, dalla situazione sociale; c) il ruolo prospettico esercitato dalla "prima socializzazione" sull'immagine complessiva del medium. Il lavoro svolto dal soggetto nel processo di socializzazione al mezzo, con il mezzo e attraverso di esso è di fondamentale importanza: può essere definito "socializzazione televisiva”. Si rileva l'importanza sia delle fasi di vita sia del contesto sociale nelle dinamiche di modellamento di tale processo di socializzazione televisiva. Sono ormai diverse le ricerche che confermano l'intuizione originaria del progetto generazioni. 23
  • 24. Colombo elabora un modello che spiega i meccanismi di negoziazione nella ricezione della programmazione televisiva. tre circuiti concentrici strettamente interconnessi fra di loro. La situazione relazionale è la risultante del rapporto fra prodotto e fruizione. La situazione relazionale, a sua volta, è inscritta in un più vasto contesto comunicativo. Il contesto comunicativo, infine, si situa all'interno di un circuito più ampio, il sostrato culturale. Una relazione, peraltro, alimentata dall'integrazione fra circuiti locali, nazionali, globali, trans-culturali nonché dai meccanismi pubblicitari. Da un lato non vi è nessuna comunicazione mediatica che non avvenga in un certo sostrato culturale, dall'altro un sostrato viene continuamente irrorato dall'offerta complessiva dell'industria culturale. Il modello elaborato da Colombo evidenzia la complessità del processo di fruizione televisiva e il suo articolato ruolo nei meccanismi di costruzione dell’identità. 6. I media e la conoscenza so ciale. I cultural studies 1. I cultural studies I media non si limitano a essere strumenti che ci portano verso il mondo ma costituiscono essi stessi il mondo reale . I paradigmi struttural-funzionalista e conflittuale condividevano una versione realistica: esiste un ordine sociale che va scoperto e analizzato. Per il primo si trattava di un ordine immanente alimentato dall’adesione degli individui ai valori centrali della società ; per il secondo era un ordine “dialettico”, non realizzato e da realizzarsi superando l’imperfetta situazione presente. I mass media apparivano come veicoli o ostacoli. A partire dalla fine degli anni sessanta si sono affermati nuovi paradigmi sociologici, accomunati dall’idea che la realtà sociale è costituita da e attraverso i processi comunicativi. I media rappresentano le cornici entro cui si attua la conoscenza sociale o “definers of social reality”. Nella visione idealistica , la televisione è ormai considerata come elemento che contribuisce al processo di costruzione dei significati. I media vengono visti come forme culturali, “cornici” entro cui si attua il processo interpretativo della realtà. All’interno di tale idea si situano gli studi sui target generazionali , la ricerca sulla fruizione della fiction in Italia, la ricerca sui media non-mainstream. Sempre all’interno della prospettiva idealistica possiamo collocare la teoria situazionale di Goffman, i television studies riconducibili al concetto di funzione bardica della TV, la televisione come agente di socializzazione. Ne discendono conseguenze importanti sul ruolo dei media come particolari agenzie di socializzazione. Anche i cultural studies si muovono all’interno della prospettiva idealista . Tutto ciò presuppone una vera e propria svolta comunicativa , che si caratterizza per: 1.il cambiamento della concezione di realtà; 2.il cambiamento della concezione del senso; 3.il cambiamento della concezione della razionalità; 4.il cambiamento della concezione etica;
  • 25. 5.il cambiamento della concezione dell’agire. I media, da semplici canali di trasmissione, diventano frames e forse perfino ambienti che non si limitano a rappresentare ma addirittura organizzano la realtà. 2. I media come cornici della conoscenza sociale: il Centre for Contemporary Cultural Studies (CCCS) Frank Raymond Leavis, che lavorava per la rivista “Scrutiny”, nel 1930 pubblicò un saggio che si poneva a difesa dei giovani contro la cultura commerciale. Questa posizione rivela un forte legame con la tradizione, ma rompe anche con la tradizione di analisi letteraria dell’epoca, concentrando la sua attenzione sul testo, sulle variabili socio-culturali soggiacenti, sullo studio dei meccanismi di produzione di senso. Si oppone decisamente alle posizioni e ai metodi di analisi del funzionalismo inaugurando di fatto un diverso approccio ai fenomeni culturali. La svolta che conduce alla nascita dei cultural studies britannici avviene in due momenti: nel 1958 Williams pubblica Culture and Society, che stigmatizza la disgiunzione tra cultura e società; nel 1964 viene fondato il Centre for Contemporary Cultural Studies, ovvero la “Scuola di Birmingham”, un gruppo “aperto” in cui diverse tendenze potevano trovare spazio. La direzione di Stuart Hall del CCCS connoterà in maniera significativa la “scuola” anche a causa dell’influenza dello strutturalismo. Gli strutturalisti consideravano la cultura come il primo oggetto di studio affrontandolo nell’analisi di forme testuali rappresentative. I culturalisti opponevano una forte resistenza allo strutturalismo, accusato di essere caratterizzato da una concezione della forza dell’ideologia troppo deterministica. Hall si distinse anche per la capacità di uscire dalla querelle strutturalisti-culturalisti. Il CCCS ebbe una parte importante anche nella cultura americana, dove le idee guida dei cultural studies britannici vennero assorbite in una sintesi originale. Il successo negli Stati Uniti ha determinato momenti di crisi all’interno del movimento. La corrente americana, infatti, ebbe spesso una visione molto “ottimistica”. 3. I fondamenti teorici del CCCS Sono molte le influenze sedimentatesi nei lavori di ricerca e nelle elaborazione degli studiosi di Birmingham: il new criticism, la ricerca storica di impianto culturale, lo strutturalismo, la semiotica echiana e greimasiana, Luis Althusser, Antonio Gramsci, il marxismo critico, l’antropologia culturale, la psicoanalisi di Lacan, Goffman e Michel Foucault . Non bisogna però pensare a una corrente di studi sincretica: la ricchezza delle influenze ha generato una capacità di apertura metodologica notevole ma sempre coerente ed efficace. La prima elaborazione si muove da tre concetti quadro: 1.il concetto di “soggettività”: la cultura sociale assume senso e valore in relazione alle vite dei soggetti, cornice e contenuto della cultura stessa; 2.il concetto di “cultura” intesa come stile di vita e pratica sociale; 3.il concetto di “cornice sociale”, che soppianta l’idea di “realtà oggettiva” con quella dicostruzione sociale . 25
  • 26. Il concetto di cultura rappresenta un elemento molto importante nell’impianto dei cultural studies. La cultura popolare è quella che è gradita alla maggioranza della popolazione. I testi dei media sono sempre prodotti dalla cultura popolare, alla stregua di un capo d’abbigliamento. Il circuito della cultura costituisce un modello efficace per l’analisi dei “fatti culturali” come significati condivisi. DuGay e Hall si concentrano proprio sull’idea di cultura come “significati condivisi” e sull’idea di “pratiche” culturali. Il linguaggio è una pratica di significazione . I significati sono prodotti in molti differenti luoghi e circolano attraverso molti diversi processi o pratiche. Il significato ci fornisce il senso della nostra identità, è costantemente prodotto e scambiato in ogni interazione personale e sociale cui prendiamo parte. La questione del significato si pone in relazione a tutti i differenti momenti o pratiche del nostro “circuito culturale”. Dall’analisi della cultura si sviluppano importanti snodi concettuali come quello di subcultura . Oltre ai primi tre concetti quadro possiamo individuare altri cinque fondamenti teorici: •ideologia ; •egemonia; •autonomia della cultura e dell’ideologia ; •genere; •gender. Bisogna poi aggiungere le nozioni di “decodifica” e di “resistenza”. Il concetto di “ideologia”, ripreso da Althusser, riguarda il rapporto vissuto dagli uomini con il loro mondo. Gli uomini esprimono non i loro rapporti con le condizioni di esistenza, ma il modo in cui vivono i loro rapporti con le loro condizioni di esistenza. Il concetto di ideologia si declina in modi molto diversi. Dall’assunzione del concetto di “ideologia althusseriana” deriva che i mass media costruiscono la conoscenza sociale e che essi riflettono la pluralità delle classificazioni sociali. Infine, i media organizzano, dirigono e tengono assieme ciò che essi stessi hanno classificato e rappresentato. I media non solo consentono la conoscenza della società ma legittimano e autorizzano anche l’insieme delle relazioni che essi stessi hanno attivato. L’ideologia è funzionale alla perpetuazione delle strutture sociali , gli individui sono “costruiti” dall’ideologia che, a sua volta, è il senso comune. L’ideologia funziona seguendo diversi meccanismi: legittimazione, dissimulazione, unificazione, frammentazione, reificazione. Il concetto di egemonia è stato invece utilizzato soprattutto per le sue implicazioni sulla teorizzazione della cultura popolare. Non è lo stato a essere responsabile dell’egemonia bensì la società civile. Per egemonia si intende, in sostanza, un insieme di idee dominanti che permeano una società in modo tale da far sembrare naturale l’assetto in vigore. I blocchi egemonici sono il risultato di una serie di alleanze strategiche temporanee. Questa teorizzazione evidenzia punti di contatto con il concetto di “gente” proposto da John Fiske sia con i meccanismi di costruzione delle comunità interpretative . La dimensione egemonica dei media si connota anche come funzione ideologica: i media si pongono come definers of social reality. Il concetto di egemonia è molto utile per l’interpretazione della “cultura popolare”. Sono state giudicate insufficienti, grazie al pensiero di Gramsci, quelle teorie che consideravano la cultura popolare come forma degradata determinata dal capitalismo. In realtà la cultura popolare è frutto di mediazioni, scambi
  • 27. comunicativi tra fenomeni di resistenza e processi di assimilazione nella cultura dominante. I mass media non riflettono un consenso già presente a livello sociale ma partecipano alla sua costruzione. Il ruolo dei mass media è dirimente nella costruzione del consenso, che riesce ad articolarsi in maniera autonoma. L’egemonia presuppone che il dominio di certe formazioni sia assicurato non da costrizioni ideologiche, ma da una leadership culturale. Il problema della decodifica dei test mass-mediali diventa centrale, insieme all’attenzione posta sul concetto di genere e di gender. I media possono produrre e/o proporre diverse letture e diverse possibilità interpretative. Si sviluppa il modello encoding/decoding di Stuart Hall, che favorisce una più caratterizzata prospettiva semiotica nei cultural studies. Il concetto di “lettura preferita” si connota come una vera e propria funzione testuale e tiene conto della situazione socioculturale nella quale i “lettori” attivano i propri processi di significazione. Il concetto di “genere” ha ricevuto una grande attenzione da parte dei ricercatori del CCCS ma anche dal filone statunitense dei cultural studies. Parliamo non del genere inteso come identità sessuale, ma del genere come modalità organizzativa dei palinsesti, strumento di segmentazione e qualificazione dell’audience. È, di fatto, l’identità riconosciuta dai produttori e dall’audience a determinati testi. Questa identità deve essere: •connessa a obiettivi chiari e definibili; •radicata su un formato riconoscibile e determinato; •consolidata nel tempo. Il genere è pertanto l’insieme di regole testuali culturalmente determinate costituite da uno specifico sub- universo semantico. I testi non producono solo le proprie possibili fruizioni ma anche i propri fruitori. L’analisi del rapporto fra significati del testo e formazione della soggettività è alla radice anche della forte attenzione di studiosi come David Morley sul gender come variabile centrale nelle modalità di decodifica e fruizione dei testi televisivi. Esiste un rapporto strettissimo tra le dinamiche di fruizione e i ruoli famigliari. Venne studiata in particolare la peculiarità del female spectator, che effettuava forme di consumo televisivo in forme di fruizione che includevano anche la cura domestica. L’analisi del gender è di assoluta rilevanza nella prospettiva dei cultural studies, che hanno dato vita a molti approcci, come i feminist cultural television criticism e gli audience studies. Il punto di partenza dei gender studies è che la costruzione sociale del “maschile” e del “femminile” sia parte dell’ideologia dominante che prescrive i corretti e “appropriati” comportamenti per uomini e donne. Una nota ricerca americana metteva in risalto l’associazione “donna-ruoli domestici” nella narrazione mediale. La ricerca rilevava i meccanismi di “cancellazione” delle donne dalla rappresentazione sociale o almeno da una sua parte importante come le attività “produttive”. Vi è anche un legame fra gender e genre, visto che nei media esistono o vengono formulati “generi” molto “genderizzati”. Molte delle ricerche hanno trovato nei media caratteri di stereotipizzazione dei ruoli sessuali, forme di anestetizzazione e/o di semplificazione moralistica, nonché la presenza di un’ideologia che si definiva anche a partire dal linguaggio utilizzato e dalla modalità di “incornicia mento”. La questione del gender è stata presente in gran parte della riflessione dei cultural studies. La screen theory, pur legata ai cultural studies, è stata aspramente criticata dal CCCS per il suo forte “determinismo testuale”. I teorici di “Screen” hanno fuso insieme approcci psicanalitici con il materialismo storico, secondo Hall con estrema leggerezza. 27
  • 28. Nella concezione di “Screen” l’efficacia e la produttività del testo è definita esclusivamente nei termini della capacità del testo di mettere il lettore “al suo posto”, vale a dire in una posizione di identificazione aproblematica. Morley rimprovera a “Screen” di ridurre l’attività del lettore/fruitore a una pratica di consumo/appropriazione. All’interno dei cultural studies si situano molti studi sulla ricezione dei testi mediali e sulle dinamiche di fruizione. La ricerca di David Buckingham , basata sulla soap-opera EastEnders, è un esempio di commistione tra ricerca sulla ricezione, metodi di impianto etnografico e indagini con interviste. È suddivisa in quattro parti: 1. 1.Produzione del programma un quadro generale sulle routine produttive. 2.Analisi testuale il testo mediale è aperto e capace di produrre un invito testuale. 3.Analisi della promozione e del marketing qual è il contesto di significazione nel quale i telespettatori situavano EastEnders. 4.Studio delle dinamiche di consumo del programma Uno studio accurato sull’uso della soap nell’esperienza quotidiana. Sotto l’influenza di Michel de Certau si è sviluppata la ricerca sulle sottoculture, grazie alla quale si sono sviluppate molte linee di ricerca di impianto etnografico. 4. Il modello encoding/decoding Nel 1980 Stuart Hall pubblicò il saggio Encoding and Decoding in Television Discourse: riteneva che compito della ricerca fosse quello di porre la massima attenzione al complesso delle relazioni che interconnettono produzione e ricezione generando senso. Hall pervenne a definire l’attività di codifica come un processo attraverso il quale vengono posti limiti e meccanismi di standardizzazione al testo stesso. L’attività di decodifica, allora, è funzione di una molteplicità di variabili che limitano la teorica illimitatezza delle possibilità di interpretazione. Il contesto è estremamente importante nell’attività di decodifica. La comunicazione si costituisce come una relazione fra i due momenti del processo comunicativo stesso. In tale accezione il pubblico percepisce i messaggi come discorsi dotati di significato . Encoding e decoding possono tuttavia non essere simmetriche: dipende dalle relazioni che si stabiliscono fra il codificatore-produttore e il decodificatore-ricevente. Le diverse strutture di significato implicano appunto la possibilità di una "disparità di codici" fra emittenti e destinatari. Hall individua tre diverse modalità di decodifica: 1. La lettura preferita Quando il destinatario decodifica il messaggio nei termini esatti in cui è stato codificato. In questo caso il processo di codifica avviene attraverso un codice egemonico che, essendo percepito come "naturale", non ha bisogno di alcuna legittimazione sociale. L'audience, in questo caso, tende ad accettare le dinamiche di incorporazione. 2. La lettura negoziata Quando il destinatario accetta il codice dominante ma elabora proprie definizioni e/o tenta di fornire interpretazioni parzialmente autonome. 3. La lettura oppositiva Quando il destinatario comprende la lettura preferita elaborata e attivata dall'emittente ma ridefinisce il messaggio in un contesto alternativo. In questo caso, a differenza della lettura negoziata, i fenomeni di distorsione incidono in maniera significativa fra attività di codifica e processi di
  • 29. decodifica. Si ha un'audience attiva, addirittura capace di scardinare le contraddizioni e l'ideologia imposte dal codice egemonico, come nel caso della guerriglia semiologica . Le tre letture considerano in maniera corretta le possibilità e le capacità interpretative dell'audience e contribuiscono a ripensare in maniera analitica e complessiva il rapporto fra testi mass-mediatici e meccanismi sociali e individuali di costruzione dei significati e generazione del senso. Hall ritiene che il processo di codifica televisiva sia un'articolazione dei momenti della produzione, circolazione, distribuzione e riproduzione. Questo significa che i testi televisivi producono significati multipli che possono essere interpretati in modi diversi. Lo studio compiuto in due ricerche (Nationwide e Crossroads) sulle diverse letture realizzate da individui appartenenti a gruppi sociali differenti rappresenta una tappa importante nella definizione del concetto di "active audience”. Il processo di decoding avviene in maniera differenziata. Lo scontro fra i media e i soggetti non riguarda solo il conflitto fra gruppi sociali "egemoni" e non egemoni. Il "conflitto", in realtà, dipende anche da variabili come il gender, l'etnia, l'età ecc. L’applicazione di Morley colloca la sua ricerca all’interno dell’area dell’”incorporation/resistance”, in cui la fruizione mediale è vista come uno scontro fra, appunto, il tentativo di incorporazione ideologica operato dai media e le pratiche di resistenza adottate dai pubblici in determinati contesti socio-culturali. Importante è il concetto di reactive pleasure, in sostanza una forma di lettura oppositiva che si realizza all'interno delle forme "tradizionali" di fruizione estetica anche di tipo emozionale. Con il modello encoding/decoding i cultural studies britannici raggiungono quella che è stata definita la "svolta linguistica". 5. Cultural studies e ricerca sui media in Italia L'espressione cultural studies provocava nel mondo accademico di lingua italiana due tipi dì reazione: la prima era costituita da un'evidente mancanza di fiducia verso un'area di ricerca non molto conosciuta; la seconda era rappresentata da quegli studiosi che guardavano dall'alto in basso un approccio che ritenevano asistematico e privo di dignità metodologica. La sociologia aveva difficoltà a decollare in Italia, almeno in ambito accademico. Le scienze antropologiche, in particolare, rappresentarono uno dei territori privilegiati nello sviluppo di quegli approcci di ricerca che oggi potremmo definire "culturalisti". La sociologia dei mass media, si collocava inizialmente all'interno delle tendenze della tradizione americana della communication research. La cultura accademica italiana era ancora generalmente sotto l'influenza dell'idealismo crociano. Le scienze sociali "moderne"mossero i loro primi passi nel tentativo di legittimare se stesse attraverso l'adozione di metodi e approcci disciplinari provenienti dagli USA. Molti studiosi di formazione marxista adottavano approcci sistematici provenienti dal funzionalismo e, su tutti, dall'opera di Talcott Parsons. Non può stupire l'enfasi posta sul problema degli effetti. Un caso particolare è rappresentato dagli audience studies del periodo, dove una curiosa convergenza si era prodotta: da una parte l'influenza della Scuola di Francoforte sugli studiosi marxisti aveva generato un concetto di audience come massa mono-dimensionale e manipolata; dall'altra parte la tradizione proveniente dal funzionalismo aveva fornito la legittimazione metodologica all'idea che i media non fossero altro che strumenti di manipolazione su un pubblico sostanzialmente passivo. L'idea del "pubblico-massa" 29
  • 30. rappresentava uno strumento utile ai teorici marxisti per attaccare il potere e le strutture ideologiche delle istituzioni mediali. Una delle conseguenze di questa connessione fu l'adozione di un approccio deterministico alla ricerca sull'audience, che si fondò fortemente su metodi ultra-quantitativi. Potremmo dire che la ricerca italiana per una lunga parte della sua storia si sia concentrata essenzialmente sulle dimensioni quantitativa e sperimentale. C’erano alcune eccezioni: un’attenzione alle teorie della ricezione e agli approcci text-basedi stava sviluppando in altri ambiti della ricerca e segnatamente nella semiotica, nell'estetica della ricezione, nella filosofia del linguaggio e nella critica letteraria. In campo politico si sviluppava l'idea della "via italiana al socialismo". Il pensiero di Gramsci, a ogni modo, apriva una serie di prospettive, marginalmente anche aspetti come quello dell'incontro fra cultura cattolica e cultura marxista. Un primo banco di prova di tale "incontro" si ebbe in Italia nelle vicende relative alla nascita della televisione (1954). Le due subculture politiche nazionali condividevano la dimensione educativa della cultura. Non è un caso che proprio all'interno della RAI (grazie al suo Servizio opinioni) si siano sviluppate le prime ricerche sull'audience. Si stava aprendo la strada a studi centrati sull'analisi di cosa la gente faceva con i media: gli studiosi di provenienza cattolica furono quelli più reattivi. Si svilupparono cosi, fra la fine degli anni settanta e l'inizio degli anni ottanta, nuove tendenze nella sociologia e sorsero molti studi sul testo audiovisivo e il suo uso da parte del pubblico. I cultural studies arrivarono in Italia grazie agli studi letterari da una parte e — per quello che qui ci interessa — all'interno degli studi sulla televisione : quell'area di studi si collegò alla tradizione statunitense. L'adozione della prospettiva proveniente dai cultural studies britannici fu più tarda e realizzata a opera di una nuova generazione di studiosi e ricercatori: provenivano da esperienze di studio anche nel campo della semiotica, della letteratura, dei film studies o avevano rifiutato le descrizioni sociali del funzionalismo a favore della teoria della strutturazione di Giddens. Il caso, comunque, più significativo di adozione dei cultural studies britannici (e poi global cultural studies) nella sociologia dei mass media riguarda il settore degli audience studies. Le prospettive nomotetiche sono state spesso sostituite e/o integrate da approcci idiografici. Un caso importante tutto italiano è rappresentato dall'elaborazione del modello della conversazione audiovisiva elaborato da Gianfranco Bettetini. Il modello di Bettetini è costruito sulla dinamica domanda- risposta fra testo e pubblico. Il testo predispone una vera e propria conversazione. Il modello presenta un evidente rifiuto del determinismo e adotta la prospettiva dell'audience "attiva" anche se non nella recente vulgata iperottimistica e un po' banalizzata. Molti studiosi hanno ibridato le posizioni teoretiche di Gramsci con l’approccio filosofico di Ricoeur e le prospettive di Hall sull’identità e sui meccanismi della rappresentazione . L’aspetto forse più interessante risiede nell’adozione dei cultural studies non come approccio sistematico ma come prospettiva. Appendice. Identità e diaspora. Note su Stuart Hall