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IL CINEMA GIAPPONESE
Il cinema giapponese (Nihon eiga) ha una storia per molti
versi analoga a quella di altre cinematografiche mondiali, con
alcune proprie peculiarità.
L'industria cinematografica giapponese, fortemente strutturata
in case di produzione maggiori, come a Hollywood, ha avuto
una prima produzione di eccezionale ricchezza che non ha
però varcato i confini nazionali, e ha raggiunto la sua
massima prolificità negli anni ‘50, con oltre cinquecento film
all'anno; opere di eccezionale qualità artistica di alcuni autori,
come Akira Kurosawa e Kenji Mizoguchi, hanno fatto scoprire
in Occidente, attraverso i festival, l'esistenza del cinema
nipponico, a partire dal film Rashōmon (1950), vincitore
del Leone d'oro alla Mostra del cinema di Venezia e
dell'Oscar per il miglior film straniero.
Tra la fine degli anni cinquanta e l'inizio dei sessanta anche il
cinema giapponese è stato interessato dal fenomeno
internazionale delle nouvelles vagues e sono emersi nuovi
autori di rilevanza internazionale come Nagisa
Oshima e Shohei Imamura. Nel corso degli anni sessanta il
sistema produttivo cinematografico ha però subito
l'insuperabile concorrenza della televisione ed ha imboccato
la via del declino, con la progressiva discesa del numero dei film prodotti, delle sale
cinematografiche e degli spettatori.
Andiamo nel dettaglio.
L'invenzione del cinema arriva presto in Giappone. Nel 1896 a Kobe viene presentato con
grande successo il Kinetoscopio di Edison, mentre l'anno successivo il Vitascopio Edison
e il Cinématographe dei Lumière offrono le prime vere proiezioni su schermo per un
pubblico collettivo. Ad introdurre il Cinématographe è l'imprenditore tessile Katsutarō
Inabata, di ritorno da un viaggio in Francia durante il quale ha conosciuto Auguste
Lumière.
La prima casa di produzione giapponese è la Denkikan del 1903.
I primi film giapponesi, risalenti al 1898-1899, sono principalmente riprese dal vivo di
scene di strada e di "danze di geisha" nei quartieri di piacere.
I primi film a soggetto sono fedeli adattamenti di famosi drammi kabuki, come
"Passeggiata sotto le foglie d'acero", realizzato nel 1898 o 1899 da Tsukemichi Shibata, :
in generale, gli attori kabuki sono reticenti a cimentarsi con il cinema, nel quale vengono
invece impiegati i kyūgeki, attori di rango inferiore.
Vi faccio sentire una versione musicale di momigari. E’ un ascolto molto raro: la musica è
vocale, polarizzata, per non dire ferma, su una stessa nota.
Nel suo periodo iniziale, il cinema è in effetti fortemente debitore del teatro, nelle sue varie
forme (il kabuki tradizionale; lo shimpa, la "nuova scuola" del melodramma
contemporaneo; lo shingeki, il "nuovo teatro" (spesso adattato dal repertorio occidentale
moderno, in particolare russo, ad esempio Tolstoj e Gor'kij), tanto che dall'incrocio dell'arte
teatrale e cinematografica nascono i cosiddetti rensa-geki ("drammi a catena"), opere
teatrali dal vivo con inserti filmati di riprese in esterni, la cui popolarità rimane costante fino
ai primi anni venti, finché la componente cinematografica totale non avrà il sopravvento.
Una figura caratteristica del cinema delle origini è quella dei benshi ("uomini parlanti"), i
commentatori pubblici dei film muti, incaricati di leggere le didascalie a beneficio di un
pubblico in buona parte analfabeta, ma anche di descrivere le trame prima della
proiezione per rendere riconoscibili e più fruibili le strutture narrative.
Anche il fratello maggiore di Akira Kurosawa, per passione, fu un benshi, cosa che
contribuì notevolmente ad avvicinare questo artista al cinema. La categoria raggiunge la
massima fortuna all'inizio degli anni venti, riesce a sopravvivere fino alla metà degli anni
trenta, riuscendo con la propria opposizione a ritardare l'affermazione del cinema sonoro
in Giappone, ma è inevitabilmente destinata a scomparire. Fra i maggiori protagonisti del
cinema degli anni dieci spiccano il regista Shōzō Makino e l'attore Matsunosuke Onoe,
prima star del cinema giapponese, che girano insieme decine di film all'anno.
Alla fine degli anni dieci il cinema giapponese comincia a raggiungere un'autonomia e
addirittura una posizione di privilegio rispetto al teatro. Un film simbolo di questa fase di
sperimentazione è Rōjō no reikon ("Anime sulla strada") (1921), diretto da Kaoru Osanai.
Esiste la possibilità di vedere questi film, anche semplicemente su
youtube, e ve li consiglio, perché la poetica cinematografica
giapponese è davvero straordinaria. Si tratta di film muti, e
purtroppo non vi sono registrazioni musicali originali dell’epoca.
Commentare in questa sede un commento musicale non originale
non mi sembra opportuno.
La transizione dal cinema muto a quello sonoro non è facile né
rapida, sia per la forte opposizione dei benshi, le cui performance
erano diventate parte integrante dei film, sia per la mediocre qualità
tecnica dei primi, imperfetti sistemi di sonorizzazione. Il primo film
interamente parlato è la commedia Madamu to nyōbo ("La signora e mia moglie"), diretta
da Heinosuyke Gosho nel 1931, ma ancora per diversi anni il sonoro non si afferma in
modo generalizzato, anche se la tendenza è inarrestabile.
La musica dei titoli di testa è una produzione bandistica che somiglia a quelle del fascismo
italiano.Da notare che la musica non coprirebbe tutta la sequenza dei titoli allora è
montata decisamente male..Come era già stato per il celeberrimo Roma Città aperta, il
fischiettare melodie è un signal molto presente in questa produzione. Il cinema
giapponese ha una poetica assolutamente antiretorica, asciutta, le scene musicate sono
pochissime, per privilegiare il senso di realtà. Vi sono intere scene dove è rumore di fondo
la colonna sonora, non una parola, non una nota, solo sguardi molto eloquenti, azioni
lente, montaggio rilassato, qualche suono di natura (insetto, uccellini, rumori di scena, voci
di bambini, pianto). Compare una canzone popolare (a 33 minuti circa) e il personaggio
principale ne è pure terribilmente infastidito! A 39.40 compare una musica in, cioè suonata
dal vivo dagli ottoni di un ensemble improvvisato che devono provare, in un luogo di
ritrovo, con melodia cantata da una cantante. A 55 minuti, verso la fine del film, i due
protagonisti, ritrovata la serenità di coppia, canticchiano la melodia della musica di
commento, e la stessa musica li accompagna nelle sequenze finali del film.
Immagini: l’attore Onoe e la locandina di Roshomon.
La crisi economica sopraggiunta verso la fine degli anni venti favorisce la diffusione di
ideologie di sinistra, che rinnovano la letteratura, il teatro e il cinema. La nuova coscienza
sociale prende la forma dei film di tendenza, film realistici, impegnati, di ambientazione
contemporanea, con tutti i disagi, gli stati d’animo tipici del genere.
Negli stessi anni gli intellettuali marxisti del Nappu (Federazione artistica dei proletari
giapponesi) animano il movimento di cinema amatoriale del Prokino ("cinema proletario"),
che propone opere di forte denuncia, soprattutto di carattere documentario, girate con
mezzi limitati, sviluppate in laboratori di fortuna, proiettate nell'anonimato.
Entrambi i fenomeni sono però di breve durata e soccombono di fronte alla censura,
sempre più violenta, in particolare dopo l'incidente di Mukden del 1931, quando una
bomba di origine sconosciuta distrusse la ferrovia nei pressi di Mukden: il reparto militare
giapponese, a guardia della ferrovia stessa, usò l'incidente come pretesto per occupare la
Manciuria meridionale, nel settembre 1931. Fu successivamente appurato che l'attentato
fu opera di membri dell'Armata del Kwantung come pretesto per portare avanti
l'aggressione in Cina.
I keikō eiga concludono il loro periodo migliore nel 1932, mentre il Prokino è
definitivamente sciolto nel 1934.
La decisa tendenza nazionalista e militarista del Giappone, emersa a partire dall'inizio
degli anni trenta e culminata nel 1936 con il trattato di alleanza con la Germania nazista e
nel1937 con l'invasione della Cina, investe anche il cinema, che non può rimanere
estraneo alla realtà politica del paese. Il governo rafforza la censura, prende sotto il suo
diretto controllo l'industria cinematografica, riducendo le compagnie majors alle sole
Shochiku e Toho, affiancate nel 1942 da una terza compagnia "nazionale", la Dai Nihon
Eiga ("Società cinematografica del Grande Giappone").
IL più importante autore del nazionalismo nipponico e’ Tomotaka Tasaka, autore di Gonin
no sekko-hei ("I cinque soldati esploratori") (1937)
La musica è sostanzialmente orchestrale e descrittiva, con trombe signal, archi di pedale e
archi bassi ritmici, brevi soste liriche condotte dal flauto; i dialoghi e le urla si
sovrappongono al commento sonoro: la musica è completamente al servizio delle
immagini e difficilmente starebbe in piedi da sola.
In un simile contesto, ostile all'espressione artistica
personale, i maggiori autori dell'epoca tentano invece
di conservare una relativa indipendenza, ripiegando
su temi "innocui", quale le biografie di artisti o il
repertorio kabuki. È il caso di Mizoguchi, con ("Storia
di crisantemi tardivi") (1939)
La musica di Shiro Kutai, è un misto tra tradizionale
giapponese e orchestrazione classica.
I toni sono decisamente drammatici.
Nel pieno della guerra esordisce, con il film Sugata Sanshiro (1943), uno dei cineasti
giapponesi più importanti del dopoguerra e il più conosciuto a livello internazionale, Akira
Kurosawa.
L'opera narra la vicenda di un mitico campione di Jūdō vissuto alla fine dell'Ottocento: il
Sugata Sanshiro che dà il titolo all'opera.
La prima opera di Kurosawa, anche se realizzata in tempo di guerra e quindi soggetta al
rigido controllo della censura, è genuinamente autentica e personale. Lo stesso tema delle
arti marziali (certo utile in chiave propagandistica per rinvigorire il patriottismo nazionale) è
in realtà preso dall'autore da una sua personale passione (era campione e appassionato
di kendo); egli inoltre ben conosceva la fatica e l'impegno degli allenamenti che aveva
sostenuto quotidianamente nell'infanzia. L'evoluzione personale del protagonista è una
tematica che sarà cara a Kurosawa per tutta la sua vita.
La critica lo definisce un film ingenuo ma è bene considerare che si tratta di un regista alle
prime armi che è riuscito comunque a costruire sulla vita di una gloria nazionale un film
quasi intimista (che infatti fu amato dal pubblico ma non dai militari); il regista Yasujiro
Ozu non permise tagli ulteriori.
Tra epopea orchestrale, a tratti quasi bandistica (la famosa ingenuità), conduce il tema un
sassofono soprano, suonato però alla maniera orientale, con glissandi e molto vibrato.
Solista del tema del guerriero è la voce femminile, molto diversa però dalla dolcezza delle
voci giapponesi, mentre la nostra cantante è molto vibrante, roca quanto basta, carnale,
una specie di Mia Martini nipponica.
Il tema principale della colonna sonora merita un ascolto attento; le musiche sono di
Seichi Suzuki.
Nei primi anni del dopoguerra l'industria cinematografica è fortemente segnata
dall'influenza della politica.
Il cinema subisce il controllo e la censura degli organi preposti dall'esercito di occupazione
americano che proibiscono i film storici che diffondono lo «spirito feudale».
Gli americani promuovono i film antimilitaristi, come "La guerra e la pace",1947 di Fumio
Kamei. Anche qui musicalmente parlando, siamo di fronte a sonorizzazione che descrive
le immagini: non vi è un tema vero e proprio ma la musica descrive alla lettera ogni
movimento e connota la situazione attraverso i suoni.
A partire dalla fine degli anni quaranta, tornano alla ribalta i
cineasti che avevano esordito negli anni venti, nell'epoca
del muto, ed erano stati protagonisti del cinema anteguerra,
e si affermano nuovi autori, quali Keisuke Kinoshita, regista
del primo film a colori giapponese, "Carmen ritorna al
paese" 1951, Kon Ichikawa e soprattutto Akira Kurosawa.
Da assolutamente farvi sentire è questo breve estratto
tratto dal film “La donna che amo” di Kinoshita, dove si
sente una nota canzone italiana suonata con l’armonica a
bocca mentre la giovane si trucca allo specchio:
“Sul mare luccica l’astro d’argento”.
Gli anni cinquanta rappresentano il periodo più glorioso della storia del cinema
giapponese, una nuova «età d'oro» dopo quella degli anni del muto, sia dal punto di vista
quantitativo che qualitativo.
Grazie alla ricostituzione del sistema delle majors e alla concorrenza ancora debole della
televisione, la produzione cresce ininterrottamente per oltre un decennio.
All'interno di una così ampia produzione commerciale, articolata nei più diversi generi
popolari, spiccano le vette artistiche di autori quali Kurosawa, che non conquistano il box-
office ma offrono prestigio alle case di produzione che danno loro libertà di espressione, e
i cui film, presentati con successo nei maggiori festival cinematografici europei, fanno
scoprire il cinema giapponese al pubblico occidentale.
Ad aprire una stagione di grandi capolavori è Rashōmon (1950) di Akira Kurosawa,
un'opera atipica molto moderna, poco compresa dalla sua stessa casa di produzione, che
riesce a vincere il Leone d'oro alla Mostra del cinema di Venezia e l'Oscar per il miglior
film straniero.
Rashomon lett. "La porta nelle mura difensive" è un film del 1950 diretto da Akira
Kurosawa.
Il film è una imponente parabola sulla relatività e sulle mille sfaccettature della verità. In
una giornata di pioggia incessante, un boscaiolo, un monaco e un passante si fermano a
parlare di un fatto increscioso avvenuto qualche tempo prima.
Si tratta dell'uccisione di un samurai, avvenuta per mano di un brigante che avrebbe
anche abusato della moglie di lui. La storia viene raccontata da quattro testimoni ma la
verità ha diverse versioni. La storia è raccontata per flashback, a mano a mano che i
quattro personaggi — il bandito , la moglie del samurai , la vittima e il boscaiolo senza
nome— narrano gli eventi.
Girato nella foresta vergine di Nara nei dintorni di Kyōto con un budget bassissimo, il film
venne messo in circolazione in Giappone il 25 agosto 1950, contro il parere dei dirigenti
della Daiei Motion Picture Company, la casa produttrice, che non ritennero meritevole il
film. Grazie all'interessamento di Giuliana Stramigioli, docente di italiano presso
l'Università degli Studi Stranieri di Tokyo e fondatrice della Italifim, Kurosawa riuscì ad
inviare il film in Italia, dove venne presentato al Festival di Venezia, vincendo il Leone
d'Oro al miglior film.
Pochi mesi dopo il film vinse, ad honorem, anche un Premio Oscar come miglior film
straniero. Si aprì così il successo internazionale per un film (e per un regista) che in patria
aveva trovato poco apprezzamento.
L'eccezionale successo del film stimola l’esportazione del cinema nipponico per la prima
volta nella sua storia.
Le case di produzione scelgono però di inviare ai festival europei quasi esclusivamente
film storici in costume: convinti che i film d'ambientazione contemporanea non possano
essere né capiti né tantomeno apprezzati dal pubblico occidentale, preferiscono
soddisfare un superficiale gusto occidentale per l'esotismo.
Kurosawa nel giro di pochi anni firma un altro
capolavoro: Vivere (Ikiru) (1952), il suo miglior film
di ambientazione contemporanea e il mio preferito.
Il film esamina le sofferenze di un burocrate di
Tokyo e la sua finale ricerca del senso delle vita E’
la storia di un impiegato che scopre di avere il
cancro e decide di dare un senso agli ultimi mesi
che gli restano da vivere: realizza il suo sogno,
costruire un parco giochi.
All'inaugurazione nessuno lo ricorda: lui che si era
spento seduto su un'altalena del nuovo parco, felice di aver dato un senso alla sua vita, di
essere riuscito a compiere il "miracolo". I colleghi, ubriachi, giurano di prendere esempio
da lui. Le madri dei bambini pensano al loro benefattore. Il giorno dopo è tutto dimenticato.
Un altro impiegato ha preso il suo posto in ufficio; non si parlerà mai più di Watanabe.
La musica è inizialmente drammatica e grida giustizia. Ma si arrende subito dopo, attenua
i toni e si rifugia nell’intimismo, come a significare che i sogni contano per chi li fa e che il
senso della vita appartiene solo a ciascuno di noi.
In realtà, in questo film, i temi musicali sono due: uno è drammatico, tragico direi, trombe
tematiche dolorose (con ottoni in imitazione, il contrappunto è percepito come serietà),
l’altro è dolce, trasognato, con violino concertante e accompagnamento d’arpa, non
mancano puntillismi di vibrafono. Si tratta (ma lo scopriremo a metà del film) di una
vecchia canzone giapponese tradizionale “La vita è così breve”.
I due temi si alternano anche in maniera ravvicinata in un momento interessante, quando
cioè Watanabe si lascia andare ai ricordi di padre: il tema dolce accompagna le sequenze
di una gara sportiva del figlio di Watanabe, poi sopraggiunge il tema drammatico mentre
Watanabe accompagna la barella di suo figlio (che deve operarsi di appendicite); infine
risentiamo il suono del tema dolce quando Watanabe saluta suo figlio che parte militare, è
come se lo spingesse a vivere la sua vita, ora che è diventato un uomo.
Il tema dolce lo risentiamo in un altro momento “chiave” del film: Watanabe torna al lavoro,
e dà il via alla realizzazione del parco per bambini, che le donne da molto tempo cercano
di portare avanti senza successo, assorbite nel buco nero della burocrazia kafkiana: da
notare che quando le donne rimbalzano da un ufficio all’altro, la musica accompagna con
orchestrazione di sottofondo che eseguono delle progressioni arrotate su se stesse, senza
soluzione di continuità, rotte solo dal grido isterico di una delle donne che è stanca di
girare uffici senza soluzione. Il tema torna quando Watanabe vede il parco davvero
disastrato: la situazione è di estremo degrado e piove a dirotto, ma la musica qui è il
simbolo della speranza di Watanabe e della nuova illuminazione della sua esistenza. Lo
stesso tema sonorizza anche quando Watanabe attende inchinato accanto ad uno dei
funzionari che sta lavorando, affinché mandi avanti la pratica; una vera e propria “tecnica
della goccia” orientale..Anche qui la situazione è umiliante, ma la musica simboleggia
un’idea positiva.
Watanabe riscopre la tenerezza di un tramonto; il tema dolce lo accompagna.
Nel corso del film fanno capolino altri temi musicali, decisamente minori, forse chiamarli
tema è anche troppo; si tratta di sonorizzazioni tipiche, ad esempio il vibrafono (poi arpa e
anche successivamente pianoforte) che suona solo due note contigue nei momenti di
attesa, un clichè musicale molto usato nel cinema. Le stesse note vuote, tristi, in attesa, le
sentiamo quando un collega (l’unico che ravveda gli altri al funerale, e che abbia davvero
capito la grandezza di Watanabe) vede l’uomo che a malapena si regge in piedi ma che
continua a lavorare.
Non mancano momenti di musica in: rumori di scena amplificati per darci un’idea di
smarrimento e di gran confusione (quando Watanabe si dà alla vita notturna); credo che
quando Watanabe canta, accompagnato nel pianoforte in un locale, sia il momento di
musica in più lungo nella storia del cinema non musicale.
Anche il tema tragico ritorna a farsi ascoltare; al funerale sopraggiunge un vigile urbano
che omaggia Watanabe. Racconta ai parenti che aveva trovato lui l’uomo nel parco, e di
averlo scambiato per un ubriacone, l’ultima sera prima che il poveretto morisse proprio
sull’altalena del parco.
La musica torna a farsi scura, grottesca, come se nulla fosse accaduto, con il ghigno del
fagotto concentrate e le progressioni, proprio perché descrive i colleghi di Watanabe che
dirottano nei vari uffici gli sprovveduti cittadini.
Udiamo il tema dolce alla fine del film, con grande valore di contrapposizione verso il
precendente: il figlio di Watanabe vede i bambini felici che giocano nel parco.
I sette samurai (1954), un grande successo internazionale, malgrado la lavorazione
travagliata e i pesanti tagli della produzione.
La musica è assolutamente descrittiva, epica, come ci si aspetta. Sovrani indiscussi, le
percussioni e gli ottoni. Quando Antonioni vide il film per la prima volta disse che ogni
immagine recava l’impronta di un genio.
Un altro genere tradizionale è quello del film di
fantasmi, l'obake-mono, mentre un'importante novità
di questi anni è il film di mostri, ilkaiju eiga, il cui
fortunato capostipite è Godzilla (1954), diretto
da Ishirō Honda e prodotto dalla Toho, che unisce le
paure della guerra fredda all'ispirazione di un
classico come King Kong.
Come si addice alla miglior tradizione americana, la
musica è pressoché sonorizzazione descrittiva,
violenta, e colora tutto il film, dialoghi compresi. Le
musiche sono di Masaru Sato.
A partire dal 1958, la Toei comincia a dedicarsi
sistematicamente anche al cinema di animazione,
destinato a diventare nel giro di pochi anni, grazie al
legame con l'importante mercato dei manga e con la
consistente produzione seriale per la televisione,
una parte preponderante dell'industria
cinematografica nazionale.
Il fenomeno mondiale della nouvelle
vague coinvolge anche il
cinema giapponese, fra la fine
degli anni cinquanta e l'inizio
degli anni sessanta.
Tra gli autori che animano il «nuovo
cinema giapponese» vi è Oshima, che
raggiunge il successo con il
successivo Racconto crudele della
giovinezza (Seishun zankoku monogatari) (1960), radicalmente nuovo per scrittura, stile,
montaggio. Il regista attacca frontalmente la società giapponese contemporanea nei suoi
diversi aspetti, rivelando anche un eccezionale eclettismo formale.
La musica non rinuncia all’orchestra ma vi si stacca progressivamente, mostrando tratti
occidentali, brass jazzistici e percussioni.
Le majors volgarizzano e sfruttano commercialmente i contenuti provocatori dei film
d'autore della nouvelle vague, producendo film a basso costo, pieni di sesso e violenza
(che la rivale televisione non può offrire), una politica commerciale che sul breve periodo si
dimostra redditizia, ma che non può salvare un sistema in piena decadenza e che sul
lungo periodo risulta anzi dannosa, disaffezionando e disabituando il pubblico al cinema di
qualità.
A metà degli anni sessanta sono lanciati i "film rosa”
linea erotica. In un simile contesto, perfino un autore
della statura di Akira Kurosawa ha difficoltà a
realizzare i propri film e nel 1969 fonda, insieme ad
altri tre importanti cineasti, Ichikawa, Kinoshita e
Kobayashi, la Yonki no kai ("Società dei quattro
cavalieri"), la cui prima produzione è Dodès'ka-
dèn (1970), diretto appunto da Kurosawa. Il film è un
tale insuccesso da spingere il regista a tentare il
suicidio.
Lo sfondo è una baraccopoli della fine degli anni 50'
della periferia di una metropoli giapponese, e vede
come protagonisti diversi personaggi accomunati
dall'essere dei disadattati, o comunque reietti o
emarginati, intenti nel loro vivere quotidiano o alle
prese con vicende personali. Volto a delineare dagli
elementi più nobili ai più triviali dell'animo umano
quando è segregato ai limiti della società, generando i
colori del putrido e del sognante, il tutto ci è
raccontato in un affresco dallo stile quasi onirico nel perfetto stile del Kurosawa degli anni
70'. Dodeskaden è il primo film a colori del grande regista, tratto da alcuni racconti di
Shuguro Yamamoto.
La musica è tipica anni 70, con vibrafono e sonorizzazione sintetica che conferisce al film
quella visione onirica come era stato per i film felliniani.
La musica del film è di Toru Takemitsu. I titoli di coda sono caratterizzati dal tema portante
del film, un motivetto dolce, ingenuo, umile, semplice, per chitarra, poi per flauto (ne
compare anche la versione più sonora con tromba) orchestrato con leggerezza, che ho da
sempre nelle orecchie, non so perché, avevo visto il film molti anni fa prima di rivederlo in
occasione del saggio, ma la sua musica d’esordio è per me conosciuta, probabilmente è
stata usata come citazione in altre salse. Da notare l’apertura con luccichio magico sul
nome del regista che chiude la musica.
Il tema sembrerebbe perfetto per il protagonista, un timido giovanotto che vediamo subito
nella prima scena; sua madre sta pregando con veemenza, sbatte dei bastoncini e intona
una forte monodia polarizzata, snervante che si interrompe quando il giovane si
inginocchia vistosamente e prega il Budda, con voce calma.
Per tutto il film sono presenti rumori di scena della città che si sentono anche fuori campo,
proprio per dare connotazione temporale e logistica alle scene della pellicola. Il ragazzo
esce per andare al lavoro, mentre la madre si rimette a pregare e vede i disegni di suo
figlio che ritraggono tutti un tram. La musica descrive la scena ma soprattutto, con il suo
flauto e la sua arpa tematici, ci porta a comprendere che si tratta degli ingenui sogni di un
bambino. Infatti il giovane non lavora: attraversa un cumulo di macerie e si ritrova solo,
mima esattamente le azioni di un lavoro da operaio ferroviario, ma è solo, nel silenzio più
assurdo. Il sonoro però rientra in un piccolo sprazzo con rumore di ferraglia, quando il
ragazzo mima l’apertura di un vano per la manutenzione. Tutte le azioni successive
saranno sonorizzate dai rumori di scena (senza scena) e dalla voce del protagonista che
parte col suo tram fantasma, ripetendone il rumore ritmico in progressivo accelerando
(DODESKADEN) mentre la musica si apre in tutta la sua bellezza, con il tema inizialmente
per tromba sola e poi con orchestrazione (da notare il flauto concertante, simbolo
dell’ingenuità del protagonista); il ragazzo si ferma e la musica rallenta fino ad arrestarsi,
lasciando in coda solo il ghigno grottesco degli ottoni bassi.
La musica ci lascia per molto tempo, facendoci assaporare momenti di autentica settima
arte (da notare la ripresa soggettiva del bambino che guarda il padre, ma in realtà il
bambino lo vediamo nello specchio), e così conosciamo a giudichiamo tutti i personaggi e
le loro vicende, vediamo immagini simboliche come l’albero secco, simbolo di uno dei
personaggi avvizziti della baraccopoli che ci vive accanto; la musica del tema principale
torna per flauto concertante sulle immagini del protagonista che continua a vagare di
notte, di giorno, con la pioggia, portando il suo fantomatico tram, su immagini del cielo che
ricordano i quadri naturalistici di Okusai, nella loro accentuata connotazione simbolica e
onirica. Il tema tornerà tutte le volte che il giovane si muove col tram, diventa ad un certo
punto del film un intermezzo musicale anche perché le scene (intensissime, tra cui
segnalo quella del vecchio con la ex moglie che dilaniano stoffe con le mani e il loro
dialogo è il rumore del taglio, come il grido di anime lacerate e del loro legame distrutto)
sono spesso prive di dialogo e sonorizzate solo con rumori di scena.
Non mancano per tutta la pellicola, gustosissima, (non manca neppure il sacchetto che
vola, in una sorta di “American beauty” ante litteram) massime di saggezza e riflessioni sul
mondo occidentale, nonché le ragioni che hanno spinto molte scelte del popolo
giapponese, ricette con cibo di fortuna, ripassi di storia dell’arte, che Kurosawa affida al
“fiolosofo- architetto” della baraccopoli che dialoga con il suo figlioletto di sei anni.
Durante la notte, il piccolo va da un uomo e sua moglie a prendere del cibo, un esempio di
solidarietà da poveri: la musica qui è un tintinnare lento e cullante di vibrafono nel registro
acuto che sta a simboleggiare sia il bambino sia la notte stellata.
“Una casa si vede dal cancello, come una persona la si giudica dall’apparenza”
“Il mondo occidentale è aggressivo, ecco perché vivono in case di cemento lontano dalla natura; il
giapponese ama vivere a contatto con la natura, costruisce case di legno e ama la luce soffusa e timida”.
“Un albero morto non è più un albero”
E proprio mentre il padre sogna il suo cancello, la musica fa capolino sonorizzando come
meglio non potrebbe fare ogni parola e visione dell’uomo, fin dal suo esordio con
percussioni cristalline, che ci portano nella dimensione onirica.
Nel silenzio assoluto è assorto il lavoro della giovane in ginocchio che crea fiori finti con la
carta velina; cade a terra sfinita dal sonno, dalla fame e dalla fatica.
Tre timidi rintocchi (sembrerebbero emessi da un triangolo) ci fanno comprendere che è
sorto un nuovo giorno: la giovane Kazuko (emblematica traduzione di “stella del destino”)
si sveglia e si rimette al lavoro senza un fiato, il padre e suo figlio mangiano cibo di
fortuna.
I suoni si fanno inquietanti e sintetici, brevi e con lunghe pause tra uno e l’altro, sonorità
davvero sinistre, quando il figlio dell’architetto ha dolori lancinanti per la fame e gli stenti, il
padre esce dalla macchina, forse nel tentativo di chiedere aiuto, ma ha lo sguardo perso, il
cielo alle sue spalle è irreale, sembra di vedere “l’urlo di Munch”.
Il bambino grida per l’ultima volta e muore, mentre suo padre, impotente, vaneggia della
piscina della loro casa.. La musica ha un solo suono, lungo e grave di violoncello,
interrotto bruscamente dal ghigno grottesco di ottoni (già sentito) sulla scena suturata
successiva, che ritrae le lavandaie della baraccopoli.
Il padre seppellisce le ceneri del figlio e l’immagine del piccolo sacchetto con la polvere
grigia che spicca sul nero del terreno, si allarga fino a diventare una piscina, nella visione
di suo padre ridotto alla pazzia. Sul fermo immagine della piscina udiamo un suono lungo
e quasi solenne di trombe in accordo maggiore di terza, ma straniato dalla rielaborazione
sintetica. E’ un trionfo solo onirico visionario.
La vita prosegue per tutti i personaggi, senza una meta, tranne per il protagonista che
ferma il suo tram al grido di Dodeskaden.
Il film si richiude a cerchio: il tema portante, con introduzione di chitarra, si snoda in tutta la
sua semplicità e bellezza (con ottavino concertante, accordi brevi di sostegno degli archi e
contrappunto e luccichio di xilofono marimba e vibrafono) sulle immagini dei disegni del
tram desiderato, appesi alle pareti e ai vetri della sua baracca, il giovane torna a casa
atteso dalla madre devota.
Nel corso degli anni settanta prosegue la profonda crisi economica dell'industria
cinematografica iniziato nel decennio precedente. L'unico nuovo autore di rilievo emerso in
questi anni è l'eclettico Shuji Terayama, scrittore, drammaturgo, pugile, regista di Sho o
suteyo, machi e deyo ("Gettiamo i libri e scendiamo in strada") (1971) la cui musica è
sostanzialmente rock, violenta e impietosa, tipica di quegli anni, proprio per accentuare il
disagio giovanile, la ribellione, lo squallore.
Le opere più notevoli degli anni ottanta sono realizzate da un monumento vivente del
glorioso cinema giapponese del passato, Akira Kurosawa, e dal superstiti della nouvelle
vague, Nagisa Oshima.
Grazie all'interesse di Lucas, Spielberg e Coppola e ai capitali
americani della Fox, Kurosawa può girare un film al di sopra
dei limiti produttivi del cinema giapponese che rinnovano il suo
successo mondiale.
Nel 1983 Oshima realizza con grande successo un nuovo film
scandalo, Furyo (Senjo no Merry Christmas), nel quale sesso
e guerra sono intrecciati come mai prima.
Magistrale l’interpretazione di David Bowie.
Nasce il nuovo astro della musica, il giapponese Ruiki
Sakamoto che lavorerà per molte produzioni
cinematografiche a livello mondiale.
Personalmente adoro il lavoro di questo compositore.
I film giungono sempre più spesso nelle sale
cinematografiche in lungometraggi e
mediometraggi, si affermano alcuni registi capaci
di fondare case di produzione autonome e
interessate a sviluppare una poetica non
commerciale, quando non esplicitamente
undergruond. La tendenza delle varie stazioni
televisive nipponiche a non trasmettere
programmi, serie, cartoni animati, film-tv di
origine straniera, tenne il mercato giapponese in
una condizione di autoreferenzialità, dall'altro
mantenne maestranze di ogni livello, attori,
montatori, tecnici e una palestra per giovani
registi.
Negli anni 90 torna prepotentemente sulla scena
del cinema mondiale Kurosawa con
“Dreams”.
Sogni è un film del 1990 diretto da Akira
Kurosawa, composto da 8 episodi,
basato sui concetti del realismo magico e di alcuni sogni del regista. Il film
racconta, anche se non esplicitamente, la vita di Kurosawa e gli episodi
rappresentano i vari periodi della sua vita, partendo dall'infanzia fino alla morte. Il
film è stato prodotto grazie al contributo di Steven Spielberg e George Lucas.
Le musiche sono di Shinichirô Ikebe.
Non mancano nel lavoro dialoghi succulenti che esplicitano la filosofia, il pensiero di
Kurosawa, una critica decisamente malcelata alla società, alla mancanza di rispetto
per la natura e per l’arte, una critica feroce alla guerra ; alla luce degli ultimi tragici
eventi che hanno colpito il Giappone, l’episodio del Fujihama in eruzione è
tragicamente premonitore dell’incidente alla centrale nucleare di Fukushima, di cui
l’incolpevole monte è solo un pretesto, dal momento che dall’eruzione fuoriescono
radiazioni, Plutonio 239, Stronzio 90 e Cesio 137, rispettivamente portatori di
cancro, leucemia e malformazioni gravissime per decenni.
Un’eruzione vulcanica, per quanto devastante sia, non è foriera di tali danni a lungo
termine su tutte le creature terrestri.
Nei titoli di testa, possiamo sentire, in una sorta di Ouverture, molte caratteristiche
compendiate che ritroveremo nei vari sogni: il flauto suonato nella particolarissima
maniera giapponese, l’ottavino sognante o stridulo nella sua accezione drammatica,
gli archi drammatici o sommessi con fasce, le parti sognanti di arpa e wind chimes,
le piccole percussioni che ricordano il mondo dell’infanzia, i corni solenni ma
composti, l’oboe lamentoso, i rintocchi profondi degli archi gravi.
Per comodità ho titolato i vari sogni: sono piuttosto diversi da quelli che ho trovato
nomenclati da alcuni critici.
1. le nozze delle volpi
2. il pescheto
3. la tormenta e la speranza
4. la follia della guerra
5. la sindrome di Stendhal
6. premonizioni
7. demoni
8. il villaggio dei mulini.
1. LE NOZZE DELLE VOLPI
Un bambino decide di andare nel bosco perché si dice che, nelle giornate di pioggia con
sole, le volpi celebrino nozze fastose in gran segreto.
Il bambino è solo molto curioso, ma pagherà a caro prezzo la sua curiosità.
La musica entra quando il bambino vede il corteo nuziale di volpi antropomorfe,
accompagnate da una musica inquietante, almeno per un occidentale, tipica della
tradizione antica nipponica: flauto stridulo che oscilla su semitoni, disegnando una
melodia semplice per gradi contigui, il cui accompagnamento armonico oscilla su
due intervalli di quarta; il tutto è scandito con solennità da percussioni di legno,
metallo e pelli.
La connotazione che vuole darne l’autore è quello di una musica IN anche se nessuno nel
corteo sta suonando uno strumento.
La musica di commento, vera e propria, entra alla fine dell’episodio: il bimbo ha in mano il
coltello e si avvia nuovamente nel bosco.
Le volpi sono state a casa del bambino e hanno lasciato a sua madre un coltello per
uccidersi e pagare la sua colpa. La madre dice al bambino di andare subito ad
implorare perdono: troverà le volpi sotto l’arcobaleno.
Il brano, splendido, vede protagonisti un clarinetto (probabile timbro complesso con oboe)
su ritmo di fagotto ostinato e archi gravi che sembrano ghignare sulle sorti del
bambino, accompagnandolo in quello che potrebbe essere l’ultimo viaggio. Il tema
del clarinetto mi ricorda un breve estratto del tema di Mussorgskij “Il vecchio
castello”.
Un meraviglioso arcobaleno si staglia sul prato: wind chimes, arpa, violini sognanti e
apertura orchestrale dipingono letteralmente un bellissimo tema, ma sempre su
pedale grave che mina esplicitamente i gesti e la luminosità del tema stesso.
Il luccichio del wind chimes e l’apertura orchestrale rendono decisamente suggestivo il
tripudio di colori, tra l’arcobaleno e i fiori variopinti che si stendono ai piedi del
bambino come un tappeto iridescente. Sia l’azione cinematografica, sia la musica
(che si ferma su una frase aperta) lasciano il sogno senza una conclusione.
2. IL PESCHETO
Un bambino, in casa con sua sorella maggiore (e le amiche di lei, che festeggiano la festa
delle bambole), vede una coetanea che in realtà non esiste, (in quanto è il simbolo
del fiore di pesco), e la insegue: incontra gli spiriti del pescheto che è stato raso al
suolo.
Gli spiriti però comprendono che il bambino non solo non ha colpa dell’accaduto, ma è
addolorato sinceramente per la distruzione del pescheto; gli spiriti fanno riapparire il
pescheto fiorito per lui, con un’ultima danza, prima di scomparire per sempre.
La musica fa capolino con un ottavino stridulo e sibilante, che potremmo definire signal,
sull’immagine delle bambole, in camera della sorella. Le bambole sono identiche
agli spiriti del pescheto; il signal è premonitore, in quanto subito dopo, al
protagonista appare la bambina.
La bambina fantasma, vestita di rosa, è nella stessa posizione in cui si trova un ramo rosa
di pesco, posto in un vaso in fondo alla stanza.
Anche la bambina ha un suo signal sonoro, i sonagli. Il protagonista insegue la bambina
che sta scappando: ogni suo movimento è connotato dal suono dei sonagli.
Gli spiriti del pescheto invece sono inizialmente connotati anche qui da musica in e poi di
commento. La musica in è tipica giapponese, con ottavino, shamisen, percussioni
di legno e di pelle ed è in crescendo sia dal punto di vista compositivo sia timbrico.
Quando il pescheto è riapparso in tutto il suo splendore, entra l’organo, con un
tema occidentale, lieto. pur nella sua solennità, quasi a sancire la sacralità
dell’evento. Musica di commento.
Nella seconda ripresa del tema, la melodia principale è raddoppiata dagli archi e sentiamo
anche lanci d’arpa, xilofono e sonagli, proprio perché ricompare sulla scena la
bambina.
Il tema festoso si interrompe bruscamente su un accordo diminuito lacerante: il pescheto e
la bimba sono scomparsi, al suo posto giacciono i monconi tagliati dei peschi.
Il tema che sonorizza la scena sembra un’opera orchestrale sinfonica del romanticismo
europeo, ma non saprei dirvi se si tratta di un’opera di pubblico dominio e me ne
scuso:
esordisce un oboe malinconico, che suona in successione le note facenti parte di due
triadi minori, distanti tra loro un intervallo di quarta. Ai timbri orchestrale consueti, si
uniscono i sonagli, in sincrono con l’immagine dell’unico cespuglio di pesco fiorito,
che oscilla solitario al vento.
3. LA TORMENTA E LA SPERANZA
Quattro uomini arrancano faticosamente sulle montagne, devastate da una tormenta di
neve.
Nella prima parte del girato, non si può parlare realmente di musica, in quanto siamo di
fronte a rumori di scena: il respiro affannoso degli uomini, gli appelli accorati del
capo-cordata, che tenta di spronare i suoi compagni, il sibilo violento del vento, il
rombo cupo della montagna sconquassata dalla tormenta, sono i veri protagonisti
sonori della sequenza. Non dubito che ci siano anche dei suoni sintetici, dal
momento che ho sentito sinth simili in programmi d’effetti sonori come
“Atmosphere”.
Dopo aver tentato invano di svegliare i compagni, il capo cordata si accascia a terra: i
rumori, lasciano spazio alla voce di soprano solo, che arriva da lontano,
sull’immagine dell’uomo ormai in fin di vita. Il canto è dolcissimo, lo culla, e poco
dopo vediamo accanto al protagonista una donna, detta yuki-onna ("donna delle
nevi"), creatura soprannaturale del folclore giapponese. Il canto è evidentemente la
connotazione sonora del nuovo personaggio.
La donna copre l’uomo con un caldo scialle di lana con tante frange argentee, l’uomo si
sveglia, ritrova la speranza; il manto della donna vola via e anche lei si dissolve
completamente. La tormenta irrompe con i suoi rumori sinistri e violenti, il canto si
spezza.
Finalmente la tormenta è finita: sulla ripresa del cielo azzurro e delle cime innevate,
sentiamo una sorta di tema neoclassico viennese, suonato dai corni in
contrappunto (canto gemello) in terze, mentre si muovono su intervalli di quarte e
quinte, caratteristici movimenti intervallari dei corni naturali; un tema allegro, molto
usato per sonorizzare le montagne, se non fosse per il flauto che si unisce al tema,
raddoppiato anche dagli archi, (che ne fanno anche una seconda frase di risposta
alla prima solenne dei corni), e accompagnato da pizzicati sonori di violoncelli e
contrabbassi. La musica di commento è un tripudio di speranza, dal momento che
tutti gli uomini sono ancora vivi e hanno trovato il campo.
4. LA FOLLIA DELLA GUERRA
Un soldato cammina verso una galleria e viene accolto prima dai guaiti fuori scena di un
cane, poi dai suoi nervosi latrati dal vivo, dopo che la bestia esce dal tunnel e gli si
para davanti minacciosa. L’uomo è l’unico sopravvissuto di una battaglia persa e
dopo aver attraversato il tunnel vede arrivare prima un suo sottoposto (che era
morto poco prima tra le sue braccia in battaglia, mentre vaneggiava di un sogno) e
poi l’intero battaglione sterminato.
L’uomo comprende la follia della guerra che ha prodotto tanta morte, si inchina colpevole a
chiedere perdono e prega i suoi compagni di farsi una ragione del fatto che sono
tutti morti (hanno un volto bluastro inquietante) e devono tornare dall’altra parte del
tunnel, accettando la loro condizione.
Se associassimo il cane alla fedeltà, allora il capitano ha tradito la fedeltà dei suoi uomini,
portandoli alla morte, anche se suo malgrado, data la follia della guerra.
La scelta musicale è tutta incentrata sui rumori di scena: i latrati del cane, i passi che
rimbombano nel tunnel, lo scalpiccio degli stivali che affondano nel fango, i passi
inquietanti del battaglione che arriva imponente al cospetto dell’uomo.
L’unico strumento musicale che possiamo sentire è la tromba: inizialmente lo strumento,
tipico delle scene militari, lo sentiamo in lontananza, coperto dai passi del
battaglione che torna aldilà del tunnel; successivamente diventa padrone della
scena, con un suono molto riverberato, (credo si tratti di un’alterazione sintetica),
infine svanisce tra i passi del battaglione, giunto aldilà del tunnel.
Il girato si richiude a cerchio e il cane tornerà a minacciare l’uomo.
La follia della guerra tornerà sempre a tormentarlo.
5. LA SINDROME DI STENDHAL
Un uomo guarda in silenzio estasiato i quadri di Van Gogh esposti in una galleria d’arte.
Fermatosi davanti al quadro “Il ponte di Langlois” l’opera si animae ritroviamo il ragazzo
che chiede informazioni alle donne su dove possa trovare Van Gogh.
La colonna sonora è musica di commento di pubblico dominio, esattamente il preludio
numero 15 in re bemolle maggiore di Chopin.
Tra le opere di Van Gogh (dentro le quali il protagonista insegue il pittore) e la musica di
Chopin, Kurosawa crea un vero capolavoro di unione delle arti.
Il celeberrimo brano chopiniano si compone di un iniziale tema dolce, spensierato, che
accompagna il protagonista fin da quando si trova nel quadro del ponte, ma anche
di una parte estremamente drammatica, basata sulla ripetizione ostinata di una
stessa nota (molti infatti conoscono il brano come “la pioggia” proprio per
l’insistenza di tale nota) a cui si aggiungono ottave alla mano sinistra, molto sonore
e che ci fanno sprofondare nella drammaticità più assoluta.
Il sogno è montato proprio sulla musica.
La parte iniziale dolce si ferma non appena il giovane incontra il suo idolo che sta creando
in un campo di grano.
Il monologo di Van Gogh è un raro esempio di come si possa creare un’opera d’arte e
della sua peculiare poetica pittorica.
“Come in un sogno, il paesaggio si dipinge da solo, per me; io mi nutro di questo scenario
naturale, lo divoro tutto, totalmente; e quando ho finito, il quadro è davanti a me
completo; dopodichè ho dentro di me il vuoto assoluto”.
”E poi che cosa fate?” domanda il giovane
“E poi lavoro, da schiavo, e mi guido come una locomotiva”
Qui entra prepotentemente la parte pianistica con ottave forti, mentre Kurosawa mischia
sapientemente le immagini dell’artista con quelle di una locomotiva (sembrerebbe
un omaggio al cinema, il cui simbolo è la locomotiva del fratelli Lumiere).
La musica riempie tutta la scena: il tarlo della creazione è identico al ribattuto insistente
della nota ostinata nel registro medio.
Van Gogh abbandona il giovane, dicendo che il suo lavoro dipende dal sole e non ha
tempo da perdere: sul campo lungo del giovane rimasto solo, sentiamo il fischio
della locomotiva fuori campo, perché l’artista è … “partito”.
Il giovane insegue Van Gogh, camminando tra le sue creazioni pittoriche, che diventano lo
scenario della sua solitudine e della sua ricerca.
La musica, in questa lunga ricerca, è la parte drammatica del brano di Chopin, con nota
ribattuta e ottave forti.
La musica si ferma quando il giovane si trova nel campo di grano sorvolato dai corvi neri.
Solo il loro verso inquietante e foriero di sventura possiamo ascoltare e, subito
dopo, il rumore fuori campo del fischio della locomotiva accompagna il fermo
immagine in primissimo piano del quadro.
Su questo rumore il giovane si ritrova fermo nella galleria d’arte, davanti al quadro dei
corvi; dopo un debole suono sintetico, che riporta il protagonista alla realtà, il
giovane si sveglia e si toglie il cappello in segno di rispetto.
6. PREMONIZIONI
Il Fujiyama o Monte Fuji è un vulcano alto 3.776 m ed è la montagna più alta del
Giappone. Con la sua cima innevata per dieci mesi all'anno, è uno dei simboli del
Giappone, tanto che è considerato uno delle montagne sacre del Paese.
Nel sogno che segue, il monte sta eruttando.
Grida di spavento delle masse in fuga, rombi di tuono, sirene, ci catapultano in un
Giappone sconvolto dall’eruzione, ma scopriremo presto che non è il vulcano il
colpevole di tanta sciagura, ma solo una metafora dell’ energia nucleare e delle sue
pericolosissime centrali presenti sul territorio.
La colonna sonora è basata sostanzialmente su suoni sintetici (primo piano del vulcano in
eruzione; arrivano i venti di Plutonio 239, Stronzio 90 e Cesio 137; la famiglia è
investita dalla radioattività) e momenti di dialogo o di rumori di scena.
Non mi dilungo sulla colonna sonora, perché qui ha davvero solo un ruolo solo di sfondo.
Al regista interessa la discussione ecologica e politica. E tragicamente premonitrice.
7. I DEMONI
Anche qui la colonna sonora è solo sfondo, tra rumori di scena (sibilo del vento, passi..) e
qualche accenno di sinth. E’ pregnante invece il dialogo tra l’alter ego di Kurosawa
(il giovane già protagonista dei quadri precedenti) e una creatura umanoide
sopravvissuta al disastro-nucleare.
Il sogno è davvero inquietante, non tanto per le creature mostruose, cornute e
deformi che popolano la terra, ridotta a sterile terreno lunare, ma per le grandi verità
che il regista mette in bocca al demone unicorno: la gerarchia c’è anche tra demoni,
il potere è sempre nelle stesse mani. Tra atroci dolori e sofferenze dovute alle
malformazioni, i demoni bicorni e tricorni, che detengono il potere, continuano a
sopravvivere cibandosi dei loro stessi simili; la loro punizione è l’immortalità.
Kurosawa non perde occasione per farci sapere come la pensi sullo spreco e la
distruzione di derrate alimentari, per mantenere stupidi equilibri economici e politici.
8. IL VILLAGGIO DEI MULINI
Anche questo sogno è una dissertazione filosofica, ecologica e politica del regista.
La musica ha però un ruolo molto importante: pur non mancando evidentemente
momenti di colonna sonora rumoristica (passi, rumore del ruscello, le pale che si
adagiano sull’acqua) la musica in del funerale, prima udita fuori campo, poi suonata
da una banda, ci proiettano al primo sogno, alla parata del matrimonio delle volpi.
E’ come se il regista volesse iniziare con la vita, simboleggiata dal matrimonio e dal bimbo,
e finire con la morte, il funerale inteso bilateralmente, ovvero quello dell’anziana
donna effettivamente defunta e celebrata, ma anche dell’anonimo personaggio sulla
cui lapide ignota tutti pongono fiori, come da tradizione (forse una metafora del
regista stesso).
La banda è molto ritmica, con gli strumenti tipici a fiato, ma anche con percussioni insolite,
tipiche però orientali, come i sonagli (suonati dal vecchio centenario che amava la
donna defunta, e suona proprio i sonagli, ancora simbolo di una figura femminile
come era già stato per la bambina del pescheto); si aggiungono le voci, un coro
misto declamato più che cantato, da voci bianche, uomini e donne, mentre il tema
principale, molto semplice, in minore, è condotto dai flauti e dagli ottavini. Da notare
che gli accordi armonici di riferimento sono una tonica minore, la sua quarta
(sempre minore) e una dominante senza alterazioni.
La musica in termina improvvisamente lasciando echeggiare il suono dei sonagli; come
già successo, alla musica in si contrappone ancora una volta la musica di
commento: alla fine del girato, il protagonista (sempre lo stesso uomo) oltrepassa il
ponte sul fiume, dopo aver riposto un fiore sulla lapide dell’ignoto defunto. Il
commento musicale è sommesso e riflessivo, condotto dall’oboe e dagli archi, e
senza soluzione di continuità ecco i titoli di coda: è ripreso il fiume, tutto scorre,
panta rei; le piante acquatiche seguono il ritmo della corrente fluttuando sull’acqua.
Solo una vita nella natura, e non contrapposta ad essa, può generare felicità senza tempo.
La celebre compositrice italiana, Sonia Bo, ha scritto musiche originali di vero impatto,
dedicate al film.
Akira Kurosawa muore nel 1998. L'ultimo grande veterano del cinema giapponese decade
dopo più di cinquant'anni di attività e trenta pellicole.
Fondamentale nel decennio è il cinema d'animazione, anche detto anime, che dona
grande rinomanza e numerosi premi ai suoi autori. Primo tra tutti Hayao Miyazaki.
Veterano del cinema d'animazione e co-fondatore del celebre Studio Ghibli, realizza alcuni
dei capolavori del cinema d'animazione di tutti i tempi, tra i quali La città incantata (2001),
Il castello errante di Howl (2004) con la sua musica, un walzer travolgente, e il più
spensierato Ponyo sulla scogliera (2008).
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Il cinema giapponese e la sua musica

  • 1. IL CINEMA GIAPPONESE Il cinema giapponese (Nihon eiga) ha una storia per molti versi analoga a quella di altre cinematografiche mondiali, con alcune proprie peculiarità. L'industria cinematografica giapponese, fortemente strutturata in case di produzione maggiori, come a Hollywood, ha avuto una prima produzione di eccezionale ricchezza che non ha però varcato i confini nazionali, e ha raggiunto la sua massima prolificità negli anni ‘50, con oltre cinquecento film all'anno; opere di eccezionale qualità artistica di alcuni autori, come Akira Kurosawa e Kenji Mizoguchi, hanno fatto scoprire in Occidente, attraverso i festival, l'esistenza del cinema nipponico, a partire dal film Rashōmon (1950), vincitore del Leone d'oro alla Mostra del cinema di Venezia e dell'Oscar per il miglior film straniero. Tra la fine degli anni cinquanta e l'inizio dei sessanta anche il cinema giapponese è stato interessato dal fenomeno internazionale delle nouvelles vagues e sono emersi nuovi autori di rilevanza internazionale come Nagisa Oshima e Shohei Imamura. Nel corso degli anni sessanta il sistema produttivo cinematografico ha però subito l'insuperabile concorrenza della televisione ed ha imboccato la via del declino, con la progressiva discesa del numero dei film prodotti, delle sale cinematografiche e degli spettatori. Andiamo nel dettaglio. L'invenzione del cinema arriva presto in Giappone. Nel 1896 a Kobe viene presentato con grande successo il Kinetoscopio di Edison, mentre l'anno successivo il Vitascopio Edison e il Cinématographe dei Lumière offrono le prime vere proiezioni su schermo per un pubblico collettivo. Ad introdurre il Cinématographe è l'imprenditore tessile Katsutarō Inabata, di ritorno da un viaggio in Francia durante il quale ha conosciuto Auguste Lumière. La prima casa di produzione giapponese è la Denkikan del 1903. I primi film giapponesi, risalenti al 1898-1899, sono principalmente riprese dal vivo di scene di strada e di "danze di geisha" nei quartieri di piacere. I primi film a soggetto sono fedeli adattamenti di famosi drammi kabuki, come "Passeggiata sotto le foglie d'acero", realizzato nel 1898 o 1899 da Tsukemichi Shibata, : in generale, gli attori kabuki sono reticenti a cimentarsi con il cinema, nel quale vengono invece impiegati i kyūgeki, attori di rango inferiore. Vi faccio sentire una versione musicale di momigari. E’ un ascolto molto raro: la musica è vocale, polarizzata, per non dire ferma, su una stessa nota. Nel suo periodo iniziale, il cinema è in effetti fortemente debitore del teatro, nelle sue varie forme (il kabuki tradizionale; lo shimpa, la "nuova scuola" del melodramma contemporaneo; lo shingeki, il "nuovo teatro" (spesso adattato dal repertorio occidentale moderno, in particolare russo, ad esempio Tolstoj e Gor'kij), tanto che dall'incrocio dell'arte
  • 2. teatrale e cinematografica nascono i cosiddetti rensa-geki ("drammi a catena"), opere teatrali dal vivo con inserti filmati di riprese in esterni, la cui popolarità rimane costante fino ai primi anni venti, finché la componente cinematografica totale non avrà il sopravvento. Una figura caratteristica del cinema delle origini è quella dei benshi ("uomini parlanti"), i commentatori pubblici dei film muti, incaricati di leggere le didascalie a beneficio di un pubblico in buona parte analfabeta, ma anche di descrivere le trame prima della proiezione per rendere riconoscibili e più fruibili le strutture narrative. Anche il fratello maggiore di Akira Kurosawa, per passione, fu un benshi, cosa che contribuì notevolmente ad avvicinare questo artista al cinema. La categoria raggiunge la massima fortuna all'inizio degli anni venti, riesce a sopravvivere fino alla metà degli anni trenta, riuscendo con la propria opposizione a ritardare l'affermazione del cinema sonoro in Giappone, ma è inevitabilmente destinata a scomparire. Fra i maggiori protagonisti del cinema degli anni dieci spiccano il regista Shōzō Makino e l'attore Matsunosuke Onoe, prima star del cinema giapponese, che girano insieme decine di film all'anno. Alla fine degli anni dieci il cinema giapponese comincia a raggiungere un'autonomia e addirittura una posizione di privilegio rispetto al teatro. Un film simbolo di questa fase di sperimentazione è Rōjō no reikon ("Anime sulla strada") (1921), diretto da Kaoru Osanai. Esiste la possibilità di vedere questi film, anche semplicemente su youtube, e ve li consiglio, perché la poetica cinematografica giapponese è davvero straordinaria. Si tratta di film muti, e purtroppo non vi sono registrazioni musicali originali dell’epoca. Commentare in questa sede un commento musicale non originale non mi sembra opportuno. La transizione dal cinema muto a quello sonoro non è facile né rapida, sia per la forte opposizione dei benshi, le cui performance erano diventate parte integrante dei film, sia per la mediocre qualità tecnica dei primi, imperfetti sistemi di sonorizzazione. Il primo film interamente parlato è la commedia Madamu to nyōbo ("La signora e mia moglie"), diretta da Heinosuyke Gosho nel 1931, ma ancora per diversi anni il sonoro non si afferma in modo generalizzato, anche se la tendenza è inarrestabile. La musica dei titoli di testa è una produzione bandistica che somiglia a quelle del fascismo italiano.Da notare che la musica non coprirebbe tutta la sequenza dei titoli allora è montata decisamente male..Come era già stato per il celeberrimo Roma Città aperta, il fischiettare melodie è un signal molto presente in questa produzione. Il cinema giapponese ha una poetica assolutamente antiretorica, asciutta, le scene musicate sono pochissime, per privilegiare il senso di realtà. Vi sono intere scene dove è rumore di fondo la colonna sonora, non una parola, non una nota, solo sguardi molto eloquenti, azioni lente, montaggio rilassato, qualche suono di natura (insetto, uccellini, rumori di scena, voci di bambini, pianto). Compare una canzone popolare (a 33 minuti circa) e il personaggio principale ne è pure terribilmente infastidito! A 39.40 compare una musica in, cioè suonata dal vivo dagli ottoni di un ensemble improvvisato che devono provare, in un luogo di ritrovo, con melodia cantata da una cantante. A 55 minuti, verso la fine del film, i due protagonisti, ritrovata la serenità di coppia, canticchiano la melodia della musica di commento, e la stessa musica li accompagna nelle sequenze finali del film. Immagini: l’attore Onoe e la locandina di Roshomon.
  • 3. La crisi economica sopraggiunta verso la fine degli anni venti favorisce la diffusione di ideologie di sinistra, che rinnovano la letteratura, il teatro e il cinema. La nuova coscienza sociale prende la forma dei film di tendenza, film realistici, impegnati, di ambientazione contemporanea, con tutti i disagi, gli stati d’animo tipici del genere. Negli stessi anni gli intellettuali marxisti del Nappu (Federazione artistica dei proletari giapponesi) animano il movimento di cinema amatoriale del Prokino ("cinema proletario"), che propone opere di forte denuncia, soprattutto di carattere documentario, girate con mezzi limitati, sviluppate in laboratori di fortuna, proiettate nell'anonimato. Entrambi i fenomeni sono però di breve durata e soccombono di fronte alla censura, sempre più violenta, in particolare dopo l'incidente di Mukden del 1931, quando una bomba di origine sconosciuta distrusse la ferrovia nei pressi di Mukden: il reparto militare giapponese, a guardia della ferrovia stessa, usò l'incidente come pretesto per occupare la Manciuria meridionale, nel settembre 1931. Fu successivamente appurato che l'attentato fu opera di membri dell'Armata del Kwantung come pretesto per portare avanti l'aggressione in Cina. I keikō eiga concludono il loro periodo migliore nel 1932, mentre il Prokino è definitivamente sciolto nel 1934. La decisa tendenza nazionalista e militarista del Giappone, emersa a partire dall'inizio degli anni trenta e culminata nel 1936 con il trattato di alleanza con la Germania nazista e nel1937 con l'invasione della Cina, investe anche il cinema, che non può rimanere estraneo alla realtà politica del paese. Il governo rafforza la censura, prende sotto il suo diretto controllo l'industria cinematografica, riducendo le compagnie majors alle sole Shochiku e Toho, affiancate nel 1942 da una terza compagnia "nazionale", la Dai Nihon Eiga ("Società cinematografica del Grande Giappone"). IL più importante autore del nazionalismo nipponico e’ Tomotaka Tasaka, autore di Gonin no sekko-hei ("I cinque soldati esploratori") (1937) La musica è sostanzialmente orchestrale e descrittiva, con trombe signal, archi di pedale e archi bassi ritmici, brevi soste liriche condotte dal flauto; i dialoghi e le urla si sovrappongono al commento sonoro: la musica è completamente al servizio delle immagini e difficilmente starebbe in piedi da sola. In un simile contesto, ostile all'espressione artistica personale, i maggiori autori dell'epoca tentano invece di conservare una relativa indipendenza, ripiegando su temi "innocui", quale le biografie di artisti o il repertorio kabuki. È il caso di Mizoguchi, con ("Storia di crisantemi tardivi") (1939) La musica di Shiro Kutai, è un misto tra tradizionale giapponese e orchestrazione classica. I toni sono decisamente drammatici. Nel pieno della guerra esordisce, con il film Sugata Sanshiro (1943), uno dei cineasti giapponesi più importanti del dopoguerra e il più conosciuto a livello internazionale, Akira Kurosawa. L'opera narra la vicenda di un mitico campione di Jūdō vissuto alla fine dell'Ottocento: il Sugata Sanshiro che dà il titolo all'opera.
  • 4. La prima opera di Kurosawa, anche se realizzata in tempo di guerra e quindi soggetta al rigido controllo della censura, è genuinamente autentica e personale. Lo stesso tema delle arti marziali (certo utile in chiave propagandistica per rinvigorire il patriottismo nazionale) è in realtà preso dall'autore da una sua personale passione (era campione e appassionato di kendo); egli inoltre ben conosceva la fatica e l'impegno degli allenamenti che aveva sostenuto quotidianamente nell'infanzia. L'evoluzione personale del protagonista è una tematica che sarà cara a Kurosawa per tutta la sua vita. La critica lo definisce un film ingenuo ma è bene considerare che si tratta di un regista alle prime armi che è riuscito comunque a costruire sulla vita di una gloria nazionale un film quasi intimista (che infatti fu amato dal pubblico ma non dai militari); il regista Yasujiro Ozu non permise tagli ulteriori. Tra epopea orchestrale, a tratti quasi bandistica (la famosa ingenuità), conduce il tema un sassofono soprano, suonato però alla maniera orientale, con glissandi e molto vibrato. Solista del tema del guerriero è la voce femminile, molto diversa però dalla dolcezza delle voci giapponesi, mentre la nostra cantante è molto vibrante, roca quanto basta, carnale, una specie di Mia Martini nipponica. Il tema principale della colonna sonora merita un ascolto attento; le musiche sono di Seichi Suzuki. Nei primi anni del dopoguerra l'industria cinematografica è fortemente segnata dall'influenza della politica. Il cinema subisce il controllo e la censura degli organi preposti dall'esercito di occupazione americano che proibiscono i film storici che diffondono lo «spirito feudale». Gli americani promuovono i film antimilitaristi, come "La guerra e la pace",1947 di Fumio Kamei. Anche qui musicalmente parlando, siamo di fronte a sonorizzazione che descrive le immagini: non vi è un tema vero e proprio ma la musica descrive alla lettera ogni movimento e connota la situazione attraverso i suoni. A partire dalla fine degli anni quaranta, tornano alla ribalta i cineasti che avevano esordito negli anni venti, nell'epoca del muto, ed erano stati protagonisti del cinema anteguerra, e si affermano nuovi autori, quali Keisuke Kinoshita, regista del primo film a colori giapponese, "Carmen ritorna al paese" 1951, Kon Ichikawa e soprattutto Akira Kurosawa. Da assolutamente farvi sentire è questo breve estratto tratto dal film “La donna che amo” di Kinoshita, dove si sente una nota canzone italiana suonata con l’armonica a bocca mentre la giovane si trucca allo specchio: “Sul mare luccica l’astro d’argento”. Gli anni cinquanta rappresentano il periodo più glorioso della storia del cinema giapponese, una nuova «età d'oro» dopo quella degli anni del muto, sia dal punto di vista quantitativo che qualitativo.
  • 5. Grazie alla ricostituzione del sistema delle majors e alla concorrenza ancora debole della televisione, la produzione cresce ininterrottamente per oltre un decennio. All'interno di una così ampia produzione commerciale, articolata nei più diversi generi popolari, spiccano le vette artistiche di autori quali Kurosawa, che non conquistano il box- office ma offrono prestigio alle case di produzione che danno loro libertà di espressione, e i cui film, presentati con successo nei maggiori festival cinematografici europei, fanno scoprire il cinema giapponese al pubblico occidentale. Ad aprire una stagione di grandi capolavori è Rashōmon (1950) di Akira Kurosawa, un'opera atipica molto moderna, poco compresa dalla sua stessa casa di produzione, che riesce a vincere il Leone d'oro alla Mostra del cinema di Venezia e l'Oscar per il miglior film straniero. Rashomon lett. "La porta nelle mura difensive" è un film del 1950 diretto da Akira Kurosawa. Il film è una imponente parabola sulla relatività e sulle mille sfaccettature della verità. In una giornata di pioggia incessante, un boscaiolo, un monaco e un passante si fermano a parlare di un fatto increscioso avvenuto qualche tempo prima. Si tratta dell'uccisione di un samurai, avvenuta per mano di un brigante che avrebbe anche abusato della moglie di lui. La storia viene raccontata da quattro testimoni ma la verità ha diverse versioni. La storia è raccontata per flashback, a mano a mano che i quattro personaggi — il bandito , la moglie del samurai , la vittima e il boscaiolo senza nome— narrano gli eventi. Girato nella foresta vergine di Nara nei dintorni di Kyōto con un budget bassissimo, il film venne messo in circolazione in Giappone il 25 agosto 1950, contro il parere dei dirigenti della Daiei Motion Picture Company, la casa produttrice, che non ritennero meritevole il film. Grazie all'interessamento di Giuliana Stramigioli, docente di italiano presso l'Università degli Studi Stranieri di Tokyo e fondatrice della Italifim, Kurosawa riuscì ad inviare il film in Italia, dove venne presentato al Festival di Venezia, vincendo il Leone d'Oro al miglior film. Pochi mesi dopo il film vinse, ad honorem, anche un Premio Oscar come miglior film straniero. Si aprì così il successo internazionale per un film (e per un regista) che in patria aveva trovato poco apprezzamento. L'eccezionale successo del film stimola l’esportazione del cinema nipponico per la prima volta nella sua storia. Le case di produzione scelgono però di inviare ai festival europei quasi esclusivamente film storici in costume: convinti che i film d'ambientazione contemporanea non possano essere né capiti né tantomeno apprezzati dal pubblico occidentale, preferiscono soddisfare un superficiale gusto occidentale per l'esotismo.
  • 6. Kurosawa nel giro di pochi anni firma un altro capolavoro: Vivere (Ikiru) (1952), il suo miglior film di ambientazione contemporanea e il mio preferito. Il film esamina le sofferenze di un burocrate di Tokyo e la sua finale ricerca del senso delle vita E’ la storia di un impiegato che scopre di avere il cancro e decide di dare un senso agli ultimi mesi che gli restano da vivere: realizza il suo sogno, costruire un parco giochi. All'inaugurazione nessuno lo ricorda: lui che si era spento seduto su un'altalena del nuovo parco, felice di aver dato un senso alla sua vita, di essere riuscito a compiere il "miracolo". I colleghi, ubriachi, giurano di prendere esempio da lui. Le madri dei bambini pensano al loro benefattore. Il giorno dopo è tutto dimenticato. Un altro impiegato ha preso il suo posto in ufficio; non si parlerà mai più di Watanabe. La musica è inizialmente drammatica e grida giustizia. Ma si arrende subito dopo, attenua i toni e si rifugia nell’intimismo, come a significare che i sogni contano per chi li fa e che il senso della vita appartiene solo a ciascuno di noi. In realtà, in questo film, i temi musicali sono due: uno è drammatico, tragico direi, trombe tematiche dolorose (con ottoni in imitazione, il contrappunto è percepito come serietà), l’altro è dolce, trasognato, con violino concertante e accompagnamento d’arpa, non mancano puntillismi di vibrafono. Si tratta (ma lo scopriremo a metà del film) di una vecchia canzone giapponese tradizionale “La vita è così breve”. I due temi si alternano anche in maniera ravvicinata in un momento interessante, quando cioè Watanabe si lascia andare ai ricordi di padre: il tema dolce accompagna le sequenze di una gara sportiva del figlio di Watanabe, poi sopraggiunge il tema drammatico mentre Watanabe accompagna la barella di suo figlio (che deve operarsi di appendicite); infine risentiamo il suono del tema dolce quando Watanabe saluta suo figlio che parte militare, è come se lo spingesse a vivere la sua vita, ora che è diventato un uomo. Il tema dolce lo risentiamo in un altro momento “chiave” del film: Watanabe torna al lavoro, e dà il via alla realizzazione del parco per bambini, che le donne da molto tempo cercano di portare avanti senza successo, assorbite nel buco nero della burocrazia kafkiana: da notare che quando le donne rimbalzano da un ufficio all’altro, la musica accompagna con orchestrazione di sottofondo che eseguono delle progressioni arrotate su se stesse, senza soluzione di continuità, rotte solo dal grido isterico di una delle donne che è stanca di girare uffici senza soluzione. Il tema torna quando Watanabe vede il parco davvero disastrato: la situazione è di estremo degrado e piove a dirotto, ma la musica qui è il simbolo della speranza di Watanabe e della nuova illuminazione della sua esistenza. Lo stesso tema sonorizza anche quando Watanabe attende inchinato accanto ad uno dei funzionari che sta lavorando, affinché mandi avanti la pratica; una vera e propria “tecnica della goccia” orientale..Anche qui la situazione è umiliante, ma la musica simboleggia un’idea positiva. Watanabe riscopre la tenerezza di un tramonto; il tema dolce lo accompagna. Nel corso del film fanno capolino altri temi musicali, decisamente minori, forse chiamarli tema è anche troppo; si tratta di sonorizzazioni tipiche, ad esempio il vibrafono (poi arpa e anche successivamente pianoforte) che suona solo due note contigue nei momenti di attesa, un clichè musicale molto usato nel cinema. Le stesse note vuote, tristi, in attesa, le
  • 7. sentiamo quando un collega (l’unico che ravveda gli altri al funerale, e che abbia davvero capito la grandezza di Watanabe) vede l’uomo che a malapena si regge in piedi ma che continua a lavorare. Non mancano momenti di musica in: rumori di scena amplificati per darci un’idea di smarrimento e di gran confusione (quando Watanabe si dà alla vita notturna); credo che quando Watanabe canta, accompagnato nel pianoforte in un locale, sia il momento di musica in più lungo nella storia del cinema non musicale. Anche il tema tragico ritorna a farsi ascoltare; al funerale sopraggiunge un vigile urbano che omaggia Watanabe. Racconta ai parenti che aveva trovato lui l’uomo nel parco, e di averlo scambiato per un ubriacone, l’ultima sera prima che il poveretto morisse proprio sull’altalena del parco. La musica torna a farsi scura, grottesca, come se nulla fosse accaduto, con il ghigno del fagotto concentrate e le progressioni, proprio perché descrive i colleghi di Watanabe che dirottano nei vari uffici gli sprovveduti cittadini. Udiamo il tema dolce alla fine del film, con grande valore di contrapposizione verso il precendente: il figlio di Watanabe vede i bambini felici che giocano nel parco. I sette samurai (1954), un grande successo internazionale, malgrado la lavorazione travagliata e i pesanti tagli della produzione. La musica è assolutamente descrittiva, epica, come ci si aspetta. Sovrani indiscussi, le percussioni e gli ottoni. Quando Antonioni vide il film per la prima volta disse che ogni immagine recava l’impronta di un genio.
  • 8. Un altro genere tradizionale è quello del film di fantasmi, l'obake-mono, mentre un'importante novità di questi anni è il film di mostri, ilkaiju eiga, il cui fortunato capostipite è Godzilla (1954), diretto da Ishirō Honda e prodotto dalla Toho, che unisce le paure della guerra fredda all'ispirazione di un classico come King Kong. Come si addice alla miglior tradizione americana, la musica è pressoché sonorizzazione descrittiva, violenta, e colora tutto il film, dialoghi compresi. Le musiche sono di Masaru Sato. A partire dal 1958, la Toei comincia a dedicarsi sistematicamente anche al cinema di animazione, destinato a diventare nel giro di pochi anni, grazie al legame con l'importante mercato dei manga e con la consistente produzione seriale per la televisione, una parte preponderante dell'industria cinematografica nazionale. Il fenomeno mondiale della nouvelle vague coinvolge anche il cinema giapponese, fra la fine degli anni cinquanta e l'inizio degli anni sessanta. Tra gli autori che animano il «nuovo cinema giapponese» vi è Oshima, che raggiunge il successo con il successivo Racconto crudele della giovinezza (Seishun zankoku monogatari) (1960), radicalmente nuovo per scrittura, stile, montaggio. Il regista attacca frontalmente la società giapponese contemporanea nei suoi diversi aspetti, rivelando anche un eccezionale eclettismo formale. La musica non rinuncia all’orchestra ma vi si stacca progressivamente, mostrando tratti occidentali, brass jazzistici e percussioni. Le majors volgarizzano e sfruttano commercialmente i contenuti provocatori dei film d'autore della nouvelle vague, producendo film a basso costo, pieni di sesso e violenza (che la rivale televisione non può offrire), una politica commerciale che sul breve periodo si dimostra redditizia, ma che non può salvare un sistema in piena decadenza e che sul lungo periodo risulta anzi dannosa, disaffezionando e disabituando il pubblico al cinema di qualità.
  • 9. A metà degli anni sessanta sono lanciati i "film rosa” linea erotica. In un simile contesto, perfino un autore della statura di Akira Kurosawa ha difficoltà a realizzare i propri film e nel 1969 fonda, insieme ad altri tre importanti cineasti, Ichikawa, Kinoshita e Kobayashi, la Yonki no kai ("Società dei quattro cavalieri"), la cui prima produzione è Dodès'ka- dèn (1970), diretto appunto da Kurosawa. Il film è un tale insuccesso da spingere il regista a tentare il suicidio. Lo sfondo è una baraccopoli della fine degli anni 50' della periferia di una metropoli giapponese, e vede come protagonisti diversi personaggi accomunati dall'essere dei disadattati, o comunque reietti o emarginati, intenti nel loro vivere quotidiano o alle prese con vicende personali. Volto a delineare dagli elementi più nobili ai più triviali dell'animo umano quando è segregato ai limiti della società, generando i colori del putrido e del sognante, il tutto ci è raccontato in un affresco dallo stile quasi onirico nel perfetto stile del Kurosawa degli anni 70'. Dodeskaden è il primo film a colori del grande regista, tratto da alcuni racconti di Shuguro Yamamoto. La musica è tipica anni 70, con vibrafono e sonorizzazione sintetica che conferisce al film quella visione onirica come era stato per i film felliniani. La musica del film è di Toru Takemitsu. I titoli di coda sono caratterizzati dal tema portante del film, un motivetto dolce, ingenuo, umile, semplice, per chitarra, poi per flauto (ne compare anche la versione più sonora con tromba) orchestrato con leggerezza, che ho da sempre nelle orecchie, non so perché, avevo visto il film molti anni fa prima di rivederlo in occasione del saggio, ma la sua musica d’esordio è per me conosciuta, probabilmente è stata usata come citazione in altre salse. Da notare l’apertura con luccichio magico sul nome del regista che chiude la musica. Il tema sembrerebbe perfetto per il protagonista, un timido giovanotto che vediamo subito nella prima scena; sua madre sta pregando con veemenza, sbatte dei bastoncini e intona una forte monodia polarizzata, snervante che si interrompe quando il giovane si inginocchia vistosamente e prega il Budda, con voce calma. Per tutto il film sono presenti rumori di scena della città che si sentono anche fuori campo, proprio per dare connotazione temporale e logistica alle scene della pellicola. Il ragazzo esce per andare al lavoro, mentre la madre si rimette a pregare e vede i disegni di suo figlio che ritraggono tutti un tram. La musica descrive la scena ma soprattutto, con il suo flauto e la sua arpa tematici, ci porta a comprendere che si tratta degli ingenui sogni di un
  • 10. bambino. Infatti il giovane non lavora: attraversa un cumulo di macerie e si ritrova solo, mima esattamente le azioni di un lavoro da operaio ferroviario, ma è solo, nel silenzio più assurdo. Il sonoro però rientra in un piccolo sprazzo con rumore di ferraglia, quando il ragazzo mima l’apertura di un vano per la manutenzione. Tutte le azioni successive saranno sonorizzate dai rumori di scena (senza scena) e dalla voce del protagonista che parte col suo tram fantasma, ripetendone il rumore ritmico in progressivo accelerando (DODESKADEN) mentre la musica si apre in tutta la sua bellezza, con il tema inizialmente per tromba sola e poi con orchestrazione (da notare il flauto concertante, simbolo dell’ingenuità del protagonista); il ragazzo si ferma e la musica rallenta fino ad arrestarsi, lasciando in coda solo il ghigno grottesco degli ottoni bassi. La musica ci lascia per molto tempo, facendoci assaporare momenti di autentica settima arte (da notare la ripresa soggettiva del bambino che guarda il padre, ma in realtà il bambino lo vediamo nello specchio), e così conosciamo a giudichiamo tutti i personaggi e le loro vicende, vediamo immagini simboliche come l’albero secco, simbolo di uno dei personaggi avvizziti della baraccopoli che ci vive accanto; la musica del tema principale torna per flauto concertante sulle immagini del protagonista che continua a vagare di notte, di giorno, con la pioggia, portando il suo fantomatico tram, su immagini del cielo che ricordano i quadri naturalistici di Okusai, nella loro accentuata connotazione simbolica e onirica. Il tema tornerà tutte le volte che il giovane si muove col tram, diventa ad un certo punto del film un intermezzo musicale anche perché le scene (intensissime, tra cui segnalo quella del vecchio con la ex moglie che dilaniano stoffe con le mani e il loro dialogo è il rumore del taglio, come il grido di anime lacerate e del loro legame distrutto) sono spesso prive di dialogo e sonorizzate solo con rumori di scena. Non mancano per tutta la pellicola, gustosissima, (non manca neppure il sacchetto che vola, in una sorta di “American beauty” ante litteram) massime di saggezza e riflessioni sul mondo occidentale, nonché le ragioni che hanno spinto molte scelte del popolo giapponese, ricette con cibo di fortuna, ripassi di storia dell’arte, che Kurosawa affida al “fiolosofo- architetto” della baraccopoli che dialoga con il suo figlioletto di sei anni. Durante la notte, il piccolo va da un uomo e sua moglie a prendere del cibo, un esempio di solidarietà da poveri: la musica qui è un tintinnare lento e cullante di vibrafono nel registro acuto che sta a simboleggiare sia il bambino sia la notte stellata. “Una casa si vede dal cancello, come una persona la si giudica dall’apparenza” “Il mondo occidentale è aggressivo, ecco perché vivono in case di cemento lontano dalla natura; il giapponese ama vivere a contatto con la natura, costruisce case di legno e ama la luce soffusa e timida”. “Un albero morto non è più un albero” E proprio mentre il padre sogna il suo cancello, la musica fa capolino sonorizzando come meglio non potrebbe fare ogni parola e visione dell’uomo, fin dal suo esordio con percussioni cristalline, che ci portano nella dimensione onirica. Nel silenzio assoluto è assorto il lavoro della giovane in ginocchio che crea fiori finti con la carta velina; cade a terra sfinita dal sonno, dalla fame e dalla fatica. Tre timidi rintocchi (sembrerebbero emessi da un triangolo) ci fanno comprendere che è sorto un nuovo giorno: la giovane Kazuko (emblematica traduzione di “stella del destino”) si sveglia e si rimette al lavoro senza un fiato, il padre e suo figlio mangiano cibo di fortuna.
  • 11. I suoni si fanno inquietanti e sintetici, brevi e con lunghe pause tra uno e l’altro, sonorità davvero sinistre, quando il figlio dell’architetto ha dolori lancinanti per la fame e gli stenti, il padre esce dalla macchina, forse nel tentativo di chiedere aiuto, ma ha lo sguardo perso, il cielo alle sue spalle è irreale, sembra di vedere “l’urlo di Munch”. Il bambino grida per l’ultima volta e muore, mentre suo padre, impotente, vaneggia della piscina della loro casa.. La musica ha un solo suono, lungo e grave di violoncello, interrotto bruscamente dal ghigno grottesco di ottoni (già sentito) sulla scena suturata successiva, che ritrae le lavandaie della baraccopoli. Il padre seppellisce le ceneri del figlio e l’immagine del piccolo sacchetto con la polvere grigia che spicca sul nero del terreno, si allarga fino a diventare una piscina, nella visione di suo padre ridotto alla pazzia. Sul fermo immagine della piscina udiamo un suono lungo e quasi solenne di trombe in accordo maggiore di terza, ma straniato dalla rielaborazione sintetica. E’ un trionfo solo onirico visionario. La vita prosegue per tutti i personaggi, senza una meta, tranne per il protagonista che ferma il suo tram al grido di Dodeskaden. Il film si richiude a cerchio: il tema portante, con introduzione di chitarra, si snoda in tutta la sua semplicità e bellezza (con ottavino concertante, accordi brevi di sostegno degli archi e contrappunto e luccichio di xilofono marimba e vibrafono) sulle immagini dei disegni del tram desiderato, appesi alle pareti e ai vetri della sua baracca, il giovane torna a casa atteso dalla madre devota. Nel corso degli anni settanta prosegue la profonda crisi economica dell'industria cinematografica iniziato nel decennio precedente. L'unico nuovo autore di rilievo emerso in questi anni è l'eclettico Shuji Terayama, scrittore, drammaturgo, pugile, regista di Sho o suteyo, machi e deyo ("Gettiamo i libri e scendiamo in strada") (1971) la cui musica è sostanzialmente rock, violenta e impietosa, tipica di quegli anni, proprio per accentuare il disagio giovanile, la ribellione, lo squallore. Le opere più notevoli degli anni ottanta sono realizzate da un monumento vivente del glorioso cinema giapponese del passato, Akira Kurosawa, e dal superstiti della nouvelle vague, Nagisa Oshima. Grazie all'interesse di Lucas, Spielberg e Coppola e ai capitali americani della Fox, Kurosawa può girare un film al di sopra dei limiti produttivi del cinema giapponese che rinnovano il suo successo mondiale. Nel 1983 Oshima realizza con grande successo un nuovo film scandalo, Furyo (Senjo no Merry Christmas), nel quale sesso e guerra sono intrecciati come mai prima. Magistrale l’interpretazione di David Bowie. Nasce il nuovo astro della musica, il giapponese Ruiki Sakamoto che lavorerà per molte produzioni cinematografiche a livello mondiale. Personalmente adoro il lavoro di questo compositore.
  • 12. I film giungono sempre più spesso nelle sale cinematografiche in lungometraggi e mediometraggi, si affermano alcuni registi capaci di fondare case di produzione autonome e interessate a sviluppare una poetica non commerciale, quando non esplicitamente undergruond. La tendenza delle varie stazioni televisive nipponiche a non trasmettere programmi, serie, cartoni animati, film-tv di origine straniera, tenne il mercato giapponese in una condizione di autoreferenzialità, dall'altro mantenne maestranze di ogni livello, attori, montatori, tecnici e una palestra per giovani registi. Negli anni 90 torna prepotentemente sulla scena del cinema mondiale Kurosawa con “Dreams”. Sogni è un film del 1990 diretto da Akira Kurosawa, composto da 8 episodi, basato sui concetti del realismo magico e di alcuni sogni del regista. Il film racconta, anche se non esplicitamente, la vita di Kurosawa e gli episodi rappresentano i vari periodi della sua vita, partendo dall'infanzia fino alla morte. Il film è stato prodotto grazie al contributo di Steven Spielberg e George Lucas. Le musiche sono di Shinichirô Ikebe. Non mancano nel lavoro dialoghi succulenti che esplicitano la filosofia, il pensiero di Kurosawa, una critica decisamente malcelata alla società, alla mancanza di rispetto per la natura e per l’arte, una critica feroce alla guerra ; alla luce degli ultimi tragici eventi che hanno colpito il Giappone, l’episodio del Fujihama in eruzione è tragicamente premonitore dell’incidente alla centrale nucleare di Fukushima, di cui l’incolpevole monte è solo un pretesto, dal momento che dall’eruzione fuoriescono radiazioni, Plutonio 239, Stronzio 90 e Cesio 137, rispettivamente portatori di cancro, leucemia e malformazioni gravissime per decenni. Un’eruzione vulcanica, per quanto devastante sia, non è foriera di tali danni a lungo termine su tutte le creature terrestri. Nei titoli di testa, possiamo sentire, in una sorta di Ouverture, molte caratteristiche compendiate che ritroveremo nei vari sogni: il flauto suonato nella particolarissima maniera giapponese, l’ottavino sognante o stridulo nella sua accezione drammatica, gli archi drammatici o sommessi con fasce, le parti sognanti di arpa e wind chimes, le piccole percussioni che ricordano il mondo dell’infanzia, i corni solenni ma composti, l’oboe lamentoso, i rintocchi profondi degli archi gravi. Per comodità ho titolato i vari sogni: sono piuttosto diversi da quelli che ho trovato nomenclati da alcuni critici. 1. le nozze delle volpi
  • 13. 2. il pescheto 3. la tormenta e la speranza 4. la follia della guerra 5. la sindrome di Stendhal 6. premonizioni 7. demoni 8. il villaggio dei mulini. 1. LE NOZZE DELLE VOLPI Un bambino decide di andare nel bosco perché si dice che, nelle giornate di pioggia con sole, le volpi celebrino nozze fastose in gran segreto. Il bambino è solo molto curioso, ma pagherà a caro prezzo la sua curiosità. La musica entra quando il bambino vede il corteo nuziale di volpi antropomorfe, accompagnate da una musica inquietante, almeno per un occidentale, tipica della tradizione antica nipponica: flauto stridulo che oscilla su semitoni, disegnando una melodia semplice per gradi contigui, il cui accompagnamento armonico oscilla su due intervalli di quarta; il tutto è scandito con solennità da percussioni di legno, metallo e pelli. La connotazione che vuole darne l’autore è quello di una musica IN anche se nessuno nel corteo sta suonando uno strumento. La musica di commento, vera e propria, entra alla fine dell’episodio: il bimbo ha in mano il coltello e si avvia nuovamente nel bosco.
  • 14. Le volpi sono state a casa del bambino e hanno lasciato a sua madre un coltello per uccidersi e pagare la sua colpa. La madre dice al bambino di andare subito ad implorare perdono: troverà le volpi sotto l’arcobaleno. Il brano, splendido, vede protagonisti un clarinetto (probabile timbro complesso con oboe) su ritmo di fagotto ostinato e archi gravi che sembrano ghignare sulle sorti del bambino, accompagnandolo in quello che potrebbe essere l’ultimo viaggio. Il tema del clarinetto mi ricorda un breve estratto del tema di Mussorgskij “Il vecchio castello”. Un meraviglioso arcobaleno si staglia sul prato: wind chimes, arpa, violini sognanti e apertura orchestrale dipingono letteralmente un bellissimo tema, ma sempre su pedale grave che mina esplicitamente i gesti e la luminosità del tema stesso. Il luccichio del wind chimes e l’apertura orchestrale rendono decisamente suggestivo il tripudio di colori, tra l’arcobaleno e i fiori variopinti che si stendono ai piedi del bambino come un tappeto iridescente. Sia l’azione cinematografica, sia la musica (che si ferma su una frase aperta) lasciano il sogno senza una conclusione. 2. IL PESCHETO Un bambino, in casa con sua sorella maggiore (e le amiche di lei, che festeggiano la festa delle bambole), vede una coetanea che in realtà non esiste, (in quanto è il simbolo del fiore di pesco), e la insegue: incontra gli spiriti del pescheto che è stato raso al suolo. Gli spiriti però comprendono che il bambino non solo non ha colpa dell’accaduto, ma è addolorato sinceramente per la distruzione del pescheto; gli spiriti fanno riapparire il pescheto fiorito per lui, con un’ultima danza, prima di scomparire per sempre. La musica fa capolino con un ottavino stridulo e sibilante, che potremmo definire signal, sull’immagine delle bambole, in camera della sorella. Le bambole sono identiche
  • 15. agli spiriti del pescheto; il signal è premonitore, in quanto subito dopo, al protagonista appare la bambina. La bambina fantasma, vestita di rosa, è nella stessa posizione in cui si trova un ramo rosa di pesco, posto in un vaso in fondo alla stanza. Anche la bambina ha un suo signal sonoro, i sonagli. Il protagonista insegue la bambina che sta scappando: ogni suo movimento è connotato dal suono dei sonagli. Gli spiriti del pescheto invece sono inizialmente connotati anche qui da musica in e poi di commento. La musica in è tipica giapponese, con ottavino, shamisen, percussioni di legno e di pelle ed è in crescendo sia dal punto di vista compositivo sia timbrico. Quando il pescheto è riapparso in tutto il suo splendore, entra l’organo, con un tema occidentale, lieto. pur nella sua solennità, quasi a sancire la sacralità dell’evento. Musica di commento. Nella seconda ripresa del tema, la melodia principale è raddoppiata dagli archi e sentiamo anche lanci d’arpa, xilofono e sonagli, proprio perché ricompare sulla scena la bambina. Il tema festoso si interrompe bruscamente su un accordo diminuito lacerante: il pescheto e la bimba sono scomparsi, al suo posto giacciono i monconi tagliati dei peschi. Il tema che sonorizza la scena sembra un’opera orchestrale sinfonica del romanticismo europeo, ma non saprei dirvi se si tratta di un’opera di pubblico dominio e me ne scuso: esordisce un oboe malinconico, che suona in successione le note facenti parte di due triadi minori, distanti tra loro un intervallo di quarta. Ai timbri orchestrale consueti, si uniscono i sonagli, in sincrono con l’immagine dell’unico cespuglio di pesco fiorito, che oscilla solitario al vento. 3. LA TORMENTA E LA SPERANZA Quattro uomini arrancano faticosamente sulle montagne, devastate da una tormenta di neve.
  • 16. Nella prima parte del girato, non si può parlare realmente di musica, in quanto siamo di fronte a rumori di scena: il respiro affannoso degli uomini, gli appelli accorati del capo-cordata, che tenta di spronare i suoi compagni, il sibilo violento del vento, il rombo cupo della montagna sconquassata dalla tormenta, sono i veri protagonisti sonori della sequenza. Non dubito che ci siano anche dei suoni sintetici, dal momento che ho sentito sinth simili in programmi d’effetti sonori come “Atmosphere”. Dopo aver tentato invano di svegliare i compagni, il capo cordata si accascia a terra: i rumori, lasciano spazio alla voce di soprano solo, che arriva da lontano, sull’immagine dell’uomo ormai in fin di vita. Il canto è dolcissimo, lo culla, e poco dopo vediamo accanto al protagonista una donna, detta yuki-onna ("donna delle nevi"), creatura soprannaturale del folclore giapponese. Il canto è evidentemente la connotazione sonora del nuovo personaggio. La donna copre l’uomo con un caldo scialle di lana con tante frange argentee, l’uomo si sveglia, ritrova la speranza; il manto della donna vola via e anche lei si dissolve completamente. La tormenta irrompe con i suoi rumori sinistri e violenti, il canto si spezza. Finalmente la tormenta è finita: sulla ripresa del cielo azzurro e delle cime innevate, sentiamo una sorta di tema neoclassico viennese, suonato dai corni in contrappunto (canto gemello) in terze, mentre si muovono su intervalli di quarte e quinte, caratteristici movimenti intervallari dei corni naturali; un tema allegro, molto usato per sonorizzare le montagne, se non fosse per il flauto che si unisce al tema, raddoppiato anche dagli archi, (che ne fanno anche una seconda frase di risposta alla prima solenne dei corni), e accompagnato da pizzicati sonori di violoncelli e contrabbassi. La musica di commento è un tripudio di speranza, dal momento che tutti gli uomini sono ancora vivi e hanno trovato il campo. 4. LA FOLLIA DELLA GUERRA Un soldato cammina verso una galleria e viene accolto prima dai guaiti fuori scena di un cane, poi dai suoi nervosi latrati dal vivo, dopo che la bestia esce dal tunnel e gli si para davanti minacciosa. L’uomo è l’unico sopravvissuto di una battaglia persa e dopo aver attraversato il tunnel vede arrivare prima un suo sottoposto (che era morto poco prima tra le sue braccia in battaglia, mentre vaneggiava di un sogno) e poi l’intero battaglione sterminato.
  • 17. L’uomo comprende la follia della guerra che ha prodotto tanta morte, si inchina colpevole a chiedere perdono e prega i suoi compagni di farsi una ragione del fatto che sono tutti morti (hanno un volto bluastro inquietante) e devono tornare dall’altra parte del tunnel, accettando la loro condizione. Se associassimo il cane alla fedeltà, allora il capitano ha tradito la fedeltà dei suoi uomini, portandoli alla morte, anche se suo malgrado, data la follia della guerra. La scelta musicale è tutta incentrata sui rumori di scena: i latrati del cane, i passi che rimbombano nel tunnel, lo scalpiccio degli stivali che affondano nel fango, i passi inquietanti del battaglione che arriva imponente al cospetto dell’uomo. L’unico strumento musicale che possiamo sentire è la tromba: inizialmente lo strumento, tipico delle scene militari, lo sentiamo in lontananza, coperto dai passi del battaglione che torna aldilà del tunnel; successivamente diventa padrone della scena, con un suono molto riverberato, (credo si tratti di un’alterazione sintetica), infine svanisce tra i passi del battaglione, giunto aldilà del tunnel. Il girato si richiude a cerchio e il cane tornerà a minacciare l’uomo. La follia della guerra tornerà sempre a tormentarlo. 5. LA SINDROME DI STENDHAL Un uomo guarda in silenzio estasiato i quadri di Van Gogh esposti in una galleria d’arte. Fermatosi davanti al quadro “Il ponte di Langlois” l’opera si animae ritroviamo il ragazzo che chiede informazioni alle donne su dove possa trovare Van Gogh. La colonna sonora è musica di commento di pubblico dominio, esattamente il preludio numero 15 in re bemolle maggiore di Chopin. Tra le opere di Van Gogh (dentro le quali il protagonista insegue il pittore) e la musica di Chopin, Kurosawa crea un vero capolavoro di unione delle arti. Il celeberrimo brano chopiniano si compone di un iniziale tema dolce, spensierato, che accompagna il protagonista fin da quando si trova nel quadro del ponte, ma anche di una parte estremamente drammatica, basata sulla ripetizione ostinata di una stessa nota (molti infatti conoscono il brano come “la pioggia” proprio per l’insistenza di tale nota) a cui si aggiungono ottave alla mano sinistra, molto sonore e che ci fanno sprofondare nella drammaticità più assoluta.
  • 18. Il sogno è montato proprio sulla musica. La parte iniziale dolce si ferma non appena il giovane incontra il suo idolo che sta creando in un campo di grano. Il monologo di Van Gogh è un raro esempio di come si possa creare un’opera d’arte e della sua peculiare poetica pittorica. “Come in un sogno, il paesaggio si dipinge da solo, per me; io mi nutro di questo scenario naturale, lo divoro tutto, totalmente; e quando ho finito, il quadro è davanti a me completo; dopodichè ho dentro di me il vuoto assoluto”. ”E poi che cosa fate?” domanda il giovane “E poi lavoro, da schiavo, e mi guido come una locomotiva” Qui entra prepotentemente la parte pianistica con ottave forti, mentre Kurosawa mischia sapientemente le immagini dell’artista con quelle di una locomotiva (sembrerebbe un omaggio al cinema, il cui simbolo è la locomotiva del fratelli Lumiere). La musica riempie tutta la scena: il tarlo della creazione è identico al ribattuto insistente della nota ostinata nel registro medio. Van Gogh abbandona il giovane, dicendo che il suo lavoro dipende dal sole e non ha tempo da perdere: sul campo lungo del giovane rimasto solo, sentiamo il fischio della locomotiva fuori campo, perché l’artista è … “partito”. Il giovane insegue Van Gogh, camminando tra le sue creazioni pittoriche, che diventano lo scenario della sua solitudine e della sua ricerca. La musica, in questa lunga ricerca, è la parte drammatica del brano di Chopin, con nota ribattuta e ottave forti. La musica si ferma quando il giovane si trova nel campo di grano sorvolato dai corvi neri. Solo il loro verso inquietante e foriero di sventura possiamo ascoltare e, subito dopo, il rumore fuori campo del fischio della locomotiva accompagna il fermo immagine in primissimo piano del quadro. Su questo rumore il giovane si ritrova fermo nella galleria d’arte, davanti al quadro dei corvi; dopo un debole suono sintetico, che riporta il protagonista alla realtà, il giovane si sveglia e si toglie il cappello in segno di rispetto. 6. PREMONIZIONI
  • 19. Il Fujiyama o Monte Fuji è un vulcano alto 3.776 m ed è la montagna più alta del Giappone. Con la sua cima innevata per dieci mesi all'anno, è uno dei simboli del Giappone, tanto che è considerato uno delle montagne sacre del Paese. Nel sogno che segue, il monte sta eruttando. Grida di spavento delle masse in fuga, rombi di tuono, sirene, ci catapultano in un Giappone sconvolto dall’eruzione, ma scopriremo presto che non è il vulcano il colpevole di tanta sciagura, ma solo una metafora dell’ energia nucleare e delle sue pericolosissime centrali presenti sul territorio. La colonna sonora è basata sostanzialmente su suoni sintetici (primo piano del vulcano in eruzione; arrivano i venti di Plutonio 239, Stronzio 90 e Cesio 137; la famiglia è investita dalla radioattività) e momenti di dialogo o di rumori di scena. Non mi dilungo sulla colonna sonora, perché qui ha davvero solo un ruolo solo di sfondo. Al regista interessa la discussione ecologica e politica. E tragicamente premonitrice. 7. I DEMONI
  • 20. Anche qui la colonna sonora è solo sfondo, tra rumori di scena (sibilo del vento, passi..) e qualche accenno di sinth. E’ pregnante invece il dialogo tra l’alter ego di Kurosawa (il giovane già protagonista dei quadri precedenti) e una creatura umanoide sopravvissuta al disastro-nucleare. Il sogno è davvero inquietante, non tanto per le creature mostruose, cornute e deformi che popolano la terra, ridotta a sterile terreno lunare, ma per le grandi verità che il regista mette in bocca al demone unicorno: la gerarchia c’è anche tra demoni, il potere è sempre nelle stesse mani. Tra atroci dolori e sofferenze dovute alle malformazioni, i demoni bicorni e tricorni, che detengono il potere, continuano a sopravvivere cibandosi dei loro stessi simili; la loro punizione è l’immortalità. Kurosawa non perde occasione per farci sapere come la pensi sullo spreco e la distruzione di derrate alimentari, per mantenere stupidi equilibri economici e politici. 8. IL VILLAGGIO DEI MULINI
  • 21. Anche questo sogno è una dissertazione filosofica, ecologica e politica del regista. La musica ha però un ruolo molto importante: pur non mancando evidentemente momenti di colonna sonora rumoristica (passi, rumore del ruscello, le pale che si adagiano sull’acqua) la musica in del funerale, prima udita fuori campo, poi suonata da una banda, ci proiettano al primo sogno, alla parata del matrimonio delle volpi. E’ come se il regista volesse iniziare con la vita, simboleggiata dal matrimonio e dal bimbo, e finire con la morte, il funerale inteso bilateralmente, ovvero quello dell’anziana donna effettivamente defunta e celebrata, ma anche dell’anonimo personaggio sulla cui lapide ignota tutti pongono fiori, come da tradizione (forse una metafora del regista stesso). La banda è molto ritmica, con gli strumenti tipici a fiato, ma anche con percussioni insolite, tipiche però orientali, come i sonagli (suonati dal vecchio centenario che amava la donna defunta, e suona proprio i sonagli, ancora simbolo di una figura femminile come era già stato per la bambina del pescheto); si aggiungono le voci, un coro misto declamato più che cantato, da voci bianche, uomini e donne, mentre il tema principale, molto semplice, in minore, è condotto dai flauti e dagli ottavini. Da notare che gli accordi armonici di riferimento sono una tonica minore, la sua quarta (sempre minore) e una dominante senza alterazioni. La musica in termina improvvisamente lasciando echeggiare il suono dei sonagli; come già successo, alla musica in si contrappone ancora una volta la musica di commento: alla fine del girato, il protagonista (sempre lo stesso uomo) oltrepassa il ponte sul fiume, dopo aver riposto un fiore sulla lapide dell’ignoto defunto. Il commento musicale è sommesso e riflessivo, condotto dall’oboe e dagli archi, e senza soluzione di continuità ecco i titoli di coda: è ripreso il fiume, tutto scorre, panta rei; le piante acquatiche seguono il ritmo della corrente fluttuando sull’acqua.
  • 22. Solo una vita nella natura, e non contrapposta ad essa, può generare felicità senza tempo. La celebre compositrice italiana, Sonia Bo, ha scritto musiche originali di vero impatto, dedicate al film. Akira Kurosawa muore nel 1998. L'ultimo grande veterano del cinema giapponese decade dopo più di cinquant'anni di attività e trenta pellicole. Fondamentale nel decennio è il cinema d'animazione, anche detto anime, che dona grande rinomanza e numerosi premi ai suoi autori. Primo tra tutti Hayao Miyazaki. Veterano del cinema d'animazione e co-fondatore del celebre Studio Ghibli, realizza alcuni dei capolavori del cinema d'animazione di tutti i tempi, tra i quali La città incantata (2001), Il castello errante di Howl (2004) con la sua musica, un walzer travolgente, e il più spensierato Ponyo sulla scogliera (2008). LA CITTA’ INCANTATA Musiche Joe Hisaishi, Youmi Kimura IL CASTELLO ERRANTE DI HOWL Musiche Joe Hisaishi PONYO SULLA SCOGLIERA Musiche Joe Hisaishi