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APPENDICE 2
LA CRITICA INCLUSIVA
ALL’INTEGRAZIONE
SCOLASTICA ITALIANA
SECONDO IL MODELLO
SOCIALE DELLA DISABILITA’ ED
ALCUNE DIFFERENTI
PROSPETTIVE INTERPRETATIVE
Dal periodo dell’entrata in vigore dell’autonomia scolastica
(D.P.R. n. 275/1999) il termine inclusione, proveniente dal
mondo anglosassone, ha cominciato a circolare e a diffondersi
sempre di più anche in Italia. Numerose sono state le
pubblicazioni che si sono occupate di inclusione ed in anche
ambito scolastico questo vocabolo ha preso sempre più piede,
sostituendosi in molte occasioni alla parola integrazione. I due
termini - integrazione e inclusione - sono persino comparsi
insieme in modo perfettamente compatibile, come in alcuni
documenti ufficiali. Tra questi spiccano le Linee guida per
l’integrazione scolastica degli alunni con disabilità (2009) del
Ministero dell’Istruzione, dell’Università, della Ricerca, che nel
titolo hanno impiegato il termine integrazione e poi nella III parte
del documento hanno esplicitato l’intento di approfondire -
cambiando l’espressione - la dimensione inclusiva della scuola.
Addirittura, parlando di leadership educativa e
cultura dell’integrazione, nelle Linee guida i due
termini sono appaiati, viene infatti esplicitato che
l’integrazione/inclusione scolastica è (al singolare!)
un valore fondativo61 e, poco dopo, nel paragrafo
dedicato alla Programmazione, viene affermato che
si è integrati/inclusi in un contesto […] quando si
effettuano esperienze e si attivano apprendimenti
insieme agli altri, quando si condividono obiettivi e
strategie di lavoro e non quando si vive, si lavora, si
siede gli uni accanto agli altrI. Dunque il termine
integrazione e la parola inclusione sono sinonimi?
Sono equivalenti?
Offrire una risposta in poche righe non è cosa facile e
semplice. Il termine inclusione, in effetti, non è
comunemente usato a livello internazionale prima degli
anni Novanta del secolo scorso e presenta diverse
interpretazioni a seconda degli ambiti di ricerca
(pedagogico, sociologico, politico) ed a seconda della
logica che sta alla base del suo utilizzo. Riferendosi al
caso italiano ed assumendo come punto di vista il
modello sociale della disabilità, è possibile individuare
almeno tre posizioni riferite all’inclusione Una prima
posizione nei primi anni XXI secolo può essere definita di
“compromesso” ed ha considerato il termine inclusione
inadeguato per il sistema educativo italiano, tanto che è
stato mantenuto il termine integrazione.
Una seconda posizione negli anni immediatamente
seguenti (metà del primo decennio del duemila) ha
scelto di utilizzare il termine inclusione anche se
considerato fondamentalmente un “inglesismo” e
quindi un sinonimo di integrazione. In sostanza si
pensava che il termine inclusione, seppur utilizzato,
non aggiungeva nulla che non era già presente in
quello di integrazione, però in questo modo si poteva
mantenere viva l’eredità della politica italiana
dall’integrazione scolastica senza essere tagliati
fuori dal confronto internazionale.
Come evoluzione di questa posizione c’è stata anche quella che ha
portato ad interpretare il concetto di inclusione come una forma di
“integrazione più ampia”, che concerneva non soltanto gli alunni
disabili, ma anche gli alunni stranieri, gli svantaggiati dal punto di vista
economico sociale e in generale tutti quegli alunni che avevano
difficoltà ad accedere al normale curricolo scolastico. , temporalmente
in modo parallelo, si è assistito allo sviluppo di una terza posizione, che
si può definire “radicale”, nella quale sono state presentate una serie di
riflessioni sul sistema italiano in linea con il lavoro svolto dagli attivisti
disabili del modello sociale della disabilità (Barton e Oliver), dei
sociologi dell’educazione (Armstrong, Barton, Tomlinson, Slee, Allan) e
dei riformisti del sistema educativo (Ainscow, Booth) soprattutto
appartenenti al mondo accademico anglosassone. In questo caso il
concetto di inclusione non aveva nulla a che fare con l’inclusione degli
alunni definiti come “vulnerabili” o con bisogni educativi speciali della
precedente posizione e, se ciò avveniva, voleva dire che ci si stava
muovendo ancora in una logica che era quella dell’integrazione
scolastica, non in quella di inclusione.
No a caso la posizione “radicale” si è opposta ad una visione
che considerava l’inclusione come un sinonimo di integrazione
scolastica, tanto da problematizzare fortemente la politica e le
pratiche dell’integrazione scolastica. Proprio quest’ultima
posizione, sorta alla luce del modello sociale della disabilità, è
qui di seguito approfondita e presentata. L’inclusione secondo il
modello sociale della disabilità All’interno del modello sociale
della disabilità la questione cruciale non è la condizione di
bisogno del soggetto, quanto l’inadeguatezza, soprattutto
culturale e organizzativa, delle strutture, dei percorsi e delle
relazioni educative e formative che generano esclusione e
sradicamento identitario: l’essere disabitato come conseguenza
della disabilità67.
Di conseguenza la logica dei bisogni educativi speciali,
che assume il concetto di “distanza dalla norma” e di
deficit come riferimento teorico, è proprio ciò che
bisogna evitare con l’inclusione. La prospettiva inclusiva
espressa in Italia secondo l’approccio del modello
sociale della disabilità, che vede tra i suoi esponenti più
rappresentativi Roberto Medeghini, Walter Fornasa e
Simona D’Alessio, critica fortemente l’integrazione
scolastica proprio in quanto legata alla
concettualizzazione dei bisogni educativi speciali riferiti
solo a “qualcuno” appartenente ad una presunta
categoria (ad esempio le persone disabili), mentre nella
propria individualità ciascuno è portatore ed esprime
“bisogni speciali”.
Siccome non esistono persone “normali” e
“anormali” in quanto la normalità è la condizione del
quotidiano di ciascuno è importante non porre
l’attenzione solo su “qualche particolare alunno”,
circoscrivendo e accentuando il riferimento alla
categoria dei bisogni educativi speciali, ma attuare
un’ampia riflessione riguardante i bisogni formativi di
“tutti” ed attivare un processo di cambiamento
complessivo dell’organizzazione e dei processi di
insegnamento e di apprendimento, non riducendosi
ad attuare solo forme di razionalizzazione del
sistema scolastico e di organizzazione di risorse.
Secondo l’approccio del modello sociale della disabilità,
con l’integrazione e l’inclusione sono in scena due
paradigmi completamente diversi. Roberto Medeghini
sottolinea che il primo (integrazione) ha come riferimento
principale l’area dei bisogni educativi speciali e le forme
di caratterizzazione del sistema scolastico (risorse,
procedure, strutture), il secondo (inclusione), assumendo
come fondamentale il concetto non deficitario di
“differenze”, rivolge la sua attenzione a tutti coloro che
partecipano alla vita istituzionale scolastica e sociale,
alle relazione fra processi sociali ed educativo-formtivi, ai
processi e alle barriere all’apprendimento e alla
partecipazione che determinano esclusione o
emarginazione del percorso educativo e formativo.
Per i fautori dell’inclusione, quindi, i due termini - integrazione e
inclusione - da un punto di vista concettuale devono essere
chiaramente distinguibili e scindibili. Il concetto di integrazione
scolastica, secondo la prospettiva “radicale”, si collega alla
Legge n.104/1992, che ha cercato di superare le
settorializzazioni assistenziali e puramente socializzanti degli
interventi degli anni Settanta guidati dalla prospettiva
dell’inserimento. L’obiettivo dell’integrazione è stato lo sviluppo
delle potenzialità della persona disabile nell’apprendimento,
nella comunicazione, nelle relazioni e nella socializzazione,
anche valorizzando il concetto di contitolarità dell’insegnante di
sostegno, ma il riferimento è rimasto il “bisogno” prodotto da una
condizione deficitaria.
Addirittura, parlando di leadership educativa e
cultura dell’integrazione, nelle Linee guida i due
termini sono appaiati, viene infatti esplicitato che
l’integrazione/inclusione scolastica è (al singolare!)
un valore fondativo61 e, poco dopo, nel paragrafo
dedicato alla Programmazione, viene affermato che
si è integrati/inclusi in un contesto […] quando si
effettuano esperienze e si attivano apprendimenti
insieme agli altri, quando si condividono obiettivi e
strategie di lavoro e non quando si vive, si lavora, si
siede gli uni accanto agli altrI. Dunque il termine
integrazione e la parola inclusione sono sinonimi?
Sono equivalenti?
A parere degli esponenti dell’inclusione “radicale”,
essa assumeva alcuni principi dell’integrazione, ma li
ampliava fino a comprendere il suo legame con il
tema dell’organizzazione scolastica, della
cittadinanza e con altre questioni connesse al
problema dell’esclusione e della giustizia sociale. Da
questo punto di vista l’inclusione rappresentava il
tentativo di saldare fra loro i vari processi formativi e
scolastici, quelli sociali e delle politiche relative ai
servizi. L’inclusione scolastica, quindi, assumeva
una nuova prospettiva in quanto veniva vista e
analizzata come parte di un più ampio intervento di
inclusione sociale.
Proprio la natura sociale dell’inclusione richiedeva non
solo un passaggio rispetto al cosa, ma anche al chi.
Infatti se l’integrazione aveva come riferimento principale
i “bisogni” delle persone disabili o i “bisogni speciali”,
l’inclusione all’opposto rivolgeva la sua attenzione a tutti
coloro che partecipano alla vita istituzionale e sociale. Ed
era questa caratteristica, che aveva una ricaduta sui
contesti scolastici, a segnare la differenza fra l’inclusione
e l’approccio dell’integrazione. In effetti l’inclusione non si
limitava agli alunni disabili oppure agli alunni riconosciuti
con “bisogni educativi speciali”, ma prendeva in carico
l’insieme delle differenze, comprendendo tutti gli alunni di
una scuola.
Dato che l’integrazione ha assunto un ruolo
sempre più conservatore ed ha perso
progressivamente la spinta innovativa iniziale,
la conseguenza è stata un’accentuata difficoltà
a trovare risposte adeguate non solo all’imporsi
delle differenze personali, ma anche alla
richiesta di una loro lettura non deficitaria in
grado di mettere in primo piano il ruolo dei
contesti e in discussione la delega della loro
gestione alle figure specializzate (come
l’insegnante di sostegno ed il personale dei
servizi sanitari).
Per questi motivi oggi, secondo Roberto Medeghini, si
impone un ripensamento dei presupposti sui quali si
sono costruite sino ad ora le esperienze di integrazione
La prospettiva inclusiva, nella cornice del modello sociale
della disabilità, rappresenta secondo i suoi fautori una
svolta innovativa, in quanto non assume l’idea di
adattamento e di normalizzazione, e sposta il punto di
vista prendendo in esame il ruolo dei contesti e delle
istituzioni scolastiche nella costruzione e/o
nell’accentuazione e/o nella prevenzione delle condizioni
disabilitanti per gli alunni e gli studenti. Sposta cioè
l’attenzione sulle barriere alla partecipazione e
all’apprendimento di tutti, disabili e non.
L’inclusione, quindi, è un processo di cambiamento
del sistema educativo al fine di contribuire alla
costruzione di una società più inclusiva. In
particolare l’educazione inclusiva mira a garantire la
partecipazione di tutti gli alunni nel processo di
apprendimento in quanto persone e non perché
appartenenti a una “speciale” categoria (disabile,
straniero, ecc.). Mentre l’integrazione scolastica, per
gli esponenti del paradigma inclusivo “radicale”, è
rimasta ancorata al campo applicativo dei “bisogni
speciali” riferiti a categorie di allievi “diversi” dalla
norma, nella prospettiva inclusiva il riferimento è
l’insieme delle abilità differenti degli alunni.
Mentre con l’integrazione l’attenzione era posta sui processi di
adattamento, di normalizzazione e di razionalizzazione
dell’organizzazione scolastica, nella prospettiva dell’inclusione
non ci si rivolge a un sostegno specifico, circoscritto alle
condizioni deficitarie, ma a forme di insegnamento e di
organizzazione che comprendono già in esse tutti i sostegni e gli
aiuti necessari per rispondere alle differenti richieste poste dagli
alunni La specificità dell’inclusione, dunque, è lo spostamento
dell’attenzione dal “bisogno speciale” alle barriere che limitano la
partecipazione e l’apprendimento, dalla caratterizzazione
deficitaria di una persona alla strutturazione del contesto e ai
modi personali di ciascuno di porsi nelle esperienze di
apprendimento e socio-relazionali.
Il quadro teorico di riferimento dell’inclusione,
dunque, è del tutto diverso da quello
dell’integrazione L’esperienza italiana alla luce
dell’inclusione secondo il modello sociale della
disabilità L’esperienza scolastica italiana, secondo
gli esponenti dell’approccio inclusivo “radicale”, è
stata ispirata dal modello di integrazione legato allo
sfondo teorico dei bisogni educativi speciali. La
stessa legislazione, secondo loro, ha assunto come
base i concetti di compensazione (Legge n.
517/1977) e di normalizzazione (Legge n. 104/1992).
Questo ha prodotto condizioni per l’accesso alla scuola degli
alunni disabili tramite una diagnosi medica e il loro affidamento
alle figure specializzate (insegnanti di sostegno), il cui compito
era ed è quello di favorire l’adattamento a condizioni già poste
dall’organizzazione. Inizialmente tali insegnanti rappresentavano
un potenziale importante per l’attivazione del processo
d’integrazione, ma nel corso degli anni è emersa una funzione
conservatrice di tale figura, rintracciabile nella continua delega
attribuita ad essa dagli altri insegnanti nella gestione dell’alunno
disabile. In parallelo, sul versante formativo, la creazione di
percorsi differenziati per insegnanti (insegnanti per la classe e
insegnanti specializzati per l’integrazione) ha favorito una
frattura nella professionalità docente e nella responsabilità della
presa in carico non solo degli alunni disabili, ma anche di tutti
coloro che presentavano difficoltà nel loro percorso formatiVI
Offrire una risposta in poche righe non è cosa facile e
semplice. Il termine inclusione, in effetti, non è
comunemente usato a livello internazionale prima degli
anni Novanta del secolo scorso e presenta diverse
interpretazioni a seconda degli ambiti di ricerca
(pedagogico, sociologico, politico) ed a seconda della
logica che sta alla base del suo utilizzo. Riferendosi al
caso italiano ed assumendo come punto di vista il
modello sociale della disabilità, è possibile individuare
almeno tre posizioni riferite all’inclusione Una prima
posizione nei primi anni XXI secolo può essere definita di
“compromesso” ed ha considerato il termine inclusione
inadeguato per il sistema educativo italiano, tanto che è
stato mantenuto il termine integrazione.
E’ nel differente posizionarsi rispetto agli interrogativi precedenti che
emerge la diversa prospettiva entro cui si muovono l’approccio dei
bisogni educativi speciali e quello dell’inclusione. Secondo la
prospettiva inclusiva “radicale”, mentre il primo approccio assume la
concezione dell’integrazione come processo di
adattamento/normalizzazione in un insieme di norme e codici
comportamentali stabiliti a priori, il secondo approccio sposta
l’attenzione sulle barriere alla partecipazione e all’apprendimento di
tutti. La differenza diventa quindi sostanziale tanto che risulta
contraddittorio l’utilizzo del termine inclusione nella prospettiva dei
bisogni educativi speciali. Se per la prospettiva dell’integrazione i
termini inclusione e integrazione sono interscambiabili, nella
prospettiva dell’inclusione i due termini non lo sono e non lo possono
essere in quanto l’inclusione non si riduce all’inserimento e al sostegno
degli alunni con bisogni educativi speciali nei percorsi ordinari né ai
tentativi di adattamento e di razionalizzazione di un contesto per
accoglierli
L’inclusione, dunque, secondo i suoi sostenitori supera la
prospettiva deficitaria e assume come riferimento
l’insieme delle abilità differenti attraverso le quali gli
alunni si propongono ai loro insegnanti, innescando così
richieste legittime di cambiamento nei confronti
dell’organizzazione e della didattica. Il termine “abilità
differenti”, nella prospettiva inclusiva, non assume il
significato di abilità ritenute distanti dalla norma e quindi
deficitarie, ma fa riferimento all’insieme dei percorsi, dei
modi e degli stili che ogni alunno, compreso quello
definito bravissimo, mette in atto per orientarsi e agire
nei processi di apprendimento-insegnamento,
determinandone così la specificità.
Ciò non significa mettere in secondo piano le specificità dei
singoli, confondendole in un generico discorso differenze, anzi
queste assumono un significato e una valenza maggiore: infatti
si presentano come modi personali di porsi e di affrontare le
situazioni di apprendimento e di relazione a cui vanno date
risposte significative e convincenti da parte dell’istituzione
scolastica e dei suoi insegnanti L’educazione inclusiva, quindi,
fornisce uno sfondo adeguato per tutte le “abilità differenti” in
ambienti di apprendimento e di relazione, ed il suo valore e il suo
tratto distintivo stanno nell’assunzione di un concetto di
differenze che, anziché ridurre l’attenzione sulle specificità, le
amplia e le modifica trasformandole da distanza dalla norma a
modi personali degli alunni di porsi nelle diverse situazioni
Questo passaggio risulta fondamentale in quanto, dal un
punto di vista inclusivo “radicale”, uno dei motivi
dell’appannamento e dell’attuale difficoltà del concetto di
integrazione sta nella sua riduzione e nel suo chiudersi
all’interno delle differenze definite deficitarie,
distinguendo le risposte da dare agli alunni disabili o con
difficoltà da quelle relative agli alunni con processi di
apprendimento definiti “normali” In sostanza l’approccio
inclusivo anziché essere un tema specifico relativo a
come alcuni studenti possano essere integrati e
integrarsi nella scuola ordinaria, diventa uno sfondo sia
teorico che operativo per modificarne i presupposti e
farla diventare un’istituzione che riesce a corrispondere
alle differenze di tutti gli alunni e di tutti gli studenti
Alla luce di tutto quanto fin qui detto risulta chiaro
perché, a parere dei teorici dell’inclusione ispirata
dal modello sociale della disabilità, non esiste alcuna
relazione teorica e concettuale fra inclusione e
integrazione. Solo l’inclusione non rivolge la sua
attenzione ai casi deficitari o con particolari bisogni,
ma allarga la sua analisi a tutte le situazioni e
condizioni educative nel loro incontro con le culture
dell’organizzazione scolastica. Solo l’inclusione
assume come ambito d’analisi le ricadute e le
influenze che le strutturazioni dei contesti hanno
sulle diverse situazioni educative e di apprendimento
personali o di gruppo
Per meglio cogliere la differenza tra l’integrazione e
l’inclusione è possibile, assumendo il punto di vista
dell’inclusione “radicale”, tracciare un profilo delle
due prospettive ponendole in parallelo e facendo
ruotare il discorso attorno ai seguenti aspetti chiave:
finalità, modelli teorici, focus dell’azione in campo
scolastico, modelli di insegnamento In conclusione si
può sostenere che nella prospettiva del modello
sociale della disabilità le attività e gli interventi di
integrazione scolastica in Italia non sono e non sono
state delle forme di inclusione Alla luce di questa
prospettiva, non c’è altra possibilità che compiere un
radicale passaggio dall’integrare all’includere85.
Oltre la dicotomia integrazione/inclusione Chi si
occupa di inclusione scolastica con un approccio
anglosassone segue spesso radicalmente il modello
sociale della disabilità e quindi non vuol sentir
parlare di politiche “speciali” per la disabilità, di
bisogni educativi speciali e di pedagogia e di
didattica “speciale”, che sarebbero etichettanti e
stigmatizzanti. In questa prospettiva, in effetti, il
focus non è l’individuo che si differenzia dalla
“norma”, ma le strutture che lo ospitano e le pratiche
disabilitanti che si perpetuano in esse, le quali
possono rappresentare la causa originaria del
bisogno espresso dall’alunno.
Ben si capisce quindi perché alla luce del modello
sociale della disabilità si punti diritto alla piena e totale
inclusione, alla “vera” inclusione, che è un processo di
trasformazione radicale del sistema educativo e che ha
come finalità lo sviluppo di una società giusta e
democratica partendo proprio dalla scuola. Affinché ciò si
verifichi, l’inclusione mira ad identificare tutti quei
meccanismi che escludono alcuni individui dal processo
di partecipazione sociale attiva sulla base di una loro
presunta diversità dalla “norma” e promuove una serie di
cambiamenti strutturali, pedagogici ed organizzativi
necessari per scardinare tutte le forme di
discriminazione, esplicite o implicite, ancora presenti nel
sistema educativo.
Una seconda posizione negli anni immediatamente
seguenti (metà del primo decennio del duemila) ha
scelto di utilizzare il termine inclusione anche se
considerato fondamentalmente un “inglesismo” e
quindi un sinonimo di integrazione. In sostanza si
pensava che il termine inclusione, seppur utilizzato,
non aggiungeva nulla che non era già presente in
quello di integrazione, però in questo modo si poteva
mantenere viva l’eredità della politica italiana
dall’integrazione scolastica senza essere tagliati
fuori dal confronto internazionale.
L’intento è quello di far coesistere queste tre
dimensioni, che devono rinforzarsi
vicendevolmente e non opporsi in nome di una
presunta superiorità di una sull’altra. Viene
dunque ipotizzata l’esistenza di un paradigma
che non sottolinea l’alternativa degli approcci
(integrazione o inclusione), ma che esprime un
modello in grado di offrire una visione non
dicotomica. Al fine di illustrare questa
prospettiva Dario Ianes offre il seguente
schema che illustra i rapporti reciproci degli
elementi in campo
Nella parte interna dello schema, secondo Ianes, si trova
l’integrazione, rivolta agli alunni disabili, per realizzarne il
massimo possibile degli apprendimenti e della
partecipazione. Questo è ovviamente attuabile nella
misura in cui i vari contesti normali della scuola si
coinvolgono e agiscono modificandosi, e queste
modifiche possono, e dovrebbero, essere in direzione
inclusiva. Dovrebbero cioè creare un ambiente di
apprendimento e di partecipazione più adatto anche per
tutti gli alunni La parte mediana dello schema è
l’inclusione e cioè il rispondere in modo efficacemente
individualizzato a tutti bisogni educativi speciali degli
alunni.
Dunque certo agli allievi disabili, ma anche a
tutti quegli altri alunni con qualche difficoltà di
funzionamento, dovuta a qualsiasi
combinazione sfavorevole dei fattori di salute
individuati dal modello ICF dell’OMS. E’ qui in
gioco un concetto di bisogno educativo
speciale diverso da quello solitamente presente
nella letteratura e nelle prassi anglosassoni,
che invece è, secondo Dario Ianes, un
assemblaggio delle più frequenti patologie
diagnosticate dei sistemi internazionali DSM IV
TR o ICD-10.

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  • 1. APPENDICE 2 LA CRITICA INCLUSIVA ALL’INTEGRAZIONE SCOLASTICA ITALIANA SECONDO IL MODELLO SOCIALE DELLA DISABILITA’ ED ALCUNE DIFFERENTI PROSPETTIVE INTERPRETATIVE
  • 2. Dal periodo dell’entrata in vigore dell’autonomia scolastica (D.P.R. n. 275/1999) il termine inclusione, proveniente dal mondo anglosassone, ha cominciato a circolare e a diffondersi sempre di più anche in Italia. Numerose sono state le pubblicazioni che si sono occupate di inclusione ed in anche ambito scolastico questo vocabolo ha preso sempre più piede, sostituendosi in molte occasioni alla parola integrazione. I due termini - integrazione e inclusione - sono persino comparsi insieme in modo perfettamente compatibile, come in alcuni documenti ufficiali. Tra questi spiccano le Linee guida per l’integrazione scolastica degli alunni con disabilità (2009) del Ministero dell’Istruzione, dell’Università, della Ricerca, che nel titolo hanno impiegato il termine integrazione e poi nella III parte del documento hanno esplicitato l’intento di approfondire - cambiando l’espressione - la dimensione inclusiva della scuola.
  • 3. Addirittura, parlando di leadership educativa e cultura dell’integrazione, nelle Linee guida i due termini sono appaiati, viene infatti esplicitato che l’integrazione/inclusione scolastica è (al singolare!) un valore fondativo61 e, poco dopo, nel paragrafo dedicato alla Programmazione, viene affermato che si è integrati/inclusi in un contesto […] quando si effettuano esperienze e si attivano apprendimenti insieme agli altri, quando si condividono obiettivi e strategie di lavoro e non quando si vive, si lavora, si siede gli uni accanto agli altrI. Dunque il termine integrazione e la parola inclusione sono sinonimi? Sono equivalenti?
  • 4. Offrire una risposta in poche righe non è cosa facile e semplice. Il termine inclusione, in effetti, non è comunemente usato a livello internazionale prima degli anni Novanta del secolo scorso e presenta diverse interpretazioni a seconda degli ambiti di ricerca (pedagogico, sociologico, politico) ed a seconda della logica che sta alla base del suo utilizzo. Riferendosi al caso italiano ed assumendo come punto di vista il modello sociale della disabilità, è possibile individuare almeno tre posizioni riferite all’inclusione Una prima posizione nei primi anni XXI secolo può essere definita di “compromesso” ed ha considerato il termine inclusione inadeguato per il sistema educativo italiano, tanto che è stato mantenuto il termine integrazione.
  • 5. Una seconda posizione negli anni immediatamente seguenti (metà del primo decennio del duemila) ha scelto di utilizzare il termine inclusione anche se considerato fondamentalmente un “inglesismo” e quindi un sinonimo di integrazione. In sostanza si pensava che il termine inclusione, seppur utilizzato, non aggiungeva nulla che non era già presente in quello di integrazione, però in questo modo si poteva mantenere viva l’eredità della politica italiana dall’integrazione scolastica senza essere tagliati fuori dal confronto internazionale.
  • 6. Come evoluzione di questa posizione c’è stata anche quella che ha portato ad interpretare il concetto di inclusione come una forma di “integrazione più ampia”, che concerneva non soltanto gli alunni disabili, ma anche gli alunni stranieri, gli svantaggiati dal punto di vista economico sociale e in generale tutti quegli alunni che avevano difficoltà ad accedere al normale curricolo scolastico. , temporalmente in modo parallelo, si è assistito allo sviluppo di una terza posizione, che si può definire “radicale”, nella quale sono state presentate una serie di riflessioni sul sistema italiano in linea con il lavoro svolto dagli attivisti disabili del modello sociale della disabilità (Barton e Oliver), dei sociologi dell’educazione (Armstrong, Barton, Tomlinson, Slee, Allan) e dei riformisti del sistema educativo (Ainscow, Booth) soprattutto appartenenti al mondo accademico anglosassone. In questo caso il concetto di inclusione non aveva nulla a che fare con l’inclusione degli alunni definiti come “vulnerabili” o con bisogni educativi speciali della precedente posizione e, se ciò avveniva, voleva dire che ci si stava muovendo ancora in una logica che era quella dell’integrazione scolastica, non in quella di inclusione.
  • 7. No a caso la posizione “radicale” si è opposta ad una visione che considerava l’inclusione come un sinonimo di integrazione scolastica, tanto da problematizzare fortemente la politica e le pratiche dell’integrazione scolastica. Proprio quest’ultima posizione, sorta alla luce del modello sociale della disabilità, è qui di seguito approfondita e presentata. L’inclusione secondo il modello sociale della disabilità All’interno del modello sociale della disabilità la questione cruciale non è la condizione di bisogno del soggetto, quanto l’inadeguatezza, soprattutto culturale e organizzativa, delle strutture, dei percorsi e delle relazioni educative e formative che generano esclusione e sradicamento identitario: l’essere disabitato come conseguenza della disabilità67.
  • 8. Di conseguenza la logica dei bisogni educativi speciali, che assume il concetto di “distanza dalla norma” e di deficit come riferimento teorico, è proprio ciò che bisogna evitare con l’inclusione. La prospettiva inclusiva espressa in Italia secondo l’approccio del modello sociale della disabilità, che vede tra i suoi esponenti più rappresentativi Roberto Medeghini, Walter Fornasa e Simona D’Alessio, critica fortemente l’integrazione scolastica proprio in quanto legata alla concettualizzazione dei bisogni educativi speciali riferiti solo a “qualcuno” appartenente ad una presunta categoria (ad esempio le persone disabili), mentre nella propria individualità ciascuno è portatore ed esprime “bisogni speciali”.
  • 9. Siccome non esistono persone “normali” e “anormali” in quanto la normalità è la condizione del quotidiano di ciascuno è importante non porre l’attenzione solo su “qualche particolare alunno”, circoscrivendo e accentuando il riferimento alla categoria dei bisogni educativi speciali, ma attuare un’ampia riflessione riguardante i bisogni formativi di “tutti” ed attivare un processo di cambiamento complessivo dell’organizzazione e dei processi di insegnamento e di apprendimento, non riducendosi ad attuare solo forme di razionalizzazione del sistema scolastico e di organizzazione di risorse.
  • 10. Secondo l’approccio del modello sociale della disabilità, con l’integrazione e l’inclusione sono in scena due paradigmi completamente diversi. Roberto Medeghini sottolinea che il primo (integrazione) ha come riferimento principale l’area dei bisogni educativi speciali e le forme di caratterizzazione del sistema scolastico (risorse, procedure, strutture), il secondo (inclusione), assumendo come fondamentale il concetto non deficitario di “differenze”, rivolge la sua attenzione a tutti coloro che partecipano alla vita istituzionale scolastica e sociale, alle relazione fra processi sociali ed educativo-formtivi, ai processi e alle barriere all’apprendimento e alla partecipazione che determinano esclusione o emarginazione del percorso educativo e formativo.
  • 11. Per i fautori dell’inclusione, quindi, i due termini - integrazione e inclusione - da un punto di vista concettuale devono essere chiaramente distinguibili e scindibili. Il concetto di integrazione scolastica, secondo la prospettiva “radicale”, si collega alla Legge n.104/1992, che ha cercato di superare le settorializzazioni assistenziali e puramente socializzanti degli interventi degli anni Settanta guidati dalla prospettiva dell’inserimento. L’obiettivo dell’integrazione è stato lo sviluppo delle potenzialità della persona disabile nell’apprendimento, nella comunicazione, nelle relazioni e nella socializzazione, anche valorizzando il concetto di contitolarità dell’insegnante di sostegno, ma il riferimento è rimasto il “bisogno” prodotto da una condizione deficitaria.
  • 12. Addirittura, parlando di leadership educativa e cultura dell’integrazione, nelle Linee guida i due termini sono appaiati, viene infatti esplicitato che l’integrazione/inclusione scolastica è (al singolare!) un valore fondativo61 e, poco dopo, nel paragrafo dedicato alla Programmazione, viene affermato che si è integrati/inclusi in un contesto […] quando si effettuano esperienze e si attivano apprendimenti insieme agli altri, quando si condividono obiettivi e strategie di lavoro e non quando si vive, si lavora, si siede gli uni accanto agli altrI. Dunque il termine integrazione e la parola inclusione sono sinonimi? Sono equivalenti?
  • 13. A parere degli esponenti dell’inclusione “radicale”, essa assumeva alcuni principi dell’integrazione, ma li ampliava fino a comprendere il suo legame con il tema dell’organizzazione scolastica, della cittadinanza e con altre questioni connesse al problema dell’esclusione e della giustizia sociale. Da questo punto di vista l’inclusione rappresentava il tentativo di saldare fra loro i vari processi formativi e scolastici, quelli sociali e delle politiche relative ai servizi. L’inclusione scolastica, quindi, assumeva una nuova prospettiva in quanto veniva vista e analizzata come parte di un più ampio intervento di inclusione sociale.
  • 14. Proprio la natura sociale dell’inclusione richiedeva non solo un passaggio rispetto al cosa, ma anche al chi. Infatti se l’integrazione aveva come riferimento principale i “bisogni” delle persone disabili o i “bisogni speciali”, l’inclusione all’opposto rivolgeva la sua attenzione a tutti coloro che partecipano alla vita istituzionale e sociale. Ed era questa caratteristica, che aveva una ricaduta sui contesti scolastici, a segnare la differenza fra l’inclusione e l’approccio dell’integrazione. In effetti l’inclusione non si limitava agli alunni disabili oppure agli alunni riconosciuti con “bisogni educativi speciali”, ma prendeva in carico l’insieme delle differenze, comprendendo tutti gli alunni di una scuola.
  • 15. Dato che l’integrazione ha assunto un ruolo sempre più conservatore ed ha perso progressivamente la spinta innovativa iniziale, la conseguenza è stata un’accentuata difficoltà a trovare risposte adeguate non solo all’imporsi delle differenze personali, ma anche alla richiesta di una loro lettura non deficitaria in grado di mettere in primo piano il ruolo dei contesti e in discussione la delega della loro gestione alle figure specializzate (come l’insegnante di sostegno ed il personale dei servizi sanitari).
  • 16. Per questi motivi oggi, secondo Roberto Medeghini, si impone un ripensamento dei presupposti sui quali si sono costruite sino ad ora le esperienze di integrazione La prospettiva inclusiva, nella cornice del modello sociale della disabilità, rappresenta secondo i suoi fautori una svolta innovativa, in quanto non assume l’idea di adattamento e di normalizzazione, e sposta il punto di vista prendendo in esame il ruolo dei contesti e delle istituzioni scolastiche nella costruzione e/o nell’accentuazione e/o nella prevenzione delle condizioni disabilitanti per gli alunni e gli studenti. Sposta cioè l’attenzione sulle barriere alla partecipazione e all’apprendimento di tutti, disabili e non.
  • 17. L’inclusione, quindi, è un processo di cambiamento del sistema educativo al fine di contribuire alla costruzione di una società più inclusiva. In particolare l’educazione inclusiva mira a garantire la partecipazione di tutti gli alunni nel processo di apprendimento in quanto persone e non perché appartenenti a una “speciale” categoria (disabile, straniero, ecc.). Mentre l’integrazione scolastica, per gli esponenti del paradigma inclusivo “radicale”, è rimasta ancorata al campo applicativo dei “bisogni speciali” riferiti a categorie di allievi “diversi” dalla norma, nella prospettiva inclusiva il riferimento è l’insieme delle abilità differenti degli alunni.
  • 18. Mentre con l’integrazione l’attenzione era posta sui processi di adattamento, di normalizzazione e di razionalizzazione dell’organizzazione scolastica, nella prospettiva dell’inclusione non ci si rivolge a un sostegno specifico, circoscritto alle condizioni deficitarie, ma a forme di insegnamento e di organizzazione che comprendono già in esse tutti i sostegni e gli aiuti necessari per rispondere alle differenti richieste poste dagli alunni La specificità dell’inclusione, dunque, è lo spostamento dell’attenzione dal “bisogno speciale” alle barriere che limitano la partecipazione e l’apprendimento, dalla caratterizzazione deficitaria di una persona alla strutturazione del contesto e ai modi personali di ciascuno di porsi nelle esperienze di apprendimento e socio-relazionali.
  • 19. Il quadro teorico di riferimento dell’inclusione, dunque, è del tutto diverso da quello dell’integrazione L’esperienza italiana alla luce dell’inclusione secondo il modello sociale della disabilità L’esperienza scolastica italiana, secondo gli esponenti dell’approccio inclusivo “radicale”, è stata ispirata dal modello di integrazione legato allo sfondo teorico dei bisogni educativi speciali. La stessa legislazione, secondo loro, ha assunto come base i concetti di compensazione (Legge n. 517/1977) e di normalizzazione (Legge n. 104/1992).
  • 20. Questo ha prodotto condizioni per l’accesso alla scuola degli alunni disabili tramite una diagnosi medica e il loro affidamento alle figure specializzate (insegnanti di sostegno), il cui compito era ed è quello di favorire l’adattamento a condizioni già poste dall’organizzazione. Inizialmente tali insegnanti rappresentavano un potenziale importante per l’attivazione del processo d’integrazione, ma nel corso degli anni è emersa una funzione conservatrice di tale figura, rintracciabile nella continua delega attribuita ad essa dagli altri insegnanti nella gestione dell’alunno disabile. In parallelo, sul versante formativo, la creazione di percorsi differenziati per insegnanti (insegnanti per la classe e insegnanti specializzati per l’integrazione) ha favorito una frattura nella professionalità docente e nella responsabilità della presa in carico non solo degli alunni disabili, ma anche di tutti coloro che presentavano difficoltà nel loro percorso formatiVI
  • 21. Offrire una risposta in poche righe non è cosa facile e semplice. Il termine inclusione, in effetti, non è comunemente usato a livello internazionale prima degli anni Novanta del secolo scorso e presenta diverse interpretazioni a seconda degli ambiti di ricerca (pedagogico, sociologico, politico) ed a seconda della logica che sta alla base del suo utilizzo. Riferendosi al caso italiano ed assumendo come punto di vista il modello sociale della disabilità, è possibile individuare almeno tre posizioni riferite all’inclusione Una prima posizione nei primi anni XXI secolo può essere definita di “compromesso” ed ha considerato il termine inclusione inadeguato per il sistema educativo italiano, tanto che è stato mantenuto il termine integrazione.
  • 22. E’ nel differente posizionarsi rispetto agli interrogativi precedenti che emerge la diversa prospettiva entro cui si muovono l’approccio dei bisogni educativi speciali e quello dell’inclusione. Secondo la prospettiva inclusiva “radicale”, mentre il primo approccio assume la concezione dell’integrazione come processo di adattamento/normalizzazione in un insieme di norme e codici comportamentali stabiliti a priori, il secondo approccio sposta l’attenzione sulle barriere alla partecipazione e all’apprendimento di tutti. La differenza diventa quindi sostanziale tanto che risulta contraddittorio l’utilizzo del termine inclusione nella prospettiva dei bisogni educativi speciali. Se per la prospettiva dell’integrazione i termini inclusione e integrazione sono interscambiabili, nella prospettiva dell’inclusione i due termini non lo sono e non lo possono essere in quanto l’inclusione non si riduce all’inserimento e al sostegno degli alunni con bisogni educativi speciali nei percorsi ordinari né ai tentativi di adattamento e di razionalizzazione di un contesto per accoglierli
  • 23. L’inclusione, dunque, secondo i suoi sostenitori supera la prospettiva deficitaria e assume come riferimento l’insieme delle abilità differenti attraverso le quali gli alunni si propongono ai loro insegnanti, innescando così richieste legittime di cambiamento nei confronti dell’organizzazione e della didattica. Il termine “abilità differenti”, nella prospettiva inclusiva, non assume il significato di abilità ritenute distanti dalla norma e quindi deficitarie, ma fa riferimento all’insieme dei percorsi, dei modi e degli stili che ogni alunno, compreso quello definito bravissimo, mette in atto per orientarsi e agire nei processi di apprendimento-insegnamento, determinandone così la specificità.
  • 24. Ciò non significa mettere in secondo piano le specificità dei singoli, confondendole in un generico discorso differenze, anzi queste assumono un significato e una valenza maggiore: infatti si presentano come modi personali di porsi e di affrontare le situazioni di apprendimento e di relazione a cui vanno date risposte significative e convincenti da parte dell’istituzione scolastica e dei suoi insegnanti L’educazione inclusiva, quindi, fornisce uno sfondo adeguato per tutte le “abilità differenti” in ambienti di apprendimento e di relazione, ed il suo valore e il suo tratto distintivo stanno nell’assunzione di un concetto di differenze che, anziché ridurre l’attenzione sulle specificità, le amplia e le modifica trasformandole da distanza dalla norma a modi personali degli alunni di porsi nelle diverse situazioni
  • 25. Questo passaggio risulta fondamentale in quanto, dal un punto di vista inclusivo “radicale”, uno dei motivi dell’appannamento e dell’attuale difficoltà del concetto di integrazione sta nella sua riduzione e nel suo chiudersi all’interno delle differenze definite deficitarie, distinguendo le risposte da dare agli alunni disabili o con difficoltà da quelle relative agli alunni con processi di apprendimento definiti “normali” In sostanza l’approccio inclusivo anziché essere un tema specifico relativo a come alcuni studenti possano essere integrati e integrarsi nella scuola ordinaria, diventa uno sfondo sia teorico che operativo per modificarne i presupposti e farla diventare un’istituzione che riesce a corrispondere alle differenze di tutti gli alunni e di tutti gli studenti
  • 26. Alla luce di tutto quanto fin qui detto risulta chiaro perché, a parere dei teorici dell’inclusione ispirata dal modello sociale della disabilità, non esiste alcuna relazione teorica e concettuale fra inclusione e integrazione. Solo l’inclusione non rivolge la sua attenzione ai casi deficitari o con particolari bisogni, ma allarga la sua analisi a tutte le situazioni e condizioni educative nel loro incontro con le culture dell’organizzazione scolastica. Solo l’inclusione assume come ambito d’analisi le ricadute e le influenze che le strutturazioni dei contesti hanno sulle diverse situazioni educative e di apprendimento personali o di gruppo
  • 27. Per meglio cogliere la differenza tra l’integrazione e l’inclusione è possibile, assumendo il punto di vista dell’inclusione “radicale”, tracciare un profilo delle due prospettive ponendole in parallelo e facendo ruotare il discorso attorno ai seguenti aspetti chiave: finalità, modelli teorici, focus dell’azione in campo scolastico, modelli di insegnamento In conclusione si può sostenere che nella prospettiva del modello sociale della disabilità le attività e gli interventi di integrazione scolastica in Italia non sono e non sono state delle forme di inclusione Alla luce di questa prospettiva, non c’è altra possibilità che compiere un radicale passaggio dall’integrare all’includere85.
  • 28. Oltre la dicotomia integrazione/inclusione Chi si occupa di inclusione scolastica con un approccio anglosassone segue spesso radicalmente il modello sociale della disabilità e quindi non vuol sentir parlare di politiche “speciali” per la disabilità, di bisogni educativi speciali e di pedagogia e di didattica “speciale”, che sarebbero etichettanti e stigmatizzanti. In questa prospettiva, in effetti, il focus non è l’individuo che si differenzia dalla “norma”, ma le strutture che lo ospitano e le pratiche disabilitanti che si perpetuano in esse, le quali possono rappresentare la causa originaria del bisogno espresso dall’alunno.
  • 29. Ben si capisce quindi perché alla luce del modello sociale della disabilità si punti diritto alla piena e totale inclusione, alla “vera” inclusione, che è un processo di trasformazione radicale del sistema educativo e che ha come finalità lo sviluppo di una società giusta e democratica partendo proprio dalla scuola. Affinché ciò si verifichi, l’inclusione mira ad identificare tutti quei meccanismi che escludono alcuni individui dal processo di partecipazione sociale attiva sulla base di una loro presunta diversità dalla “norma” e promuove una serie di cambiamenti strutturali, pedagogici ed organizzativi necessari per scardinare tutte le forme di discriminazione, esplicite o implicite, ancora presenti nel sistema educativo.
  • 30. Una seconda posizione negli anni immediatamente seguenti (metà del primo decennio del duemila) ha scelto di utilizzare il termine inclusione anche se considerato fondamentalmente un “inglesismo” e quindi un sinonimo di integrazione. In sostanza si pensava che il termine inclusione, seppur utilizzato, non aggiungeva nulla che non era già presente in quello di integrazione, però in questo modo si poteva mantenere viva l’eredità della politica italiana dall’integrazione scolastica senza essere tagliati fuori dal confronto internazionale.
  • 31. L’intento è quello di far coesistere queste tre dimensioni, che devono rinforzarsi vicendevolmente e non opporsi in nome di una presunta superiorità di una sull’altra. Viene dunque ipotizzata l’esistenza di un paradigma che non sottolinea l’alternativa degli approcci (integrazione o inclusione), ma che esprime un modello in grado di offrire una visione non dicotomica. Al fine di illustrare questa prospettiva Dario Ianes offre il seguente schema che illustra i rapporti reciproci degli elementi in campo
  • 32. Nella parte interna dello schema, secondo Ianes, si trova l’integrazione, rivolta agli alunni disabili, per realizzarne il massimo possibile degli apprendimenti e della partecipazione. Questo è ovviamente attuabile nella misura in cui i vari contesti normali della scuola si coinvolgono e agiscono modificandosi, e queste modifiche possono, e dovrebbero, essere in direzione inclusiva. Dovrebbero cioè creare un ambiente di apprendimento e di partecipazione più adatto anche per tutti gli alunni La parte mediana dello schema è l’inclusione e cioè il rispondere in modo efficacemente individualizzato a tutti bisogni educativi speciali degli alunni.
  • 33. Dunque certo agli allievi disabili, ma anche a tutti quegli altri alunni con qualche difficoltà di funzionamento, dovuta a qualsiasi combinazione sfavorevole dei fattori di salute individuati dal modello ICF dell’OMS. E’ qui in gioco un concetto di bisogno educativo speciale diverso da quello solitamente presente nella letteratura e nelle prassi anglosassoni, che invece è, secondo Dario Ianes, un assemblaggio delle più frequenti patologie diagnosticate dei sistemi internazionali DSM IV TR o ICD-10.